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Otello Lorentini
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Intervista ad Otello Lorentini
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Padre di Roberto Lorentini *

* Vittima allo Stadio Heysel il 29.05.1985

(Nel Settore Z allo Stadio Heysel il 29.05.1985)
(Presidente Ass. Familiari delle Vittime dal 1985)

L’intervista

A nove anni dalla tragedia il padre di una delle vittime si racconta

Allo stadio Heysel ho visto morire mio figlio

di Ilario Dell’Orto

Mercoledì 29 maggio 1985: la tragedia dell’Heysel. In quel pomeriggio, a Bruxelles, poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e il Liverpool morirono 39 persone e più di cento rimasero ferite. La causa fu un lampo di follia: un gruppo di tifosi inglesi cercò di assalire i sostenitori italiani all'interno dello stadio. La televisione documentò l’accaduto, in una drammatica diretta. Tra le vittime di quel giorno c’era anche Roberto Lorentini, partito per il Belgio con il padre Otello convinto di andare a vedere nient'altro che una partita di calcio. Roberto morì, ma da quel giorno, Otello Lorentini ha cercato di superare il dolore della scomparsa del figlio con l'impegno civile, contro la violenza nello sport e oggi vive con i nipoti Stefanino e Andrea di 11 e 12 anni, figli di Roberto. Entrambi giocano in una squadra giovanile e il nonno li accompagna agli allenamenti.

Signor Lorentini, a quasi dieci anni dalla morte di suo figlio, continua la sua battaglia contro la violenza ?

"Sì, anche se qualcosa è cambiato. Prima avevamo istituito l’Associazione vittime dell’Heysel, che ora non esiste più: fu sciolta nel momento in cui ci venne liquidato il danno da Bruxelles. Ma oggi, ci riconosciamo nel "Comitato permanente contro la violenza nello sport", che già era nato ad Arezzo a nome di mio figlio e dell’altra vittima aretina, Giuseppina Conti. Ora, tutto quello che facciamo, lo facciamo sotto l’egida di questo comitato. Abbiamo fatto convegni, e iniziative anche su temi non strettamente legati alla violenza nello sport, come sulla droga. E con molta probabilità organizzeremo, in vista del prossimo 29 maggio (10° anniversario della tragedia) una iniziativa particolare".

Dopo i fatti dell’Heysel è mai più tornato in uno stadio ?

"No, solo quando accompagno i miei nipoti, che giocano in una squadra giovanile. Seguo il calcio alla televisione e, quando vedo scene di violenza, penso che non sia cambiato niente rispetto ad allora. Non vorrei ripetermi, ma sono dell’idea che aldilà delle responsabilità delle società di calcio e delle istituzioni la colpa è anche della stupidità della gente che fa queste cose. E sono convinto che non sia stato fatto niente. Lo dicono anche certi fatti: dopo l’Heysel: c’è stato lo Sheffield. E poi, quasi tutte le domeniche, inclusa l’ultima, succede qualche episodio violento".

Questo vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Che cosa, secondo lei ?

"Ho l’impressione che si giochi a scarica barile: nessuno si vuole prendere la colpa sapendo di averne una certa parte. È come la storia del cane che si gira intorno per mangiarsi la coda".

Lei prima parlava di "stupidità della gente".

Facciamo un discorso più concreto: la famiglia non esiste più e nemmeno l'educazione... Insomma, basta salire su un autobus e vi può capitare di essere mandati a quel paese da un ragazzino a cui si fa un’osservazione. Credo che molti giovani vadano allo stadio, per sfogare quello che non possono fare a casa loro…".

Un degrado generazionale.

"Non voglio fare il puritano, ma da giovane non mi sarei permesso di mandare a quel paese una persona con i capelli bianchi, come sono io oggi".

I suoi nipoti conoscono la vicenda dell'Heysel ?

"Sì, loro sanno tutto. Anche perché spesso si parla di quel fatto, per via del comitato... E i bambini ascoltano e quando meno te l'aspetti fanno le domande. Per esempio, in questi giorni, vedendo in televisione il processo Pacciani mi hanno chiesto: ma lo condanneranno come è successo a Bruxelles, per la storia del babbo ?".

Per loro il calcio non è proibito…

I miei nipoti, i figli di Roberto, abitavano con me già da allora, quando successe la tragedia. E ho cercato di allevarli nella normalità. Loro ancora oggi parlano del padre come se fosse qui accanto. Credo che siano sereni e non mettono certo in rapporto il gioco del calcio con quello che è accaduto. Poi, non esageriamo, allora avrebbero dovuto odiare gli inglesi...".

E quando i suoi nipoti le chiederanno il permesso di andare allo stadio, che cosa gli risponderà ?

"Non ci sarà nulla di male. Già adesso tifano uno per I'Inter e l’altro per la Fiorentina. Per quel che mi riguarda, ho settanta anni e spero che il Padre eterno mi dia la possibilità di crescerli ancora per un po’. Comunque, in questi anni, grazie anche all’impegno nell’associazione, sono riuscito a sdoppiarmi. Certo, il dolore resta e lo condivido con mia moglie e la mia famiglia, però bisogna anche tirare avanti. Quella sera a Bruxelles mi sono trovato lì con un morto, d’improvviso... Però mi sono rimboccato le maniche e l’ostacolo credo d'averlo superato. Altrimenti non avrei più potuto parlare con chi mi ricordava la morte di mio figlio".

29 ottobre 1994

Fonte: L’Unità
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