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Reduci Heysel C
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Testimonianze Reduci Heysel (C)
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4 CABIATESI

"Heysel, serata maledetta"

I ricordi di quattro cabiatesi

L’anniversario. A Bruxelles 33 anni fa persero la vita 39 tifosi della Juventus. "Dentro il caos, fuori la fuga dagli hooligan. E senza potere chiamare a casa".

Di solito i "vecchi amici" si ritrovano per ricordare un momento felice. Bartolo Longo, Davide Galli, Massimo Mauri e Maurizio Cazzaniga, hanno fatto una rimpatriata, 33 anni dopo la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. I quattro super tifosi cabiatesi, erano presenti, il 29 maggio 1985, sulle tribune dello stadio Heysel a Bruxelles, per quella tragica finale. Gli attacchi di alcuni tifosi dei Reds, provocarono la caduta di un muro del vecchio impianto belga. Nella calca, morirono 39 persone, nella stragrande maggioranza italiani. "Aspettavamo quella partita da settimane" - ricorda Maurizio Cazzaniga. "Lo Juventus Club Cabiate era riuscito ad organizzare la trasferta. A Bruxelles siamo andati in pullman". I cabiatesi, per fortuna, non erano nel settore dove si sono verificati gli incidenti. "Abbiamo visto il fuggi fuggi ma non sapevamo minimamente cosa fosse realmente successo" - prosegue Cazzaniga. "Abbiamo iniziato ad allarmarci quando i due capitani, per la Juventus il compianto Scirea, hanno letto un appello, sottolineando che la partita si sarebbe giocata, per motivi di ordine pubblico". E quando sono arrivati in Francia non gli hanno neppure permesso di cambiare i soldi per fare una telefonata a casa.

30 maggio 2018

Fonte: Laprovinciadicomo.it 

A-Z


4 CREMONESI

"Noi, scampati all’Heysel"

Quattro cremonesi erano nel Settore Z e raccontano la tragedia del 29 maggio 1985

"Questo biglietto era il regalo per i miei 25 anni". Mario Padroni leva il tagliando un po' ingiallito dal taschino. "Stade du Heysel 29/5/85". Era costato 300 franchi belgi. Tre lettere stampate cubitali: X e Y, cancellate a pennarello (lì andavano i tifosi inglesi), e la l. "Era il settore riservato ad una parte di tifosi juventini. C'erano famiglie, bambini e gruppi di amici. Come noi". Mario Pedroni, Ivano Corradi, Luigi Dassi e Luigi Tamagnini salgono sul pullman a Cremona. Poi in treno: Milano-Bruxelles. "Avevo detto a mia mamma ricorda Mario, oggi titolare di una azienda di grafica e, in qualità di delegato provinciale Fidai, organizzatore della Maratonina di Cremona, di guardare bene in tv. Ricordati di fare attenzione quando inquadrano il settore Z. Magari mi vedi". Il pre-partita non lascia presagire quello che sta per succedere: "Nel piazzale dello stadio eravamo mischiati con i tifosi del Liverpool. Scambiavamo magliette, sciarpe, scattavamo foto. Abbiamo persino improvvisato una partita a calcetto nel parcheggio". Anche dentro lo stadio tutto fila liscio. Finché ci siamo accorti che nel settore vicino stavano arrivando gruppi di ultras inglesi, probabilmente senza biglietto". Il settore non li contiene: "Lo stadio - ricorda Dassi - era fatiscente, il cemento si sgretolava sotto i piedi. E la sicurezza quasi inesistente". La folla fuori controllo preme contro la rete sottilissima che divide le tifoserie. E sfonda. "Sono iniziati ad arrivare nel nostro settore razzi ad altezza uomo. Ero terrorizzato". L’orda hoolingan sconfina nel settore Z e preme. Un casco da poliziotto rotola fino ai piedi di Luigi. I quattro amici cremonesi si perdono subito. "Sopra di noi pioveva di tutto - racconta Mario. File di lattine di birra ancora piene e pezzi di cemento staccati dalle gradinate". Ma lì non ci si muove. "Non potevo alzare le braccia per proteggermi da quello che veniva lanciato. Più volte me la sono vista brutta. Mancava l'aria, ricordo le labbra secche, disidratate. E le scene di panico". Gigi Dassi riesce a entrare in campo nonostante la polizia belga, impreparata e completamente disorientata, a cavallo, cercasse a manganellate di far tornare in curva chi, scendendo in campo cercava di mettersi in salvo: "Ho scavalcato il tunnel degli spogliatoi, sopra le teste dei giocatori che da là sotto non vedevano nulla e sono salito in tribuna". Dei quattro è stato l'unico a vedere la partita: "In tribuna non arrivavano notizie precise sui morti. Perciò anche la partita non mi sembrò strana. Solo mi chiesi come mai il settore Z aveva iniziato a svuotarsi cinque minuti prima della fine". Lui uscendo, non sa ancora nulla dei 39 morti, raccoglie anche qualche autografo. Poi ritrova Ivano Corra. Con lo zio belga aveva cercato gli amici fuori dall'Heysel per quasi tre ore. "Mi raccontò - spiega Dessi - che nella calca guardava le scarpe di tutti sperando di riconoscere quelle di Mario o Luigi. Me lo disse piangendo". Pedroni e Tamagnini avevano scavalcato la parete di cinta: "C'era del filo spinato - descrive il delegato Fidai - e ci siamo tagliati". Così, con graffi su braccia e gambe i due amici si ritrovano fuori: "Vedevamo passare le barelle con le persone senza vita portate via". Come molti altri vengono spinti quasi a forza su un'ambulanza. "Mi sono ritrovato all'ospedale e lì c'era il mondo: gente con gambe e braccia spezzate, persone che stavano davvero male. Io me ne sono andato subito". Con l'autostop tornano all'albergo, una trentina di chilometri fuori città. "Non avevamo notizie degli altri due. Quando, molto dopo la mezzanotte, anche loro sono rientrati in albergo ci siamo abbracciati. E' stato un momento di grande commozione". Nessuna festa per la Coppa della Juve. L'unico ricordo è questo biglietto. E una videocassetta: "L'ho rivista solo una volta dice Pedroni, dopo il rientro in Italia. Ma poi è rimasta a prendere polvere. Risentire la voce di Pizzul, con quel tono surreale, mi provoca brutte sensazioni". E' uno sportivo, ogni anno porta in città migliaia di persone per la Maratonina: "E' un'altra mentalità. A me piace tutto lo sport, vado allo Zini e al PalaRadi. A vedere la Pomì o la Vanoli c'è un clima diverso, è una festa". Nel calcio, invece... "Qualche giorno fa a Roma ci sono stati due accoltellati per il derby. Dall'Heysel sono passati 30 anni ma ancora si assiste ad episodi di violenza". Per questo è giusto ricordare la tragedia e le vittime di quel giorno. "Ma ancora più giusto - aggiunge lui - sarebbe impedire che certe cose si ripetano". (f g.)

29 maggio 2015

Fonte: Mondo Padano

A-Z


GIORGIO CALVARESI

Calvaresi: "Io e la strage dell'Heysel: ero lì, scene da incubo"

di Mauro Nardi

A ricordare quel drammatico avvenimento è Giorgio Calvaresi, nativo di Monte Urano, oggi recanatese, che quel 29 maggio 1985 era allo stadio di Bruxelles.

"E' stata una vera tragedia, attimi che non dimenticherò mai. Ancora oggi quando mi capita di andare allo stadio, al palazzetto o assistere a qualche assemblea o incontro pubblico mi posiziono sempre vicino all'uscita". E' la testimonianza di chi ha vissuto sulla propria pelle la strage dell'Heysel dove persero la vita 39 persone in quella che doveva essere una bella giornata di sport con la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. A ricordare quel drammatico avvenimento è Giorgio Calvaresi (foto), nativo di Monte Urano e oggi recanatese d'adozione che quel 29 maggio 1985 si trovava a Bruxelles in compagnia di alcuni amici e dello storico presidente della Monturanese. "La nostra fortuna è stata quella di essere arrivati con ritardo allo stadio e aver trovato posto nella parte alta della famigerata curva Z. Questo ci ha consentito di trovare subito la via d'uscita quando la situazione ha iniziato a farsi drammatica" - racconta Calvaresi, da sempre uomo di sport prima come segretario della Monturanese ed oggi addetto stampa del Basket Recanati che milita in A2 Unica. "Abbiamo raggiunto il Belgio con un volo charter partito da Falconara e appena sbarcati ci siamo accorti che la situazione non era tranquilla, come testimoniavano le strade intorno allo stadio disseminate di bottiglie vuote. Quando siamo arrivati gli scontri erano già iniziati e abbiamo assistito alla tragedia che si compieva sotto ai nostri occhi. La polizia era inadeguata e insufficiente a gestire la situazione e gli hooligans rimasti senza biglietto continuavano ad entrare nello stadio scavalcando i muretti di recinzione. Eravamo consapevoli che sotto di noi qualcuno stava perdendo la vita e non potevamo far nulla per evitarlo". Quella dell'Heysel è stata una strage annunciata proprio a causa dell'inadeguatezza delle forze dell'ordine, delle scarse misure di sicurezza dello stadio ma soprattutto della stupidità e violenza degli hooligans. "L'unica cosa che hanno azzeccato in quella tragica giornata è stata la decisione di far disputare la partita, ancora oggi oggetto di tante discussioni" - dice Calvaresi. "E' stata comunque una strage annunciata. Ad un servizio d'ordine insufficiente si è aggiunta anche l'inadeguatezza dello stadio. Ricordo ancora le gradinate in terra e erba e le reti che ci dividevano dagli inglesi. Sembravano quelle che utilizzano i contadini nei pollai. Ad un certo punto gli hooligans sono arrivati a dieci metri da noi, dei potenti razzi sono volati sopra la nostra testa schiantandosi sulle colonne. A quel punto me ne sono andato. La voglia di assistere alla partita non c'era più, nonostante le 300 mila lire pagate per viaggio e biglietto. La priorità a quel punto era restare vivo. Anche fuori dallo stadio la situazione non era delle migliori. Il caos regnava sovrano e ho raggiunto l' aeroporto chiedendo un passaggio a dei tifosi juventini di Udine". Al dramma di chi è stato testimone oculare di una delle pagine più drammatiche del calcio mondiale si è sovrapposto anche quello di coloro che assistevano alle scene davanti alla tv con l'apprensione crescente nei confronti dei propri cari in trasferta a Bruxelles. "Ovviamente all'epoca non esistevano i cellulari" - conclude Calvaresi. "Sapevo che a casa erano preoccupati per me. Mia moglie e mia figlia probabilmente erano davanti alla tv. Solo dopo alcune ore sono riuscito a tranquillizzarle con una breve telefonata. La partita l'ho ascoltata alla radio ma non c'era proprio niente da festeggiare. Solo quando sono tornato a casa ho realizzato di avere la maglietta insanguinata, perché durante la fuga avevo aiutato qualche tifoso ferito a raggiungere un punto di medicazione. Quelle macchie sintetizzano alla perfezione la tragedia che si è vissuta all'Heysel. Per cinque anni non sono andato più allo stadio, gli incubi hanno rovinato molte ore di sonno e ancora oggi quando vado in posti affollati cerco sempre un posto vicino all'uscita".

30 maggio 2015

Fonte: Marcheingol.it

A-Z

ALBERTO CAPELLA

29 Maggio

Ore 16: dopo una breve gita ad Anversa, l’autobus ci riporta in albergo a Mechelen. Carichiamo quelli che erano rimasti lì e partiamo verso lo stadio. Sul pullman ci vengono dati i biglietti della partita. Faccio notare a mio padre una stranezza: il settore indicato sembrerebbe posizionato nella stessa curva nella quale i giornali collocavano i tifosi inglesi. Probabilmente i giornali sbagliavano… Ore 17: arriviamo allo Stadio. Non sembra di essere nel Nord Europa. Lo stadio è una struttura fatiscente, scalcinata e arrugginita. Il recinto esterno è costituito da un reticolato ossidato e bucherellato ovunque e la zona interna al recinto è piena di erbacce, come fosse abbandonata da anni. Non c’è nemmeno un cartello ad indicarci il settore e solo seguendo il flusso di chi si era informato col passaparola arriviamo di fronte ad un ingresso sul quale si intuisce che un tempo vi fosse scritto: "Settore X-Y-Z". In breve siamo dentro ma c’è qualcosa che non va: attorno a noi ci sono troppe facce e bandiere inglesi per tranquillizzarci. Capiamo che il nostro settore non è quello ma bensì quello al di là della rete da pollaio che divide in due la curva. I più rapidi scavalcano la rete. Diceva De André: "Si sa che gli sbirri e i carabinieri spesso al loro dovere vengono meno" aggiungerei io "tranne che quando sarebbe opportuno farlo" e infatti una gendarme belga, dotata di cane al seguito, dimostrando un quoziente intellettivo rasoterra, blocca tutti gli altri votandoci al linciaggio. Mio padre nel suo discreto francese spiega alla gendarme la situazione: che cioè non ci è più possibile rientrare perché ci hanno già strappato i biglietti e che non ci è nemmeno possibile vedere la partita lì per ovvi motivi. La gendarme è comprensiva e simpatetica quanto un parchimetro rotto. Decidiamo di uscire comunque, avremmo poi deciso come fare. Troviamo un serpentone formatosi nel frattempo che decidiamo essere la coda del nostro settore e ci posizioniamo lì. Ore 18.30: dopo circa un’ora di coda arriviamo all’ingresso che è una porticina larga quanto una persona. C’è una fortissima compressione, il serpentone si fa piccolo per entrare in quella porticina e alla fine si entra trascinati dalla folla. Lo strappatore di biglietti ne controlla uno ogni tanto. Io e mio padre lo ignoriamo e siamo dentro. Il settore Z è strapieno. Anche all’interno lo stadio è completamente in rovina. Le gradinate in cemento sono ovunque rotte e crepate. Siamo stipati come bestie al macello, tanto che il tizio francese o belga di fianco a me mi spintona ogni volta che si gira. Il tifo organizzato bianconero è nell’altra curva, attorno a noi famiglie, gruppi di signori di mezza età: apparentemente i gruppi delle agenzie turistiche. Ore 19: Una comparsata delle squadre in campo ha scatenato i primi cori e la prima adrenalina. Guardiamo con crescente preoccupazione al settore inglese che sembra in ebollizione. Ore 19.15: Parte il primo bengala, basso, ad altezza d’uomo, per colpire. Rimaniamo sbigottiti, si levano proteste e fischi ma dopo pochi secondi parte un secondo razzo e poi un terzo e poi altri ad intervalli regolari. Non sembra più solo la stupidità di un singolo, inizia a serpeggiare la paura, ci si inizia a sentire come bersagli.

Passano pochi minuti e la rete da pollaio di cui sopra viene divelta. I primi inglesi scavalcano ed attaccano il settore italiano, inizia la mattanza. Come pervasi da una follia omicida quelli iniziano a menare fendenti a chi incontrano, a raccogliere i calcinacci che si staccano dalle gradinate ed a lanciarle sulla folla inerme, uno di quei calcinacci spacca la testa di un tizio di fianco a mio padre che quando si gira vedo macchiato del sangue di costui. La folla arretra, si crea una ressa insostenibile, mi sento comprimere il petto. Non capisco dove stiamo andando ma non c’è modo di fare scelte. Poi improvvisamente la ressa si alleggerisce, è successo qualcosa, non so che cosa. Gli inglesi sono sempre là anche se pare che l’assalto si sia fermato, ma mi accorgo che qualcuno ha superato le transenne per cercare salvezza nel campo di gioco dove è accolto con il manganello da altri gendarmi che il destino non ha dotato di facoltà intellettive. Penso ci sia modo di seguirli, urlo a mio padre che si può scendere e scendo di qualche gradino verso il basso. No… Rimango impietrito, attonito. Davanti a me c’è una distesa di corpi, non ci posso credere, non ci voglio credere. Mentre piovono ancora bottigliette un ragazzo sta facendo il massaggio cardiaco ad un ragazza. Vorrei piangere, vorrei urlare, vorrei fare qualcosa ma è dannatamente troppo tardi. Digrigno i denti. "Vorrei ammazzarli tutti quei cazzo di inglesi, ammazzarli tutti, cazzo !!!". Puoi leggere e guardare tutto ciò che vuoi sulla guerra ma solo quando ci affondi dentro, solo quando vedi accanto a te dei corpi cadere, capisci quando è facile reagire alla violenza con violenza, quanto è facile farsi trascinare nella spirale. Dalle mie spalle sento la voce di mio padre. "C’è l’uscita, c’è l’uscita. E’ libera". Quella porticina, da cui pochi minuti prima erano entrate le persone che erano lì distese, adesso è là, libera, non c’è nessun maledetto inglese tra noi ed essa. Urlo a mio padre: "E’ morta della gente. E’ morta". Mio padre mi trascina via, sento che qualcuno dietro di noi è stato ancora colpito da qualcosa. Imbocchiamo la porticina, siamo fuori. Fuori però c’è ancora il recinto e l’uscita è davanti al settore inglese, ma fortunatamente quella vecchia recinzione arrugginita è piena di buche, forziamo una di quelle e siamo fuori. Andando verso il parcheggio degli autobus incontriamo una famiglia inglese, padre, madre e figlio. Ho una rabbia folle dentro di me che non riesco a controllare e la faccia mi si contrae in una smorfia che da quel giorno accompagna tutti i miei momenti di grande rabbia. Il bambino mi guarda spaventato. Chissà se quel bambino si è mai domandato perché avessi quella faccia quel giorno… Ore 20.15: Siamo al parcheggio degli autobus e cerchiamo di capire cosa è successo, perché, come. Vediamo arrivare piano piano gli altri della comitiva. Intanto la radio e la televisione diffondono le prime notizie. Ore 22: L’autobus si avvia verso Mechelen. Non ci sono tutti. Facciamo il conto di chi manca come chi conta i suoi caduti. Ore 23: Arriviamo in albergo. Qualcuno accende la televisione. Stanno giocando. Guardo come fossero fantasmi gli eroi per i quali eravamo venuti fin quassù, eravamo venuti pensando a tante cose ma mai alla morte. Ricordo ancora gli occhi spiritati di Tacconi in un ricordo liquido come quello di un incubo. Ore 24: Usciamo a mangiare qualcosa. Una signora belga, dalla finestra, in un ottimo italiano, ci esprime solidarietà. Mi commuovo. Solo e soltanto in quel momento mi sembra di essere tornato sulla terra che conoscevo.

29 maggio 2015

Fonte: Ejoujo.eu/ilcoloredelgrano

A-Z

GIANNI CARPITELLI

Parla Carpitelli, sopravvissuto all’Heysel: "Non ho mai voluto vedere nulla

di quella notte prima di 7-8 anni. Mio fratello mi cercava tra i cadaveri"

di Fabio Marzano

Gianni Carpitelli, tifoso juventino e sopravvissuto all’inferno dell’Heysel, ha rilasciato delle dichiarazioni in esclusiva alla nostra redazione.

TORINO - Sono trascorsi quasi 35 anni da quando è stata scritta una delle più brutte pagine della storia del calcio, quando il 29 maggio del 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, perdevano la vita 39 persone, in occasione della finale di Champions League tra Juventus e Liverpool. Ancora oggi però, quella drammatica e tragica notte non viene mai dimenticata e anzi, ogni anno viene commemorata dai parenti delle vittime e da tutto il popolo bianconero. A tenere vivo il ricordo è stato un tifosissimo della Vecchia Signora, Gianni Carpitelli che quella serata infernale l’ha vissuta sulla sua pelle, riuscendo però a salvarla e a tornare in Italia da solo, quando era ancora un minorenne.

Cosa rappresenta la Juve per lei ?

"La Juventus per me è la vita. A livello sportivo ha sempre rappresentato qualcosa che va oltre il tifo. È la mia seconda pelle, va al di là di una partita di calcio. L’ho sempre sentita in maniera particolare, quando ero giovane chiaramente molto di più, ora tra lavoro e famiglia sono un po’ limitato ma è sempre al centro dei miei pensieri".

Questo senso di appartenenza ai colori bianconeri, è incrementato dopo quella tragica notte ?

"No. Io avendola vissuta in prima persona e avendo rischiato di non tornare quella notte sono rimasto un po’ deluso da tutto l’ambiente circostante, politica compresa. Per quanto riguarda la squadra, io quella partita non l’ho vissuta perché, fortunatamente mi trovavo in tutt’altro posto dallo stadio nel momento in cui stavano giocando. Non ho mai voluto vedere niente di quella notte prima dei 7-8 anni, non ci riuscivo. Però non ho mai avuto un distacco dalla squadra dal punto di vista sportivo anche se per me quella Coppa non esiste. Per quanto riguarda quella serata e quella partita ho rimosso tutto, però l’attaccamento alla squadra e ai colori è rimasto tale. Ho rivisto tutte le finali negli anni successivi, sia in tv che andando allo stadio. L’unico momento in cui ho avuto veramente paura quella notte è stato quando mi hanno trascinato fuori lo stadio e mi hanno caricato su una camionetta insieme a due tifosi inglesi. Mi hanno messo le manette e siamo partiti a 200 all’ora. Io ho avuto paura perché non conoscendo le leggi del Belgio e non sapendo perché ero finito lì, facevo anche pensieri folli del tipo: "Ora ci portano in un campo e ci sparano", in quei frangenti pensi a tutto. Poi fortunatamente, avendo studiato francese a scuola, sono riuscito a cavarmela e la notte mi hanno rilasciato".

Che atmosfera si respirava prima del match ? Temevate gli inglesi o pensavate di passare una serata di sport ?

"Noi siamo partiti con il pullman da Firenze e abbiamo saputo che qualcosa non andava con i biglietti solamente a Strasburgo. Ci siamo fermati lì la notte a mangiare una cosa e a bere una birra insieme agli altri tifosi. Ci hanno voluto dare gli ultimi biglietti rimasti che erano quelli per la curva Z e solo allora abbiamo appreso che si trattava del settore accanto ai tifosi inglesi. Però lì per lì l’abbiamo presa in maniera molto tranquilla, senza neanche pensarci troppo. Poi la mattina successiva abbiamo saputo che ci furono alcuni incidenti e tafferugli nella piazza centrale di Bruxelles. Io mi ricordo benissimo che feci una battuta del tipo: "Si dovrebbe restare qui a guardarla in tv", pensandoci dopo con il senno di poi, ti rendi conto che era destino. Arrivati fuori dallo stadio si vedeva già che c’erano dei casini, con gente sdraiata a terra. Prima della partita in quella situazione li, speri di non pensarci e vai dentro, poi però una volta entrato, quando mi sono reso conto delle condizioni che c’erano all’interno, con una rete da pollaio che divideva noi dai tifosi inglesi e con soli 3 poliziotti, ti accorgi in che situazione delicata ti trovi.  Io sono stato fortunato perché sono riuscito a farmi trascinare verso il basso, dove c’era una porticina che affacciava sulla pista di atletica, dove inizialmente i poliziotti non facevano neanche passare e provavano a chiudere, siamo riusciti a passare in circa 20 persone e io sarò stato il 19esimo, un vero colpo di fortuna. Solo che a differenza degli altri che sono andati tutti sotto la tribuna dei giornalisti, dove c’erano le ambulanze per farsi medicare, io sono andato dalla parte opposta della curva. Questo perché due anni prima ero ad Atene e avevo conosciuto 3 ragazzi di un fan club della Juve che erano lì anche loro e speravo che magari vedendomi mi riconoscessero, ma era una follia. Era un’atmosfera da guerriglia, sapevamo degli Hooligans, però cerchi sempre di non pensarci finché non lo provi realmente. Le gradinate si rompevano come fossero pezzi di carta, credo non ci sia stato neanche il momento di pensare più a niente, se non il fatto di indietreggiare e cercare di ripararsi. Nella mischia ho perso anche mio fratello e l’ho ritrovato dopo due giorni a casa, per farti capire in che clima eravamo, ognuno pensava a salvare sé stesso".

Cosa è accaduto realmente all’interno del settore Z ?

"Mi ricordo vagamente alcune cose. Mi ricordo che siamo entrati dentro lo stadio ed è accaduto poco tempo dopo che noi eravamo li. Loro iniziarono prima a fare dei cori, poi secondo me, quando la curva era completamente piena, quando anche l’alcool era risalito bene e noi invece eravamo ancora pochi tifosi, con molti spazi vuoti, li è successo il vero dramma. Credo mancasse circa un’ora e mezzo prima che la gara iniziasse. Dopo un po’ abbiamo iniziato a vedere questo lancio di oggetti di qualsiasi tipo che ci sfioravano le teste, poi dalla parte alta dello stadio ci siamo accorti che gli inglesi avevano iniziato a sfondare la rete e a passare nel nostro settore, con sassi, bottiglie rotte, aste delle bandiere e da lì sinceramente non ho più visto nulla, se non in televisione. Mi sono ritrovato in questa ondata di gente, saremo state circa 5000 persone e non potevi andare dove ti pareva, ma venivi trascinato dalla folla, questo era testimoniato dal fatto che altrimenti anche le 39 vittime sarebbero volute andare in tutt’altro posto. La mia salvezza è stata il fatto che io sono stato spinto verso il basso, vicino alla porta della pista di atletica dalla quale sono riuscito ad uscire. Altri invece si sono buttati verso l’alto dove erano gli inglesi e si sono salvati. Diciamo che ognuno ha usato la sua tattica per mettersi in salvo, ma chi era veramente al centro di quel settore, ha passato l’inferno. Poteva andare peggio ma poteva andare anche molto molto meglio".

Lei una volta arrivato sulla pista di atletica, si è accorto subito della situazione o pensava che ci fossero solo dei feriti ?

"No, io in teoria ero convinto non ci fossero neanche i feriti. In quel momento pensavo a salvarmi, ho detto tra me e me vado di là per via dei ragazzi di Atene che dicevo prima, ma è stato un gesto stupido se ci penso ora. Se fossi andato sotto la tribuna magari mi sarei reso conto più da vicino cosa fosse realmente accaduto, o per lo meno sarei riuscito a mettermi in contatto con mio fratello e i miei genitori e forse sarebbe andata meglio. Io non mi sono reso conto di nulla all’inizio. Durante la notte però, ho visto che arrivavano in continuazione a portare dei sacchi neri vicino alla cella dove ero io, tutti contenenti abiti insanguinati. Chiesi gentilmente cosa fosse successo a un gendarme e lui mi rispose in maniera squallida: "Ci sono stati degli incidenti, ci sono stati dei morti", poi fece una battuta e disse: "Cosa te ne frega tanto avete vinto". Me lo ricordo molto bene perché se potessi tornare indietro lo prenderei a calci. Avevo solo 17 anni, stavo passando una notte da incubo ma sapevo che prima o poi mi avrebbero rilasciato perché non avevo fatto nulla".

Da tifoso juventino e avendo vissuto quella serata, lei condanna o giustifica il gesto di Platini ?

"Sono molto combattuto su questa cosa. Avendo vissuto la serata e se non ci fosse stato quello che è accaduto, da sportivo dico che è un gesto che chiunque farebbe se segna un gol in finale di Champions, da quel punto di vista posso anche capire. Riportando il nastro indietro però penso che quella partita non l’avrei mai fatta giocare. C’è stata veramente mancanza di ordine pubblico, lo stadio crollava a pezzi, non c’erano poliziotti, è stato sottovalutato veramente tutto, compreso il fatto di mettere gli italiani accanto agli inglesi. Per quanto riguarda l’esultanza in sé per sé ti ci devi trovare, perché per uno sportivo segnare un gol così importante può essere comprensibile che reagisca cosi. Certo però, mi sarei risparmiato di scendere all’aeroporto di Torino con la Coppa in mano. Sinceramente io l’avrei lasciata nella stiva dell’aereo".

Molti giocatori hanno sempre dichiarato di non essersi accorti di nulla, pensi che sia possibile ?

"Io non credo proprio. Chiunque potesse interessarsi dell’accaduto si sarebbe reso conto che fosse accaduto qualcosa, magari non capivi se ci fossero stati morti, però che fosse successo qualcosa di serio era inevitabile capirlo. Un conto poi è essere protagonisti in curva e un conto è esserlo all’interno, dove hai tutti gli occhi del mondo addosso e i vertici dell’UEFA presenti, che ti pressano per far sì che la partita venga giocata, è sempre tutto da valutare. Documentandomi poi posso dirti che non mi è piaciuto anche il gesto dello stesso Boniperti".

Come è riuscito poi a tornare in Italia ?

"Io sono riuscito perché la mattina successiva alla stazione di Bruxelles, ho sentito due persone parlare italiano, un giornalista de La Stampa e un padre con il figlio. Mi hanno prestato i soldi per arrivare in Lussemburgo, altrimenti poi non li avrebbero avuti per tornare loro. A me bastava uscire dal Belgio, potevano mandarmi anche in Finlandia basta che uscissi da lì, era il mio unico desiderio. A Lussemburgo alcuni poliziotti del posto mi comprarono il biglietto e riuscii a tornare in Italia. Nel frattempo i miei genitori erano già all’aeroporto di Pisa per andare a Bruxelles, convinti di venirmi a prendere in una bara perché non avevano più notizie mie di nessun tipo, né dai morti, né dai feriti gravi, mio fratello non riusciva a dargli spiegazioni. Io sono riuscito ad avvisare a casa, a una nostra amica di famiglia che era rimasta lì a prendere le telefonate. Di conseguenza avvisò la polizia italiana della mia chiamata e riuscii poi a ritrovare la mia famiglia. Dal mercoledì sera io sono tornato di sabato mattina alle 4″.

Gli eventi di quella notte hanno poi causato degli effetti collaterali sulla vita quotidiana ?

"Io forse no. Poi ognuno di noi pensa di essere sempre invincibile, comunque a livello pratico non ne ho risentito in maniera particolare. Io dopo quella partita sono andato da solo a Monaco in treno, a vedere la partita contro il Borussia, sono andato a Manchester da solo a vedere quella con il Milan, insomma ho sempre continuato ad andare allo stadio e a fare le mie cose. ho partecipato a manifestazioni di ogni tipo e posso dire che l’ho catalogato come un incidente di percorso. Mio fratello invece è rimasto segnato, va ancora in cura dallo psicologo, lui poi ha trascorso il tempo a sollevare i cadaveri per vedere se mi trovava in mezzo ai corpi delle persone morte e questo credo lo abbia traumatizzato. Non riesce più a fare la fila neanche per andare a fare la spesa, poi ha un carattere spigoloso e differente dal mio. Forse alcune cose che io non ho visto a lui hanno cambiato il corso delle cose".

Ringraziamo cortesemente Gianni Carpitelli per la disponibilità.

15 luglio 2019

Fonte: Juvenews.eu

... GIANNI CARPITELLI ...

TESTIMONIANZA

Buonasera, mi chiamo Gianni Carpitelli ho 48 anni e scrivo da Castelfiorentino (Fi). Quella sera avevo 17 anni e accompagnato da mio fratello che di anni ne aveva 19, avendo trovato i biglietti dell'Uefa all'ultimo minuto, decidemmo di partire con il pullman da Firenze (nella nostra comitiva trovò la morte Bruno Balli cameriere di Prato) verso Bruxelles. Vi risparmio l'ingresso allo stadio che fu già traumatico nel vedere migliaia di inglesi fuori già ubriachi.  Saliva la preoccupazione ma anche la voglia di far festa. Dopo poco tempo dall'ingresso su quelle maledette gradinate che si spezzavano con il niente, iniziò ad arrivare di tutto dalla nostra parte, i poliziotti presenti erano 3 e stavano a debita distanza dalla situazione, quando le reti vennero divelte e gli hooligans iniziarono a entrare nella nostra parte di curva, mi sentii sollevato da migliaia di persone e praticamente andavi dove la massa ti portava: fortuna volle che fui tra gli unici 15/20 che incanalato verso il basso passò dalla porticina per entrare nella pista d'atletica (che la polizia cercava di chiudere). Gli altri ebbero la freddezza di rifugiarsi sotto la tribuna centrale, verso gli spogliatoi, io invece mi diressi sotto la curva degli juventini. Mi misi a chiedere aiuto e a un certo punto mi presero per il braccio da dietro e facendomi strusciare in terra mi portarono fuori dallo stadio, arrivati alla camionetta mi misero le manette e insieme a due inglesi partimmo a tutta velocità verso la Gendarmerie. Lì rinchiuso in cella ignaro dello sviluppo della situazione, rimasi fino al processo verbale che mi fecero alle 2 la notte per poi sbattermi fuori verso le tre e mezzo. Cercai da solo la strada per la stazione dove arrivato oltre a trovarla chiusa, davanti c'erano 500 inglesi circa a bivaccare e dormire, feci 2 passi indietro per buttare via le sciarpe ed entrai nel mezzo alla piazzetta, sentii parlare italiano e chiesi aiuto, i documenti ce l'aveva mio fratello in quanto maggiorenne, un giornalista della stampa e un ragazzo siciliano mi rifocillarono raccontandomi a grandi linee ciò che era accaduto, mi pagarono il biglietto fino al Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a mettermi in contatto con una persona che i miei genitori avevano lasciato a casa, stavano andando a Pisa a prendere l'aereo convinti ormai di riportarmi a casa morto, perché nel frattempo mio fratello insieme al padre di Roberto Lorentini di Arezzo, deceduto anch'esso, portati all'ambasciata italiana dopo aver alzato tutti i morti perché non si capacitava di dove potessi essere finito, non aveva il coraggio di chiamare i miei per dirgli che non mi trovava più. Io da quel tragico Mercoledì sono tornato il Venerdì mattina in treno, Enrico, mio fratello il giovedì in aereo, i miei genitori furono avvertiti della mia salute poco prima dell'imbarco. Io ho fatto migliaia di km per vedere tutte le finali seguenti, mio fratello è andato in terapia e non può affrontare file di persone di nessun tipo… Stiamo bene e ci pensiamo sempre. Grazie, saluti.

30 maggio 2016

Fonte: Facebook (Pagina Comitato Heysel)

A-Z
... GIANNI CARPITELLI ...

Un testimone racconta la tragedia dell'Heysel 30 anni dopo

Gianni Carpitelli sfuggì per caso alla morte nello stadio della finale di Champions fra Juventus e Liverpool

di Irene Puccioni

Castelfiorentino, 29 maggio 2015 - Un viaggio all’inferno, andata e ritorno. Sono passati trenta anni e l’Heysel è ancora un incubo che tormenta i sonni di Gianni Carpitelli, oggi 48enne, padre di due figli, che nonostante tutto continua ad amare il calcio e la sua Signora. Il 29 maggio 1985 anche lui era nella Z, la curva dove morirono 39 persone poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. "Avevo 17 anni - ricorda Gianni - e con mio fratello Enrico, di due anni più grande, avevamo trovato all’ultimo minuto i biglietti per la finale. Quando arrivammo all’ingresso dello stadio ci trovammo di fronte migliaia di inglesi già ubriachi. Prendemmo posto sulle gradinate che già si spezzavano sotto il nostro peso. Tirammo fuori sciarpe e bandiere e cominciammo a sventolarle. All’improvviso cominciò a piovere di tutto: pezzi di gradinate, bottiglie rotte. I tifosi inglesi avanzavano verso il nostro settore, spingevano sulla rete, finché non cedette". Era la fine della festa e l’inizio della tragedia. I tifosi si ritrovarono ammassati al muro, che ad un certo punto crollò. Moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita. "Io - continua Gianni - fui sollevato dalla massa di persone. Andavo dove la folla mi portava. Fui tra i pochi che si trovarono incanalati verso il basso e passando dalla porticina d’ingresso della pista d’atletica, che la polizia cercava di chiudere, mi ritrovai in campo. Spaesato e senza più Enrico al mio fianco, mi diressi sotto la curva degli juventini e cominciai a chiedere aiuto. Un poliziotto mi afferrò e mi trascinò fuori dallo stadio, mi ammanettò e mi buttò su una camionetta insieme a due inglesi. Trascorsi sette ore in prigione, ignaro dello sviluppo della situazione. Non avevo documenti con me, li aveva Enrico, che non aveva la minima idea di dove fossi finito. Rimasi in cella fino al processo verbale a cui fui sottoposto alle 2. In qualche modo spiegai chi ero e le mie intenzioni. Mi rilasciarono". "Mi ritrovai per strada a Bruxelles nel cuore della notte, senza un soldo né documenti. Un taxista mi indicò la strada per la stazione. All’ingresso mi trovai di fronte un tappeto di almeno 500 inglesi che bivaccavano e dormivano. Feci due passi indietro per buttare via le sciarpe della mia squadra. Sentii parlare italiano e chiesi aiuto". "Un giornalista de La Stampa e un ragazzo siciliano mi rifocillarono e informarono di ciò che era accaduto. Mi pagarono il biglietto fino al Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a mettermi in contatto con la mia famiglia". "I miei erano già all’aeroporto di Pisa per prendere il primo aereo convinti, ormai, di riportarmi a casa morto. Le loro speranze si erano ridotte al lumicino, perché nel frattempo mio fratello, dall’ambasciata italiana, era riuscito a contattarli e dire loro che non sapeva dove fossi finito. Prima di lasciare lo stadio, Enrico era venuto anche a cercarmi tra i morti. I miei furono avvertiti che ero vivo prima di partire per il Belgio. Da quel tragico mercoledì riuscii a tornato a casa in treno il venerdì mattina. Enrico arrivò il giorno prima in aereo, convinto di avermi perso per sempre. Lo riabbracciai all’alba di due giorni dopo a Castelfiorentino". A quella tragica esperienza i fratelli Carpitelli hanno reagito in modo diverso. Gianni ha continuato a farsi migliaia di chilometri per assistere a tutte le finali della sua Juve; Enrico, invece, non riesce più ad affrontare code di alcun tipo. Gianni il prossimo 6 giugno a Berlino per la finale di Champions contro il Barcellona non ci sarà, ma solo perché non è riuscito a trovare i biglietti. "La guarderò in tv - dice - Come ogni finale l’aspetto con gioia e trepidazione, ma con il pensiero rivolto a quelle 39 vittime e alle loro famiglie".

29 maggio 2015

Fonte: Lanazione.it

A-Z

LUIGI CARRIERA

Il racconto di Luigi Carriera, superstite dell’Heysel

 "Quella tragica serata nella curva Z"

di Antonio Lo Vecchio

29 maggio 1985, una data che cambiò il calcio. Una notte che doveva essere di festa per l’Italia bianconera. Una notte che invece fu di sangue e morte.

Stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus del Trap e di Platini, e i campioni in carica del Liverpool. Una partita attesa come non mai dai tifosi bianconeri, dopo la delusione di Atene di due anni prima. Come allora furono tanti i tifosi partiti da tutto lo stivale per il Belgio, per assistere alla finalissima della loro squadra del cuore. Tra questi Luigi Carriera, infermiere professionale della Casa Sollievo della Sofferenza, 35 anni, sposato con due bambini in tenera età. C’era anche lui ad Atene, due anni prima. Quel 25 maggio 1983 un gol di Magath fece sprofondare nella disperazione sportiva i tifosi della Vecchia Signora. Gino, tifosissimo bianconero fin da bambino, decide di tornare a vedere la sua Juventus in finale, nella speranza di un esito diverso. Parte da San Giovanni Rotondo assieme ad un collega, Andrea, anche lui sangiovannese e tifoso bianconero, che, come molti italiani, aveva un fratello emigrato in Belgio, che è riuscito ad avere dei biglietti per la finale del 29 maggio. Quel giorno Gino, assieme al compagno di avventura Andrea e altri due parenti di quest’ultimo, partono così in auto da Frameries, paesino poco distante da Mons, in direzione Bruxelles. Arrivati nei pressi dello stadio Heysel parcheggiano l’auto e si incamminano verso lo stadio. Qui inizia il racconto di Gino: "Arrivati nei pressi dello stadio, avevo come la percezione che qualcosa sarebbe andato storto. La zona antistante l’Heysel era già un tappeto di bottiglie di birra e di alcool. I tifosi del Liverpool erano già su di giri, per non dire ubriachi. Attorno alle 18 decidiamo di entrare allo stadio. Ci fecero entrare in una piccola porticina assieme ai tifosi del Liverpool. Entrati in curva ci siamo accorti di essere nel settore dei tifosi Reds, per questo scavalchiamo la rete, definita da molti come la rete del "pollaio" e entriamo nel famigerato settore Z della curva, riservata ai tifosi bianconeri. Un settore non destinato alle tifoserie organizzate. In gran parte erano famiglie, ragazzi, donne e bambini. Gente semplice, magari molti emigrati italiani in Belgio che volevano semplicemente seguire e tifare la loro squadra del cuore. Noi quattro ci posizioniamo giusto al centro del settore. Eravamo appiccicati l’un l’altro come sardine, non avevo nemmeno lo spazio per poter prendere le sigarette dal taschino. Lo stadio era un colabrodo, bastava battere un po’ col piede sulle gradinate per far staccare pietre e sassi. Un impianto totalmente inadeguato per un evento del genere. La sicurezza inesistente, solo qualche agente della gendarmeria a cavallo. Due anni prima ad Atene tutto funzionò alla perfezione. Già da quello che stavo vedendo avevo degli strani sentori. Ad un certo punto vediamo che i tifosi del Liverpool, posizionati a pochi metri da noi, divisi solo dalla retina del "pollaio" danno fuoco ad una bandiera dell’Italia. Da quel momento capimmo che non sarebbe stata una tranquilla serata di sport. Gli hooligans sfondarono con disarmante facilità quella retina e si riversarono con tutta la loro furia sul nostro settore. Noi eravamo al centro della curva Z e fummo sommersi dall’ondata rossa. Io e i miei amici finimmo schiacciati da altre persone sotto la spinta degli inglesi. Tra me e me pensai "E’ la fine, qui moriamo tutti". E il mio primo pensiero fu verso mia figlia che aveva solo due anni all’epoca. Ad un certo punto, quando già non riuscivo e respirare, qualcuno, non ricordo chi, mi prese dalle braccia e mi tirò fuori da quell’inferno di corpi ammassati gettandomi giù dalla gradinata. Mi ritrovai così nella confusione di nuovo in piedi. Scappai verso il campo e una volta sul prato vidi la curva ondeggiare come quando il vento soffia su un campo di grano. Scappai sul terreno di gioco ma fui fermato da un poliziotto: cercavo di spiegare, non sapevo la lingua e ad un certo punto svenni per la fatica. Il gendarme ricordo che chiamò i soccorsi ma ben presto mi risvegliai e stordito com’ero riuscii a trovare un’uscita. In pochi attimi mi ritrovai vivo e fuori dallo stadio. Non avevo però più notizie dei miei tre amici. Fuori dallo stadio, pieno di sangue e coi vestiti strappati, cercai un po’ di acqua. Una gentile signora mi diede una bella caraffa che bevvi in pochi secondi. Anche fuori stava succedendo di tutto: risse, ambulanze, gendarmerie in totale confusione. Insomma delle scene apocalittiche. Mi diressi verso la macchina per vedere se gli altri miei compagni fossero lì. Aspettai un altro po’ poi, non vedendoli arrivare, chiesi informazioni per andare alla stazione e prendere il treno per Mons. Una vecchietta vedendomi in difficoltà mi aiutò: mi fece telefonare a casa per avvisare i miei cari che ero vivo. Poi mi comprò il biglietto del treno per farmi arrivare a Mons. Alla stazione vidi in tv che la partita era iniziata nonostante tutto. Arrivato a Mons telefonai al casa del fratello di Andrea per farmi venire a prendere da Frameries da qualcuno. Una volta a casa del fratello di Andrea tutti mi chiesero che fine avessero fatto gli altri tre miei amici. Io raccontai la mia versione dicendo che non sapevo nulla di loro. A questo punto un parente del fratello di Andrea che sapeva la lingua mi disse "Gino, dobbiamo tornare a Bruxelles in auto, dobbiamo riportare gli altri tre a casa". Stremato com’ero ci mettemmo in macchina alla volta di Bruxelles per cercare notizie su Andrea, il fratello e l’altro amico. Intanto la partita era finita. Ma cosa assai più importante è che il bilancio di quella notte folle era di 39 vittime. Arrivammo nel punto dove avevamo lasciato la macchina parcheggiata e non trovammo né loro, né l’auto. Non sapevamo se l’avevano, rubata, rimossa, incendiata oppure era un segnale che l’avevano ripresa ed erano sani e salvi. Chiedemmo alla gendarmerie ma nulla. Lasciammo alla polizia anche la carta di identità di Andrea che avevo io in tasca per vedere se era tra le vittime di quel massacro. Fortunatamente no e dopo aver rilasciato delle dichiarazioni a caldo alla polizia e a qualche giornalista tornammo verso Frameries, a notte fonda ormai, nella speranza di ritrovarli a casa sani e salvi. E così fu: i tre si erano messi in salvo e ironia della sorte cercavano proprio me, temendo che potessi essere tra le vittime. Fu così che scoppiammo in un pianto e abbraccio liberatorio, pensando alla fortuna di essere ancora vivi. Tornai a casa dopo due settimane perché oltre allo shock, non ero nelle condizioni di guidare e ritornare a San Giovanni. Feci degli esami al torace perché avevo difficoltà nella respirazione e dopo quindici giorni di riposo rientrai a casa a riabbracciare la mia famiglia. A distanza di 30 anni sono sempre più convinto che fu un bene giocare quelle partita. Altrimenti altro che 39 morti, avremmo assistito ad una vera e propria carneficina. Da quel giorno non misi più piede in uno stadio di calcio. Addirittura nei primi giorni dopo il mio rientro, ricordo che c’erano le elezioni a San Giovanni: avevo paura a stare in mezzo alla gente. Mi mancava l’aria e mi sentivo soffocare nel ricordo di quella sera. Una sera che a distanza di 30 anni ho deciso di rivivere, per la prima volta, in questa mia testimonianza. Dopo 30 anni da quella maledetta notte, la mia Juventus è di nuovo in una finale di Coppa di Campioni. Non so se sia un segno del destino. Dico solo che sarebbe bellissimo vincere la coppa e dedicarla a quelle 39 persone che in quella sera dell’85 volevano solamente vedere la propria squadra alzare la coppa al cielo". Grazie Gino per la tua toccante testimonianza.

30 maggio 2015

Fonte: Sanmarcoinlamis.eu

A-Z

"Solo di fronte alle lacrime di mia figlia e mia moglie la gravità della tragedia"

Vent'anni dopo, Dave Murphy e Valerio Cavagnetto rievocano la notte di Bruxelles mentre nella sede della Juve è stato inaugurato un cippo bianconero.

"No, quella dell'HEYSEL non è stata l'ultima volta che sono andato allo stadio. L'ultima è l'incontro Argentina-Brasile, durante i Mondiali di Italia 90. Ma l'atmosfera di quella partita era ben diversa da quella di JUVENTUS e LIVERPOOL". Sessantotto anni, ex direttore dell'Assindustria di Ivrea, tifoso bianconero doc, Valerio Cavagnetto quel maggio di 20 anni fa era andato in Belgio con un gruppo di amici. E di quella trasferta ancora oggi ha in mente tutti i particolari, i dettagli anche quelli che in apparenza sono i più insignificanti. Si ricorda il tappeto di bottigliette di birra poco lontano dal catino dello stadio, si ricorda la polizia, "poca", e nelle narici ha ancora il forte fetore di alcool che si respirava negli spazi chiusi dell'HEYSEL. Nella memoria, invece, ha le scene di violenza gratuita che le tv di tutto il mondo hanno trasmesso decine, centinaia di volte da quella notte maledetta. "I miei amici ed io eravamo seduti in tribuna, la partita non cominciava mai. C'erano i cori, le grida, le invasioni di campo. E noi eravamo quasi irritati per tutto ciò che stava capitando sugli spalti, dall'altra parte dello stadio. Irritati con gli juventini, ovviamente: non potevamo capire, non potevamo sapere". E poi non dimentica le tre cariche, che provocarono le fughe, il crollo del muro, che causarono i morti. "Furono tre ondate di attacco. Tre ondate violentissime" ripete Cavagnetto. "La prima più in alto e poi sempre più giù, fino al primo livello. C'era gente che scappava, che cercava di scavalcare la rete e di rifugiarsi nel terreno di gioco. Scappavano dalla violenza degli hooligan e venivano caricati dalla polizia a cavallo. Una follia totale, senza senso. Poi un uomo, o un ragazzo è riuscito a superare la linea dei poliziotti e ad urlare "hanno ammazzato un italiano...". Di più, però, quella sera non riuscimmo a realizzare". Valerio Cavagnetto ed i suoi amici seppero cos'era accaduto soltanto all'uscita dallo stadio. Qualcuno gli disse che c'erano stati dei morti. Vent'anni fa non c'erano ancora i telefoni cellulari, non poté contattare i familiari, avvisare che stava bene, non poté parlare con nessuno per informarsi un poco di più. "Rientrai ad Ivrea verso le 4 del mattino e trovai mia moglie e mia figlia disperate, in lacrime. Soltanto allora mi fu tutto chiaro, compresi fino in fondo che cosa era accaduto" racconta. Soltanto allora elaborò immagini ed impressioni registrate ma non comprese. Come quella "modesta rete che separava i tifosi italiani dai supporters inglesi", come "l'esiguo numero dei poliziotti impegnati a tener lontane le due tifoserie: non erano più di otto o dieci". Come le cariche contro chi cercava salvezza sul terreno di gioco e veniva respinto nella bolgia. "Per tutto il tempo che sono stato allo stadio desideravo bere un bicchiere d'acqua. Non avevo franchi belgi un tasca e l'avrei pagata anche 5 o 10 mila lire. Ma al bar dello stadio non me la diedero: niente soldi locali niente acqua. Ho bevuto quando sono tornato ad Ivrea". Se dovesse sintetizzare quella notte, Cavagnetto, la sintetizzerebbe così: "Urla, grida disperate, e poi la polizia che respingeva chi cercava salvezza".

13 aprile 2005

Fonte: La Stampa

A-Z



BATTISTA CENERE

Il fantasma dell'Heysel

di Alessandro Tich

"E' stato evitato un nuovo Heysel". Così il Ministro dell'Interno, Roberto Maroni, sul comportamento delle forze di sicurezza allo Stadio di Genova, nella folle notte di Italia - Serbia messa a ferro e fuoco dagli scalmanati ultras serbi. Una notte di incidenti e di tensioni che ha rievocato il ricordo di una delle più grandi tragedie mai accadute in uno stadio di calcio: 29 maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, 39 morti - di cui 32 italiani - nella gigantesca calca provocata dagli hooligans inglesi nella famigerata curva del settore Z. Due delle vittime erano di Bassano del Grappa: Mario Ronchi e Amedeo Spolaore. Erano partiti da Bassano, assieme ad altre 14 persone, per assistere alla finale della Juve. Di quel gruppo, nella curva Z, faceva parte anche Battista "Titta" Cenere, noto commerciante bassanese di abbigliamento, scampato alla bolgia della morte gettandosi dal muro dello stadio. Di quella tragedia di 25 anni fa conserva ancora in negozio i ritagli di giornale, e i biglietti dell'aereo e della partita - incorniciati in un quadro - a futura memoria di quella notte d'inferno, diventata la pietra di paragone per la sicurezza negli stadi e il cui fantasma, di fronte a scene come quelle viste l'altro ieri in televisione, riappare inevitabilmente. Battista Cenere, che cosa ricorda di quella notte maledetta all'Heysel ? "Noi non dovevamo trovarci nel settore Z, dove è accaduta tutta la tragedia. Avevamo infatti prenotato le poltronissime numerate centrali. Siamo saliti in aereo all'aeroporto di Venezia e solo dopo il decollo chi aveva organizzato la trasferta ci ha consegnato i biglietti: al posto della tribuna centrale i biglietti erano tutti per la curva del settore Z, e non potevamo più tornare indietro. Allo stadio siamo quindi andati in curva: da una parte c'eravamo noi, e dall'altra gli hooligans inglesi. Ci divideva soltanto una rete plastificata tenuta su con dei paletti. Alla prima carica degli hooligans, siamo arretrati. Alla seconda carica ci siamo già trovati addosso al muro, il famoso muro dell'Heysel. Io ero teso, avevo paura di una terza carica, sono salito sul muro dello stadio, sono andato al di là del muro, mi sono allungato con le braccia e mi sono lasciato andare giù con un salto di vari metri. In curva, in quel momento, era iniziata la terza carica, che è stata una carica di massa. Io sono scappato nel pullman. C'erano sirene, polizia, croce rossa, pompieri. Dopo mezz'ora sono rientrato nello stadio, da un altro ingresso, e da una transenna vedevo una strada esterna dove giacevano i corpi delle vittime. Una di queste, lo avevo riconosciuto, era Spolaore. Il peggio è accaduto nel volo di rientro, perché nel nostro gruppo oltre a Spolaore e Ronchi mancavano altre tre persone di cui non avevamo più notizie, e che invece, ma lo abbiamo saputo solo a Bassano, erano riuscite a salvarsi". Ma quanto è successo l'Heysel e quanto poteva succedere allo stadio di Genova sono situazioni paragonabili ? "Non sono paragonabili, perché all'Heysel c'è stato uno scontro fra hooligans e spettatori, uno scontro diretto fra persone preparate per far del male e uccidere e noi, persone disarmate. Ci è mancato poco, però, che gli ultras serbi oltrepassassero il loro settore, forse la presenza della polizia italiana li ha fermati. Ma la polizia italiana doveva intervenire". Che impressioni ha avuto, guardando alla Tv le scene di Genova ? "E' una cosa che fa pensare ai parenti e agli amici morti. E quello che è accaduto a Genova si poteva evitare, perché è assolutamente impossibile che la polizia italiana e la polizia serba non fossero state a conoscenza di che personaggi avevano per le mani. La polizia italiana doveva colpire, così come colpiscono loro". Ma la tragedia dell'Heysel, a 25 anni di distanza, ha insegnato qualcosa o può ancora insegnare qualcosa a chi è tenuto a garantire la sicurezza negli stadi ? "Dovrebbe far pensare e riflettere i responsabili della nostra difesa e della nostra incolumità, per non trovarci in seguito ancora scoperti". Dopo l'Heysel, lei è più tornato in uno stadio ? "No. Mai più. Ero un tifoso, ero juventino. Da allora ho lasciato il calcio e non ho più patito l'assenza di questo sport. La Gazzetta dello Sport per me è una nausea, con quei titoli che ingrandiscono ancora di più i fatti e degradano l'Italia".

14 ottobre 2010

Fonte: Bassanonet.it

A-Z


CLAUDIO CHIARINI

Chiarini: "Juve, porta a Berlino noi sopravvissuti dell'Heysel"

Claudio Chiarini aveva 32 anni nel 1985 e la Juventus, "tifoso bianconero fino alla morte", l’aveva vista ovunque. "Oggi me la guardo a casa. Da solo. Io dentro uno stadio non ci torno più". L’ultimo che ha visto si chiama Heysel. L’ultimo settore dove si è seduto la Curva Z. Claudio Chiarini è un sopravvissuto dell’inferno. C’era anche lui quel maledetto 29 maggio 1985. "Mi sono salvato solo grazie alla mia esperienza. Sono riuscito a raggiungere il muro, quel muro che poi crollò ed a scavalcarlo. Feci una specie di paracadute con la bandiera e mi lanciai fuori dallo stadio". Pausa. E’ dura raccontare. Respira Claudio - che nonostante tutto, il calcio ha continuato a seguirlo, è allenatore ed è stato direttore generale della squadra femminile Stella Azzurra - e ricomincia. Dall’inizio. 28 maggio 1985: la partenza. "Il viaggio venne organizzato da un’agenzia in piazza Guido Monaco. Partimmo con diversi pullman da Arezzo per andare a Bruxelles a vedere la finale di Coppa Campioni con il Liverpool. Per me non era la prima volta. La Juve l’avevo seguita ovunque. Perfino a Belgrado nel 1973. Ovunque". Claudio riesce a convincere anche alcuni suoi amici. "Tutti avevamo il biglietto per il settore Z. Nessuno di noi conosceva lo stadio. Internet non c’era, ma sono partito tranquillo, perché una partita così importante, doveva giocarsi in uno stadio adeguato. La Uefa mica avrebbe messo in pericolo la vita delle persone pur sapendo che si giocava contro il Liverpool degli Hooligans". In pullman Claudio comincia a guardarsi intorno e nota: "Famiglie, donne e bambini. Tutti col biglietto per la Curva Z. E allora mi chiesi che forse questo settore era stato destinato proprio alle famiglie". Non era proprio così, ma successivamente si seppe che in quel settore dovevano trovare posto le scuole calcio locali, poi la richiesta dei biglietti fu tale che la Uefa decise di destinare la Curva Z ai tifosi soprattutto juventini. Ma non solo.  29 maggio: ore 15. Arrivo all’Heysel. "Intorno alle 15 eravamo allo stadio. C’era un parcheggio enorme dove abbiamo lasciato i pullman. E ci siamo incamminati verso l’entrata". Lì arriva il primo allarme. "Per entrare nel nostro settore c’era un porticina minuscola. Sarà stata due metri per due. Mi dissi: se succede qualcosa da dove usciamo ?". Il secondo allarme subito dopo l’ingresso nella Curva Z. "C’erano tutti i gradoni, tipo la nostra Maratona. Mi accorsi che erano sfaldati. Le pietre per terra. Chiunque poteva raccoglierle e lanciarle. E in più dietro la Curva c’era un cantiere". Poi arrivarono. I tifosi inglesi. "Non dimenticherò mai ciò che vidi. Molti di loro erano sopra il tetto dei pullman. Già ubriachi. Iniziarono ad entrare dalla stessa porticina. Portavano casse di birra sulle spalle. Si sistemarono praticamente accanto a noi. A dividerci dagli hooligans c’era una rete da pollaio. Fatta di corda". Viene subito da chiedere e le Forze dell’Ordine ? "Pochissime. Fuori dallo stadio ricordo di avere visto 5 poliziotti 3 dei quali erano ragazze e dentro lo stadio praticamente non c’era polizia. Sì, fu una strage annunciata". Ore 17: cominciano i lanci di pietre. Claudio si sistema più dalla parte dei tifosi inglesi. "Volevo tenerli d’occhio. Erano ubriachi e sotto quel sole hanno cominciato ad insultarci. Ma chi di noi poteva contrastare quegli pseudo tifosi ? In quel settore c’erano solo famiglie. Il vero zoccolo duro del tifo bianconero era dalla parte opposta dello stadio. Ho cominciato a preoccuparmi e al mio amico che era con me, vista la mia esperienza, lo aveva avvisato: se ti dico di seguirmi, non fare domande: fallo e basta". Ore 18: la fuga e l’assalto. "Finite le pietre hanno cominciato a lanciarci le lattine di birra vuote riempite con la terra. La situazione degenerava, poliziotti non ce n’erano. Ho iniziato a guardarmi intorno: non c’erano vie di fuga. E allora sono andato verso il muro, quello che poi è crollato e mi sono issato fino in cima. Questione di attimi, la carica era già iniziata". "Sotto di me ho afferrato la mano di qualcuno e ho cercato di tirarlo su. Ma non ci riuscivo e ho dovuto lasciarla". Beve un bicchiere d’acqua, Claudio. Le parole si strozzano in gola. "E’ dura ricordare. E’ dura. Ho visto bambini che venivano lanciati dai genitori dall’altra parte della rete verso il campo da gioco, perché si salvassero da quella calca. Ho visto scene che preferisco non raccontare". Ore 19.30: fuori dallo stadio. La bandiera della Juve che sarebbe dovuta servire per fare festa in quel momento diventa una sorta di paracadute. "L’ho presa e praticamente mi sono buttato giù dal muro. Non mi ero fatto niente in confronto a ciò che stava succedendo là dentro. A quel punto mi sono diretto al parcheggio dei pullman, schivando però altri tifosi inglesi, ubriachi che erano fuori dall’Heysel e non erano riusciti ad entrare. Ho preso un bastone ho forzato la porta del pullman e poi hanno iniziato a venire tutti gli altri". Negli occhi di ognuno scene raccapriccianti e la sensazione che già i morti non fossero pochi. "Abbiamo cominciato a contarci. Qualcuno di noi mancava. E’ stato un momento terribile". Ore 21: la partita. Intanto dentro l’Heysel la partita con un’ora di ritardo inizia. "Dovevano giocarla. Altrimenti avrebbero dovuto chiamare l’esercito per fermare quelle bestie. Se i giocatori sapevano ? Immagino che sapessero quanto era accaduto. C’erano feriti, barelle in campo, morti. Ma la partita doveva giocarsi". Ciò che però Claudio condanna è il giro di campo finale con la Coppa: "Quello no. Quello gli juventini non dovevano farlo. Dovevano solo fare il segno della Croce davanti a quella Curva Z". Ore 23: all’Ambasciata. Ma la notte è solo all’inizio. "Abbiamo cominciato a fare il giro degli ospedali per vedere se c’erano feriti e poi ci siamo diretti all’Ambasciata. Dovevamo chiamare casa". Ma nel tragitto succede qualcosa: "Abbiamo incontrato un gruppo di tifosi inglesi che ci ha insultato. Uno che era sul pullman ha chiesto all’autista di rallentare. Volevamo scendere. A quel punto dopo quello che avevano fatto eravamo pronti a tutto. Poi abbiamo chiesto all’autista di proseguire. E ce ne siamo andati". L’ambasciata apre le porte ai tifosi italiani, ma chiede anche che vengano fatte telefonate ad una persona che poi avverta gli altri familiari. "Ovviamente le famiglie che non erano state raggiunte direttamente al telefono, ma solo tramite terzi, pensavano al peggio. In Italia già si sapeva". 30 maggio 1985: il ritorno. "Straziante. Ma eravamo vivi. Poi arrivò la notizia di Roberto Lorentini e Giuseppina Conti e tutti pensammo la stessa cosa. Ognuno di noi avrebbe potuto essere il numero 40". A Berlino con la Juve. Oggi, trent’anni dopo, Claudio Chiarini fa una proposta, attraverso il Corriere di Arezzo, direttamente alla Juve. "Mi piacerebbe che a Berlino ci fosse anche una rappresentanza di noi sopravvissuti dell’Heysel. La Juve la tragedia e la Coppa, le ha vissute sempre con disagio, forse è arrivato il momento di riscattare la propria immagine e il miglior modo è farlo trent’anni dopo, a Berlino. Ma guarda te il destino". Mai più dentro uno stadio. Dal 29 maggio 1985 Claudio Chiarini non è più rientrato dentro uno stadio. "Faccio fatica ancora oggi quando sono in mezzo alla gente. Mi guardo intorno. Cerco possibili vie di fuga. Dentro uno stadio, a parte quello di Arezzo, non ci sono più tornato". Soprattutto è stata una scelta. "Una scelta e una forma di rispetto verso chi non c’è più e anche verso la mia famiglia. Le partite me le guardo in televisione e da solo". Continuerò ad amare il calcio. "La mia vita è cambiata. L’inferno dell’Heysel mi ha fortificato. Ma non odio il pallone. Assolutamente. Sarebbe assurdo. Sono nato juventino e morirò juventino. Il 6 giugno sarò davanti al televisore. Lassù 39 tifosi. Finalmente in tribuna d’onore".

20 maggio 2015

Fonte: Corrierediarezzo.corr.it

A-Z


EVELINA CHRISTILLIN

La testimonianza di Evelina Christillin

"L’Avvocato lo disse subito, questa partita non si deve giocare"

di Maurizio Assalto

"Questa partita non si deve assolutamente giocare". L’Avvocato, quello che si scrive con la maiuscola, Gianni Agnelli, lo aveva detto chiaro a un altro avvocato, il fido Vittorio Chiusano, allora vicepresidente della Juventus, prima di lasciare l’Heysel. Lo racconta Evelina Christillin, oggi presidente del Museo Egizio e del Teatro Stabile di Torino, allora giovane tifosa che in compagnia dell’Avvocato non si perdeva una partita: "Ci univa la passione sciistica. Io ero stata nella nazionale femminile e lui si divertiva a sciare con me e mio padre, che era suo amico. La domenica mattina andavamo in elicottero a Sestriere, poi nel pomeriggio allo stadio". Quel 29 maggio erano arrivati a Bruxelles con un aereo privato, con Cesare Romiti, Francesco Paolo Mattioli e altri manager della Fiat, e subito si erano diretti allo stadio. "Sugli spalti si vedevano dei movimenti, gente che si picchiava. Si capiva che c’era una grandissima disorganizzazione, sul campo gli agenti della polizia a cavallo si aggiravano come anime in pena. L’Avvocato era contrariato, faceva amari commenti". Poi il crollo della tribuna nel settore Z. "Ma da noi non si vedeva bene, non si capiva. Non c’erano ancora i telefonini, Internet...". Si capì di colpo quando arrivò un funzionario del ministero dell’Interno. "Lo vidi parlare con l’Avvocato, e vidi che lui faceva una faccia strana. A me accennò soltanto che c’erano dei feriti, forse dei morti. Disse che dovevamo andare via, che il ministero aveva mandato una vettura per portarci all’aeroporto". Un ultimo flash, come in un’allucinazione, corpi allineati a terra lungo il muro di cinta dello stadio, un viso insanguinato impresso nella memoria. "Per tutto il percorso in macchina, e poi in volo, restammo in silenzio". A Caselle, allo scalo dove atterrano i voli privati, la sorpresa. Quando arrivava l’Avvocato c’erano sempre ad attenderlo molti addetti. Quella volta, nessuno. "Lui si stupì, chiese informazioni. Gli risposero: "Avvocato, sono tutti a vedere la partita". "La partita... ?!". Al telefono, Boniperti gli spiegò che erano state le autorità belghe a imporlo, per ragioni di sicurezza. Lui non disse più nulla. Anche in seguito non parlammo mai più di quel match. Era come se l’avesse rimosso. E quella coppa non l’ha mai annoverata tra i trofei vinti".

29 maggio 2015

Fonte: La Stampa

A-Z


UGO CIGNOLI

Il mio Heysel

di Ugo Cignoli

Da quando incominciai a capire qualcosa dei gesti di quei signori che in mutande rincorrevano una sfera di cuoio e mi resi automaticamente conto di quale senso avesse il tatuaggio a strisce verticali bianconere idealmente inciso sul mio cuore, ho sempre ritenuto che il vero, unico traguardo a cui la Juventus dovesse ambire era quello della Coppa dei Campioni. Di scudetti ce n’erano fin troppi in bacheca, di Coppe Italia certamente a sufficienza. Quello che mancava era lei: la coppa dalle lunghe orecchie simbolo di primato europeo. Era già sfuggita alle legittime brame per ben due volte e sempre con il medesimo risultato di vantaggio minimo per i nostri avversari: la prima nella primavera del 1973 a beneficio dell’Ajax, la seconda nella sciagurata serata del 25 maggio 1983 per la gioia dell’Amburgo e di Felix Magath (nonché di tutti i tifosi non juventini). Quella del 29 maggio 1985 era la terza occasione. Nella testa rimbombava come un ordigno nucleare il proverbiale adagio "non c’è due senza tre" che i gufi canticchiavano con beffardi sorrisini che in realtà mal celavano la consapevolezza che stavolta la Juve poteva davvero vincere: aveva gli uomini, il carattere ed aveva ricevuto il "battesimo" della maturità l’anno prima a Basilea quando si alzò al cielo la Coppa delle Coppe. Fu così, che vissi i giorni che anticiparono quel 29 maggio 1985 combattuto tra speranze e paure ma accompagnato da una certezza: ci sarei stato all’Heysel, e sì, ci sarei stato, papà me lo aveva promesso ! Partii però solo, con la sfacciataggine dei miei sedici anni e con l’equipaggiamento d’ordinanza: sciarpa dei Fighters, cuffia bianconera ben assestata e maglia di Michel sotto il giubbotto. Era una giornata limpida, tiepida, di inoltrata primavera e niente, proprio niente faceva presagire quell’assurda tragedia che si sarebbe consumata qualche ora dopo. Avevo un biglietto di curva, settore "Z", un settore riservato nelle intenzioni dell’UEFA ai tifosi non appartenenti alle compagini in lizza ma i cui tagliandi, come prevedibile, furono preda dei tifosi juventini. Non era un problema, io volevo vivere la partita, altro non mi interessava. Giunsi allo stadio intorno alle 18.00, tardi per i miei gusti, e notai subito qualche stranezza: c’era un unico accesso alla gradinata di curva attraverso una porta molto piccola al cui fianco svettava un cancello ben più grande, tenuto curiosamente chiuso, nessun controllo significativo, gli inglesi, accatastati e già ululanti nel settore contiguo, entravano introducendo senza problemi casse di birra (sì, casse). Appena entrato la perplessità si tramutò in disagio: alla mia sinistra si muoveva una massa informe di colore rosso sangue che gridava ed emanava un fortissimo odore di alcool; la cosa sconcertante era che a dividermi da quella massa c’era una doppia rete metallica ad intrecci esagonali, tipo quelle dei pollai… Preferii, quindi, appostarmi verso le gradinate più alte della curva, meno affollate in quanto più lontane dal campo: si vedeva un po’ peggio ma si stava comodi, magari più tardi sarei sceso di qualche gradinata per avvicinarmi al campo. Iniziò una partita disputata da dei ragazzini tanto per ingannare l’attesa spasmodica, sembrava tutto abbastanza tranquillo, i tifosi organizzati della Juve erano nell’opposta curva; il settore "Z" dove ero io ed il settore "X" erano sì feudi bianconeri ma frequentati da tifosi più tranquilli ed assolutamente non organizzati. La gente, intanto, continuava ad affluire e la curva conseguentemente a riempirsi. Il termine della partita di intrattenimento, purtroppo, aveva lasciato i nostri vicini in rosso nella disperazione più nera, non sapevano più che fare per ingannare l’attesa e continuare a bere non era più sufficiente, che fare allora ? Qualcuno si accorse che le gradinate dell’Heysel se colpite con sufficiente forza mediante il tacco della scarpa si sbriciolavano morbidamente come una bella forma di Grana Padano e allora che cosa c’era di meglio da fare se non raccattare quei bei pezzi di cemento ed iniziare a lanciarli verso i tifosi vicini ?

Iniziò una sassaiola incredibile verso di noi. Non ci pensai due volte, mi girai, in dieci secondi percorsi le gradinate alle mie spalle ed imboccai quella porticina da dove qualche tempo prima entrai. Mi ritrovai fuori dallo stadio, a venti metri da quella mia via di fuga e potevo scorgere da sopra il muro di cinta delle gradinate un gran polverone che si alzava, poi grida, urla, gente che usciva spruzzando sangue dal cranio. Dio mio, ma che stava succedendo ? Rientrai non so quanto tempo dopo, sembrava ci fosse stato un terremoto: borse, portafogli, indumenti, scarpe, bandiere, sciarpe giacevano sugli spalti e loro, le bestie rosse, ricacciate nel loro settore, continuavano ad ululare ed ondeggiare, qualcuno iniziava quella becera abitudine tipica degli eventi disastrosi, lo sciacallaggio. Il muretto alla mia destra, verso la parte bassa della curva, era crollato. Scesi verso il campo, le transenne erano state abbattute, mi ritrovai in una bolgia. I poliziotti a cavallo, giravano per il campo, ridevano non rendendosi conto dell’entità della tragedia che si era consumata. Cominciai a capire cosa era realmente successo quando mi avvicinai al muro crollato, costeggiato da una stradina di servizio: vi erano accalcati almeno venti corpi e li vidi tutti.  Tutti fermi, immobili, neri, morti. Non sapevo che fare, non sapevo che dire. Risalii in curva, eravamo rimasti in pochissimi. La partita. Boh. Sarebbe mai iniziata ? I giocatori scesero finalmente in campo, andarono sotto la curva opposta alla mia, per calmare gli animi: i nostri minacciavano un’invasione di campo, il regolamento dei conti era il chiaro intento. I giocatori riuscirono a ristabilire una calma irreale. E poi, ancora attesa, interrotta dall’inizio della gara. Seguii la partita, di cui ricordo, peraltro, pochissimo ma nitidamente la lentezza e la totale assenza di emozioni, fino al rigore su Zibì che Michel insaccò. Alzai le braccia al cielo, sì, ma non proferii parola. Al fischio finale attesi, invano, che qualcuno portasse anche a noi, "in prima linea" quella coppa finalmente vinta. Uscimmo dallo stadio a testa bassa ed alle prime luci dell’alba trovai mio padre all’aeroporto a riabbracciarmi come se fossi reduce. Solo dopo, qualche ora dopo, il ricordo di quel che avevo visto mi fece realizzare che cosa avevo realmente vissuto ed a cosa ero sopravvissuto. Ancora oggi, ventidue anni dopo, la ferita nel mio cuore è ancora aperta e mi fa male sentire parlare di "coppa insanguinata" di "coppa sporca", di "vittoria regalata", di "rigore inventato". La Juve quella coppa l’ha vinta, insieme ai suoi tifosi, pagandola un prezzo altissimo. Chi dice che quella partita non si sarebbe dovuta disputare non era là e non può nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto se quei ventidue uomini non fossero scesi in campo. Tanta amarezza e tanto dolore si affievoliscono quando alla mente mi ritorna nitidamente la voce calma, rassicurante e gentile che il nostro capitano Gaetano proferì dagli altoparlanti in quei terribili momenti: "… non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi".

22 marzo 2007

Fonte: Magazine Bianconero

A-Z

CIPRIANO

Lettera del tifoso Cipriano: "Heysel, la mia testimonianza"

"Leggendo alcune testimonianze di persone che hanno vissuto la tragedia dell’Heysel, ho sentito il desiderio di far conoscere anche la mia, e sono idealmente vicino a quanti non ci sono più ed ai loro famigliari che tanto hanno sofferto e soffrono per quanto avvenuto 30 anni fa. Per quanto mi riguarda da quel giorno sono stato 18 anni senza tornare allo stadio, e solo da quando c’è lo "Stadium" ho ripreso a tornarci qualche volta con la famiglia. Stamane in occasione del 30° anniversario, con la moglie ci siamo uniti idealmente a tutti coloro che commemorano le vittime di quell’assurda tragedia, assistendo in forma privata alla Santa Messa in un Santuario Mariano. Ricordo perfettamente tutto come fosse oggi, perché per me il tempo è come sia fermo a quei momenti. Siamo partiti in 35 dal Friuli, e dopo 30 ore di viaggio, all’esterno dello stadio abbiamo intuito la situazione: inglesi ubriachi, a petto nudo, distesi a terra sotto il sole del pomeriggio e bottiglie vuote ovunque. Per entrare allo stadio siamo passati tra gli inglesi, prestando attenzione a non toccare involontariamente quelli stesi a terra ubriachi. Il nostro ingresso (e usciata) era una vecchia porta fatiscente in legno e larga meno di un metro, e mentre attendavamo di entrare, la polizia a cavallo passava in mezzo a noi per controllare i nostri oggetti, mentre gli inglesi erano incontrollati ed indisturbati. Una volta entrati nel settore "Z", abbiamo notato che le gradinate erano costituite da terrapieni, il cui terreno friabile era tenuto compatto da dei lingotti in porfido che poggiavano sopra dei tondini per getti in cemento armato, e che la curva era stata divisa da una rete metallica come quella che si adopera per recintare gli animali da cortile: da una parte noi con i belgi e dall’altra gli inglesi. Non so attraverso quali canali hanno acquistato i biglietti dei belgi chi ha organizzato la trasferta. Gli inglesi seduti sopra le mura di cinta alle spalle della curva, con il "passamano" facevano entrare bottiglie di birra in quantità, oltre ad altri oggetti di vario genere, senza che alcun poliziotto intervenisse: quelli presenti sul terreno di gioco in prossimità della curva erano poche unità, e due che hanno cercato di intervenire hanno dovuto fuggire per evitare di essere malmenati dagli hooligans. Hanno iniziato a tirarci un po’ di tutto: anche con i lanciarazzi ad altezza d’uomo, del tutto indisturbati. Dopo di che aprono un varco nella recinzione divisoria e si posizionano lungo la stessa dalla nostra parte, provocando l’arretramento dei nostri e formando una "calca umana" per la riduzione dello spazio: poi parte l’attacco e tutti noi correndo parallelamente al terreno di gioco andiamo verso la parte opposta agli inglesi, ma io fortunatamente mi sono fermato quasi subito perché mi sono reso conto che andavo a accalcarmi con la massa, e fortunatamente nessuno di quelli che mi seguivano mi ha travolto ! Mi sono comunque trovato in mezzo alla "calca" e nel tempo che sono rimasto in balia degli eventi ho sempre pensato di non farmi trascinare verso quel muro che poi è crollato, cercando sempre di non perdere contatto con il terreno, perché diverse volte non riuscivo a toccare terra perché venivo alzato dalla "calca umana", e durante questo tempo interminabile talvolta sentivo qualcosa sotto i piedi senza sapere se erano persone o zaini, e cercavo di evitare le transenne metalliche che in quella situazione sono state per qualcuno delle vere trappole. Dopo un tempo interminabile, sono arrivato vicino al campo dove la recinzione dietro la porta era crollata: ero fuori dalla "calca" di qualche metro e mi sono trovato faccia a faccia con alcuni inglesi che mi aspettavano impugnando cocci di bottiglia, e fra me ed il campo c’erano distese a terra diverse persone… Non me la sentivo di passarci sopra e così in un attimo mi sono gettato "a pesce", cadendo con il busto oltre la muretta ed ho visto sfilare l’orologio dal polso ma non mi sono fermato a raccoglierlo… Mi sono rialzato e un poliziotto in tenuta antisommossa ha alzato il braccio verso di me per colpirmi con il manganello. Avevo lottato per portarmi in salvo, ed in quel momento non avevo energie fisiche e mentali… Ho guardato il poliziotto allargando le braccia con lo sguardo perso nel vuoto… E mi ha lasciato andare per la pista, sotto la tribuna, in campo: ovunque ero solo, e mi si avvicina un signore italiano ed incomincia a parlarmi chiedendomi com’è successo e chiedendomi di me, ed io senza rendermene conto ho rilasciato una breve intervista pubblicata sulla "Gazzetta dello Sport" del giorno dopo, provocando un sovraffollamento di telefonate a casa dei miei da parte di chi mi conosceva. Successivamente, ci siamo ricongiunti in 5 del nostro pullman, e nel frattempo abbiamo visto degli inglesi inneggiare ed espletare i loro fabbisogni fisiologici nel nostro settore, dopo di che ci siamo recati all’esterno degli spogliatoi dove abbiamo parlato con alcuni giocatori invitandoli a non giocare la partita. Nel frattempo la polizia a cavallo minacciandoci coi manganelli ci ha fatto abbandonare lo stadio, ed uscendo purtroppo ci siamo imbattuti in coloro che avevano perso la vita, posizionati nell’antistadio. Abbiamo girovagato attorno allo stadio e per le vie di Bruxelles alla ricerca di una cabina telefonica per avvisare casa, ma non riuscivamo a connetterci, così dopo essere tornati al pullman attraverso un boschetto e con il timore di incontrare inglesi a caccia di juventini, quando eravamo tutti presenti ci siamo recati in un ospedale perché avevamo fra noi alcuni feriti, fortunatamente non in gravi condizioni. Al mattino verso le ore 6 sono riuscito a parlare con mia madre, ed in quel momento ho scaricato tutta la tensione accumulata in un pianto dirotto. Vorrei tanto che lo stadio fosse un luogo di divertimento e socializzazione". Cipriano

30 maggio 2015

Fonte: Tuttojuve.com

A-Z

GIOVANNI CISCO

Il miracolato

Quando il caso ti salva la vita, quando la decisione di un attimo ti permette di tornare sano e salvo dai tuoi cari. Momenti scolpiti nella memoria, anche a 30 anni di distanza. Giovanni Cisco, imprenditore di Arzignano, aveva 17 anni quando, diventato tifoso della Juve dopo essersi innamorato delle gesta di Paolo Rossi in biancorosso e in bianconero, raggiunse Bruxelles in aereo assieme allo zio Pietro Zini, al cugino Luca Zini e all'amico di famiglia Paolo Bagni. "Prima di raggiungere lo stadio - ricorda - abbiamo passato una giornata stupenda visitando Bruxelles e incontrando addirittura Bruno Pizzul all'interno di un ristorante. Numerosi i tifosi del Liverpool che giravano ubriachi per la città, ma tutto sommato risultavano simpatici. Eravamo convinti che con il biglietto in nostro possesso saremmo andati in tribuna e invece, quando alle 18 siamo entrati allo stadio, ci siamo ritrovati nel settore Z, quello destinato ai tifosi locali e al tifo non organizzato. Entrati da una porticina posta nel punto superiore del settore, ci siamo diretti subito verso il muro esterno della curva, ma ci siamo rimasti solo 5 minuti ed è stato il primo colpo di fortuna, perché poi in quel punto si sarebbero ammassati i tifosi in fuga e poi quel muro sarebbe crollato. Abbiamo deciso di spostarci più vicino alla rete che ci divideva dagli inglesi: secondo colpo di fortuna, perché poco dopo dalla curva del Liverpool sono cominciati a volare bottiglie, sassi e pietre, che ci scavalcavano. Se fossimo stati più distanti dalla rete forse ci avrebbero colpiti. Quando la rete è stata sfondata ricordo gli hooligans che mi correvano davanti per raggiungere il folto del gruppo italiano. Paolo Bagni ha gridato "Andiamo via che ci uccidono !" e a quel punto siamo corsi verso la stessa porticina da cui eravamo entrati. E‘ stato il panico ! Abbiamo impiegato 15 minuti per uscire, ho rischiato di rimanere sepolto dagli altri che spingevano, mio cugino mi ha tirato su di forza. Una volta fuori, ho visto un uomo che grondava sangue dalla testa, ho visto polizia, ambulanze e pompieri che accorrevano, ma non sapevamo cosa in realtà stava accadendo all'interno. Dopo 40 minuti mio zio è rientrato per vedere se la situazione si era calmata. Tornò indietro dicendo che si parlava di alcuni morti, ma che tutto ora sembrava tornato alla normalità. Quando siamo rientrati ricordo che il settore sembrava un campo di battaglia: scarpe, maglioni, portafogli, giornali, giacche e altri oggetti ricoprivano completamente gli spalti. Vedevo gente a terra sulla pista di atletica e persone che venivano portate via utilizzando transenne come barelle, ma non ci si rendeva conto della gravità dell'accaduto. Quando la Juve segnò, abbiamo esultato...". I contorni della tragedia divennero più chiari al ritorno in aeroporto, quando Paolo Bagni telefonò alla moglie e colse dalle sue parole la disperazione per le immagini viste in televisione. Tornato ad Arzignano a notte fonda, prima di andare a letto Giovanni Cisco vide con il padre la registrazione della diretta Rai: "A quel punto ho capito tutto, solo allora mi sono realmente reso conto della tragedia che si era consumata sotto i miei occhi". Giovanni Cisco per 5 anni non fu più in grado di frequentare luoghi affollati. Ancora oggi, quelle poche volte che va allo stadio sceglie un posto in tribuna, ed evita di andare ai concerti. Il giorno del trentesimo anniversario dell'Heysel il figlio di 9 anni gli ha chiesto di raccontare. "Abbiamo guardato insieme i video su YouTube... Dopo 5 minuti sono stato male, ho dovuto spegnere il computer... " .

Giugno-Luglio 2015

Fonte: Corriere Vicentino

A-Z

ALESSANDRO COLOMBO

Heysel, 35 anni dopo la strage.

Alessandro: "sopravvissuto affrontando i tifosi inglesi"

di Alessio Colombo

29 maggio 1985. Trentacinque anni fa la notte più buia della storia del calcio allo stadio Heysel di Bruxelles. Nel maledetto settore Z, in cui persero la vita trentanove persone - trentadue delle quali italiane - c’era anche Alessandro Colombo: tradatese all’epoca 21enne tifoso bianconero, riuscì a sopravvivere a una delle tragedie umane più terribili, consumatasi negli attimi immediatamente precedenti la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. Da quel giorno, per lui come per migliaia di altri appassionati, assistere ad una partita non è stata più la stessa cosa. "Siamo arrivati a Bruxelles nel pomeriggio e ci siamo diretti subito allo stadio - racconta Alessandro, giornalista responsabile della comunicazione di un ente pubblico, già collaboratore di diverse testate locali e nazionali, che di quella serata conserva ancora il biglietto. Uno stadio vecchio con le gradinate tutte rotte, sassi e pietre a terra ovunque. Abbiamo atteso nel prato davanti all’ingresso sotto il sole assieme agli Inglesi che arrivavano con casse di birra e bevevano. Quando siamo entrati allo stadio erano già ubriachi". Le condizioni per garantire sicurezza sugli spalti erano del tutto inesistenti: una piccola e fragile rete non è bastata a dividere le ordinate famiglie e i giovani faziosi della Signora posizionati nel maledetto settore Z dagli irrequieti supporters dei Reds. "Io, già reduce dalle trasferte di Atene, finale di Coppa Campioni 1983 persa (0-1) con l’Amburgo, e di Basilea, finale di Coppa delle Coppe 1984 vinta con il Porto (2-1), ero arrivato a Bruxelles in pullman da Tradate assieme ad altre 50 persone. Dodici ore di viaggio", di speranza perché quella per i tifosi juventini poteva essere la serata del riscatto. Perché quella era la Juve più forte di tutte, incoronata dai tifosi stessi, allenata da Giovanni Trapattoni, appesa alle prodezze di Michel Platini che di fatto quella serata la deciderà, con un rigore che spiazzò Bruce Grobbelaar, il portiere giocoliere che non avrebbe faticato ad ammettere l’innocente imbarazzo di quei novanta minuti, tutt’altro che una finale. Fu piuttosto un atto di estrema carità verso dei propri tifosi. "Giochiamo per voi", scandì Gaetano Scirea, capitano della Juventus, prima del match, prima di prendersi la responsabilità di sollevare il trofeo più pesante di tutti, mentre la passione di migliaia di tifosi, travolta dall’irreparabile, giaceva al suolo indifesa. "Un’ora prima dell’inizio della partita - il calcio d’inizio era stato fissato per le 20.15 - gli Inglesi hanno cominciato a lanciare verso di noi bottigliette di vetro piene di terra e sassi ad altezza uomo. La folla impaurita non ha reagito ma ha cominciato ad indietreggiare". Quasi un invito per gli hooligans che in un tragico delirio di onnipotenza prendevano coraggio per caricare nuovamente. "Tutti si sono ammassati verso il basso della curva creando una calca tremenda e schiacciando le persone. Io sono rimasto verso l’alto della tribuna e ho cercato di scavalcare il piccolo muretto per uscire dallo stadio. Ovviamente la folla era tanta e ti tiravano giù per poter salire loro e scappare". È quello il momento in cui l’istinto di sopravvivenza, innato nell’essere umano, fa brillare nella mente sconvolta di Alessandro un ultimo lampo di astuzia. "Non riuscendo a scavalcare ho deciso di provare ad uscire dalla porticina d’ingresso - continua lui - Mi sono liberato della sciarpa che avevo al collo e per raggiungere la porta d’uscita sono andato verso gli Inglesi che avanzano. Non so come e non so perché ma sono passato in mezzo a loro senza che nessuno mi toccasse. Così ho raggiunto la porta d’uscita dove nel frattempo stavano entrando i poliziotti a cavallo". Un dettaglio che pare quasi anacronistico, anche a distanza di anni, ma che dipinge con realistica precisione un ritratto di perversa assurdità. La sconfitta del genere umano trasmessa in mondo visione. Scorre di fronte ai suoi occhi la materializzazione di un incubo che nulla ha a che fare con il calcio. E nella confusione di istanti interminabili c’è solo una cosa da fare: salvare la pelle e cercare di informare i propri cari, che verranno raggiunti dalla notizia con inevitabile ritardo. "Una volta fuori dallo stadio sul prato c’era gente insanguinata, gente che piangeva e gente che vagava senza sapere dove andare. Ho ritrovato alcuni miei amici e insieme ci siamo recati verso il pullman, siamo saliti e abbiamo aspettato fino a dopo mezzanotte prima di poter ripartire verso casa. Quattro ore in pullman sentendo la radio che annunciava i morti e aspettando la fine della partita e l’uscita dei tifosi inglesi prima di poter ripartire. Altre dodici ore di viaggio in assoluto silenzio. Con tanta paura ma una consapevolezza: in fondo - riflette Alessandro - noi c’eravamo salvati tutti".

29 maggio 2020

Fonte: Varesesport.com

A-Z

LUCA CONFORTI

E se fosse meglio così...???

"Non prendetela come una provocazione, o peggio come una mancanza di rispetto, ma solo per quello che è... Cioè una riflessione, un pensiero personale. In questi giorni da parte di noi gobbi, si è fatta forte la richiesta affinché la Juventus F.C. si faccia carico della promessa riguardo la realizzazione nel nuovo stadio, della Sala della Memoria per i 39 morti dell'Heysel. Raccolta di firme, di richieste, questa volta anche da parte di alcune famiglie delle vittime. Invio di raccomandate, blog in tilt, e decine di post su FB, tutto rivolto a questa richiesta. Premesso che anche io ho aderito, oggi mi è venuto un dubbio, spinto da un moto di orgoglio... Rabbia... Che sicuramente ci accomuna tutti. E se fosse meglio così...??? E se in fondo fosse meglio che la Juventus F.C rimanesse nel vergognoso silenzio e fastidio per la vicenda che l'accompagna da quella sera...?? Noi e solo noi, li abbiamo nel cuore e nella mente da quella sera, per chi era là… Per chi l'ha vista alla tv, per chi troppo giovane ne ha solo sentito parlare, per chi da quel giorno è diventato più doloroso e difficile mettere piede in uno stadio, forse non serve una Sala della Memoria elemosinata seppur a ragione alla Juventus F.C. A noi che avremmo voluto fosse dedicata a loro ogni vittoria da quel giorno... A noi che con mille striscioni li ricordiamo sempre... A noi che per anni andando al Delle Alpi passando per "Viale Caduti di Superga", ci chiedevamo perché nessun viale limitrofo portasse il nome dei 39 angeli... A noi che avremmo voluto che a Roma dalle mani di Vialli la coppa passasse in quella dei loro cari dedicandogliela... A noi che ci mangiamo il fegato guardando come sono ricordati sul sito del Liverpool... O dentro l'Anfield… A noi che andremo al "Conad Stadium"... A noi che ci tocca leggere sul sito della Juventus F.C. che quella "è la coppa più bella... nella serata più tragica"... A noi che moriamo di rabbia quando in ogni stadio ce li insultano, senza che nessuno mai senta e abbia nulla da ridire... Ecco forse a noi basta ciò che sentiamo per loro, senza voler a tutti i costi che la Juventus F.C. ci dia, o meglio dia ai 39 angeli ciò che gli spetterebbe di diritto. Forse li ricordiamo meglio nel nostro modo più puro... Più forte... Più vero... Più dolce... Senza condividerle con chi da quella sera è assente... Silenzioso... Infastidito... Con chi nemmeno è stato capace di commemorarli insieme a noi lo scorso anno, ma lo ha fatto di nascosto come fosse una riunione massonica. Ecco personalmente ho il dubbio di non volere nulla da questa gente, capace magari di pretendere un biglietto o una member per visitarla. La Sala della Memoria è dentro ognuno di noi lo abbiamo capito... Dimostrato... Vissuto in tutti questi anni, forse è meglio lasciare gli indegni fuori dal tempio. E poi personalmente non credo proverei un’emozione maggiore di quella che provo ogni volta che visito il sito creato da Domenico Laudadio. Ogni volta mi assale un dolore... Un’angoscia... Sentire quella musica... Insieme a un silenzio tutto intorno da far tremare la mano nel far scorrere piano il resto della pagina. Quella è la mia Sala della Memoria... Fatta col cuore... Con amore... Con rabbia... Tra mille difficoltà... Grazie Domenico. Noi milioni di gobbi da quella sera, portiamo quella stanza dentro di noi... In giro per l'Italia e nel mondo. La Juventus F.C. da Galleria San Federico... Da P.za Crimea... A C.so Galfer... Da Boniperti… Alla Triade... Per finire agli indegni... Porta a spasso la propria stanza del silenzio e della vergogna"... Luca Conforti

29 maggio 2011

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

N.D.R. Luca Conforti era presente il 29.05.1985 a Bruxelles ed ha personalmente scoperto tutti i teli che ricoprivano i cadaveri distesi sul piazzale dell'antistadio dell'Heysel in cerca di suo padre, il quale fortunatamente non era fra quei morti. Quando si vive una esperienza drammatica di tale portata è comprensibile e giusto raccogliere tutte le parole da chi l’ha patita frutto del dolore e della rabbia.

A-Z

GAETANO CONTE

Sono stato all’inferno. Gaetano Conte:

"All’Heysel sono morto un po’ anch’io"

di Francesco Casula

Trent’anni fa la tragica finale Juventus - Liverpool. Parla il tarantino che si salvò per miracolo

TARANTO - La partita non l’ha mai vista. Nemmeno in tv. "Mi ricordo tutto. Tutto, tranne cinque minuti in cui sono morto. Perché io sono morto in quella curva Z: da allora non ho mai più messo piede in uno stadio e non ho mai voluto rivedere quella partita". Gaetano Conte, tarantino classe 1940, di quella finale insanguinata all’Heysel conserva solo il tragico ricordo. Non ha visto il rigore di Platini e nemmeno l’esultanza che scatenò le polemiche. Non ha mai nemmeno sentito il commento "più asettico e imparziale possibile" di Bruno Pizzul. E mentre qualcuno a Torino festeggiava la vittoria dei bianconeri sul Liverpool, lui era in ospedale: "Venne un infermiere e in francese mi disse che avevamo vinto per 1 a 0. Pensai che almeno qualcosa la portavamo a casa". Quel 29 maggio di trent’anni fa partii con tre amici e un ragazzo disabile che sognava di vedere la finale della Juve: "Portai con me un ragazzo disabile. Aveva 15 anni e per fargli vedere la partita qualche settimana prima andai al Comune e lo feci inserire sul mio stato di famiglia. In quella bolgia è stato il mio unico pensiero: quando riuscii a metterlo in salvo caddi per lo sfinimento. Lì cominciò l’inferno. La folla mi travolse e persi i sensi. Quando pochi minuti dopo mi risvegliai avevo le gambe bloccate dalle macerie e davanti a me c’era un uomo con la telecamera. Ricordo di aver letto "Italia" sulla macchina da presa e iniziai a urlargli di aiutarmi, ma lui continuava a riprendere. Gli dicevo di tirarmi fuori dalle macerie, ma quello continuava a girare. Qualche tempo dopo mi dissero che aveva vinto anche un premio. Ci pensa ? Io stavo morendo e lui aveva vinto un premio". Lo calpestarono così tanto che oggi le sue gambe sono livide e per sopportare il dolore deve prendere due pillole al giorno. Ma non è quello fisico il peso maggiore da sopportare. "Quando riuscirono a tirarmi fuori mi sistemarono su una barella di fortuna. Accanto a me c’era il corpo di una bambina. Avrà avuto 14 o 15 anni: aveva la gola tagliata. Ho passato tre giorni e tre notti a piangere". Non l’ha mai dimenticata. Come non ha dimenticato i dettagli che hanno preceduto l’inferno: "Mi ricordo gli inglesi che bevevano: forse mettevano la cenere delle sigarette nella birra e pochi minuti dopo diventavano cavalli in battaglia". Non ha parole di rancore per nessuno. Anzi. Ha rotto il silenzio a distanza di tre decenni per continuare e proclamare l’amore per i suoi colori. "L’amore per mia moglie è cambiato, ma non per la Juve" afferma sorridendo. Gli occhi scuri, la barba bianca e rada, le mani forti di chi ha trascorso una vita a contatto con il mare: "Fino a quel giorno ho seguito la Juve e il Taranto ovunque: ai giocatori rossoblu davo il pesce buono e loro mi regalavano i biglietti per lo stadio. Ma dopo quel giorno tutto è cambiato: ho lasciato il calcio. Qualche tempo fa ho pensato di tornare allo stadio: volevo vedere la Juve che sollevava la coppa e così ho chiesto ai miei figli di inviare una mail alla società: ho detto chi ero, quello che avevo passato e ho chiesto due biglietti per Berlino. Mi hanno risposto che i biglietti sono numerati e nominativi e che dovevo accontentarmi di vedere Juve-Napoli. Mi sento un po’ tradito, ma solo perché in questi 30 anni non ho mai chiesto nulla alla società. Per curare le conseguenze di quella finale: ho girato l’Italia, ma non c’è niente da fare, mi devo tenere il dolore. Pensavo solo di ricominciare da dove avevo lasciato e invece la dovrò guardare in tv. Peccato. Però vinciamo noi, ho giocato un biglietto con il risultato finale". Apre il portafogli e mostra il tagliando di una scommessa: "Questo è il risultato finale. Sicuro". E così mentre il mondo commenta l’inchiesta dell’Fbi sulla Fifa, Gaetano sogna ancora di vedere la sua Juve che alza al cielo la coppa dalle lunghe orecchie. Quella coppa di trent’anni fa, ma senza il sangue di quella bambina.

29 maggio 2015

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno

A-Z

ALFONSO CORRADINI

Non si può morire per una partita di pallone

Io, quel pomeriggio, ero nel settore "Z" di quel maledetto stadio. Gli inglesi furono la mano, ma quella mano fu armata dai responsabili dell'ordine pubblico e dall'UEFA.

Quella curva era divisa in due settori, un settore fu venduto ai club della tifoseria del Liverpool, l'altro settore, il settore Z, fu venduto in Belgio, e quei biglietti furono comperati da emigranti italiani, e belgi che volevano solo guardare una partita. Noi eravamo in quattro, ed un nostro amico, residente in Belgio ci prese i biglietti. Arrivammo allo stadio il pomeriggio ed il clima era buono, ma quando ci avvicinammo ai cancelli subito si capì che le cose prendevano una brutta piega. Dalla parte inglese la pressione della folla aveva messo in fuga gli addetti ai cancelli di tutta la curva. Noi siamo entrati senza che nessuno ci avesse strappato il biglietto e tanto meno controllato. Dalla parte del Liverpool entravano tutti e di tutto senza alcun controllo. Entrarono il doppio di persone che il settore poteva contenere; l'alcool scorreva a fiumi, la recinzione era sfondata. Verso le 17.00 arrivarono due poliziotti a cavallo; scapparono con affanno per non essere divorati, loro ed i cavalli, dalla folla inglese... Eravamo entrati presto e ci eravamo posizionati quasi al centro della curva, vicino al divisorio dei due settori. La divisione dei settori era fatta da due reti metalliche molto leggere, simili a quelle che si usano per i pollai, con in mezzo un piccolo corridoio. Ad un certo punto gli hooligans cominciarono a premere sulla prima rete lasciando intuire quanto fosse insussistente quella protezione. Uno di noi quattro: Renato, che aveva conosciuto la violenza degli inglesi in una semifinale con il Manchester United a Torino, fu preda di una sana paura e ci costrinse a spostarci verso lo spigolo alto della curva. Io ero contrario, non volevo lasciare quel posto ottimale per andare in un punto dalla visuale limitata, ma Renato, con la sua determinazione, ci salvò la vita. Quando gli hooligans cominciarono a bucare la prima recinzione intervennero nel corridoio quattro poliziotti, questo fece imbestialire ancora di più gli inglesi che incominciarono una prima, corta, sassaiola. I quattro poliziotti scapparono a gambe levate precipitandosi a sprangare un cancelletto che si trovava nel vertice basso del settore "Z"; era l'unica via di fuga verso il campo del settore. I quattro poliziotti ed i due precedenti a cavallo, sono stati i soli rappresentanti dell'ordine pubblico che quel giorno ho visto nello stadio. Le reti che dividevano i settori vennero giù come le foglie al vento autunnale. Incominciò l'inferno... Sulle nostre teste piovevano oggetti come fosse un temporale d'Agosto, ma al posto delle gocce d'acqua cadevano pietre, sassi, bottiglie, lattine, razzi e petardi di ogni genere. Da una parte c'erano ultras abituati alla violenza, violenza di cui si nutrivano abitualmente negli stadi, dall'altra gente normale che voleva solo vedere una partita, persone, che come me, non avevano mai sferrato un pugno in tutta la loro vita. Sotto la pressione della ferocia inglese il settore fu preda del panico più assoluto. La folla si ritirò verso la parte sinistra della fine della curva, contro quel famoso muro, fino a farlo crollare.

Le 39 vittime morirono schiacciate, l'una contro l'altra, compresse da una forza indescrivibile: la forza sprigionata da una folla in preda al panico più totale. Noi quattro ci eravamo spostati nello spigolo alto del settore, a 5 o 6 metri da un chioschetto che vendeva gelati, in quella ressa impiegammo 15 minuti a fare quei 5 o 6 mt. fino al chiosco; una volta raggiunto saltai sul tetto come un gatto, aiutato da un uomo che era già sopra, nell'85 avevo 22 anni. Mi fermai sul tetto ad aiutare a salire 4-5 forse 6 persone, fino a che montò su un ragazzo che aveva più o meno la mia età, questi mi disse: "SALTA ! Ora mi fermo io ad aiutare gli altri". Alzai lo sguardo, ed ho un solo ricordo: una ragazza che inciampa nella terra di nessuno, rotola, e viene fagocitata dalla massa rossa che avanza. Mi arrampico sul muro della recinzione alta della curva, oltre un volo di 5 o 6 metri verso la scarpata di terra esterna che conteneva la struttura. Saltammo e nessuno di noi si fece male. Eravamo fuori, salvi ed illesi; lassù qualcuno ci aveva preso per mano. Passammo vicino al varco carrabile d'ingresso allo stadio, dove era già caduto il muro, e c'erano una o due ambulanze con medici e paramedici che avevano steso tre corpi sull'asfalto. Mi avvicinai ad uno di loro e chiesi, in francese, se ci fosse stato bisogno di aiuto, mi rispose che erano in arrivo altre ambulanze e gli illesi era meglio si fossero allontanati per non intralciare i soccorsi. Obbedì. Nel frattempo, da una cabina, Renato riuscì a telefonare alla madre; poche parole: "siamo fuori dallo stadio e stiamo bene, qualsiasi cosa tu veda in TV noi quattro siamo fuori e stiamo tutti bene. Avverti le altre famiglie". Solo il giorno dopo riuscimmo a ricontattare l'Italia a causa della congestione delle linee. Ci mettemmo in macchina verso Hasselt, luogo dove il nostro amico ci ospitava. Quel viaggio fu pervaso da un silenzio surreale, parole gelate in gola che uscirono solo a distanza di mesi, forse anni. Quando in TV vedo immagini di repertorio che fanno vedere tutti quei poliziotti intorno al campo da gioco mi ribolle il sangue. Era sufficiente che un decimo di quelle forze dell'ordine fossero presenti il pomeriggio per evitare la strage. Se penso a chi ha deciso di far disputare quella finale in un vecchio stadio fatiscente come l'Heysel, ed ha avuto la brillante idea di vendere i settori Y e X agli hooligans e lo Z in Belgio, terra di migranti italiani, rifletto sull'infinita stupidità umana. Non si può morire per una partita di pallone.

2 agosto 2016

Fonte: Facebook  (Gruppo Io non dimentico Heysel)

A-Z

"Guarda, attaccano". l’Heysel trent’anni dopo.

Gli hooligans e la Coppa come una partita diventò una tragedia.

La notte del calcio

di Maurizio Crosetti

29 maggio 1985 Il tramonto, il presagio, l’attesa: poi l’invasione del settore Z in cui si trovavano le famiglie italiane. Juventus-Liverpool doveva essere la sfida più bella. Finì con trentanove vittime.

La ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una specie di minaccia impossibile da chiamare per nome. Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno. La città era lurida, la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido, dolcissimo. Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus con sopra scritto "Italian press", non proprio un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella del mondo ? Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano foto con gli occhi. Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. "Guarda, attaccano !", disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati. Dalla tribuna si capiva e non si capiva. "Ci sono dei morti", disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto. Trent’anni sono un tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu. Persone attorno, tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna di prendere appunti. Eravamo bimbi tra i lupi. Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il sussurro di un uomo buono, "restate calmi, giochiamo per voi"), la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio, un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e ripete "è finita, adesso è finita". Saranno trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai più.

26 maggio 2015

Fonte: La Repubblica

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