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Reduci Heysel D
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Testimonianze Reduci Heysel (D)
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"Il mio Heysel, 25 anni dopo"

Tu dici "Heysel"… Un nome, una storia, una tragedia. Esistono parole che ne contengono mille, centomila. Tu dici "Vajont", "Hiroshima", "Chernobyl" e non devi aggiungere altro. Heysel, appunto. Ho sentito le più grandi stupidaggini su quella notte, sulla partita, sugli hooligans. Ovviamente da parte di chi non c'era, perché è molto facile parlare dalla poltrona di casa, quando in "prima linea" c'erano gli altri. La più grande bischerata è quella di sostenere che la partita non andasse giocata. Credo che in determinati momenti i calciatori riescano ad isolarsi dal contesto, soprattutto non avendo ancora interamente percepito le reali dimensioni della tragedia. La Juventus non ostentò quel trofeo del quale parlano con onesto e sincero pudore i dirigenti e i giocatori di allora. Ma non sopporto chi si arroga il diritto di censurare una breve esultanza che era un gesto di scarico - caldamente consigliato dai dirigenti UEFA, come recentemente ricordato da Prandelli - e anche di ringraziamento per quelli come me che avevano fatto 1500 km in pullman per seguire la sua squadra. La Juventus ha pagato anche troppo per quella serata: prima con il dolore per 39 CADUTI, poi con le condanne morali dei soloni pronti a sciorinare il loro ipocrita repertorio da sacerdoti del senno di poi. E assolutamente disgustoso fu il falso perbenismo di quegli "sportivi" che si dissero indignati per le (rare) manifestazioni di gioia dei fans bianconeri in Italia, ma erano pronti a battezzare "Via Liverpool" le strade della penisola e a scendere in piazza con clacson e bandiere se la Vecchia Signora avesse perduto. Bisogna sottolineare, altresì, il comportamento irreprensibile nella forma e doveroso nella sostanza dello staff juventino al ritorno a Caselle, tutti scapparono in fretta dalle loro famiglie rifuggendo qualsiasi celebrazione. Segnalo sull'argomento l'ottimo libro di Nereo Ferlat "L'ultima curva - la tragedia dello stadio Heysel' , (mentre trovo fazioso e pretestuoso Caremani) e riporto cosa scrisse Giglio Panza sul "Tuttosport" del 5 giugno 1985: "Il giorno dopo che la squadra aveva adempiuto stoicamente al dovere che le era stato imposto, riuscendo anche a vincere, ecco scatenarsi la demagogia, l'orgia della retorica, la voglia di colpevolizzare tutto e tutti, perfino i giocatori juventini che erano andati a salutare i tifosi obbedendo a un sentimento di gratitudine"... Io rammento bene il clima che si stava creando nei settori M/N/O, cioè la curva opposta a quella degli scontri, quando si sparse la voce - eravamo nel secondo tempo del match - che "c'era qualche morto". Ricordo l'appello del povero Gaetano Scirea (..."Stiamo giocando per voi") e di Phil Neal, che poi scrisse al capitano bianconero queste parole:

"Caro Scirea, sono un calciatore professionista. Come te. Non sono un politico, o un diplomatico, o un uomo di legge. Non so scrivere quei discorsi pieni di delicate parole che esprimono il dolore ufficiale e la tristezza di una nazione e in questo caso di una organizzazione come il Liverpool Football Club. Sono soltanto un uomo comune. Posso assicurarti che ho pianto spesso da quando sono tornato da Bruxelles. Mia moglie e la mia famiglia possono dirti che persona triste e sconsolata sia diventato nell'ultima settimana. Ho persino pensato di ritirarmi dal calcio e di non avere più nulla a che fare con questo sport. Molti di noi lo hanno fatto. Mi sono troppo divertito in tanti anni di attività per poter stare a guardare il calcio inglese che finisce nella spazzatura. Ho lottato e cacciato e spinto e avuto da dire con Franco Causio nel nome della Coppa del Mondo. Gli ho stretto la mano, ci siamo abbracciati e scambiati le maglie. La sua l'ho portata ai miei amici italiani che vivono a Liverpool. Non sono più così sicuro che lo spirito col quale abbiamo giocato quella partita bellissima possa sopravvivere, resistere al comportamento di una minoranza di spostati che hanno distrutto la nostra grande notte allo stadio Heysel. Noi due eravamo nello stesso box, abbiamo usato lo stesso microfono per invocare la calma, per pregare che la nostra partita e il nostro calcio avessero un futuro. Oggi sono solo e chiedo a te e agli italiani di perdonare, di avere pazienza, mentre noi lavoriamo per salvare il nome del calcio, qui in Inghilterra". Nelle frasi del capitano "red" tutto il senso di colpa, di vergogna di una nazione, di un club, dei suoi tifosi. Prova a spiegare, oggi, che le bandiere della Juve, gli stemmi bianconeri cuciti sui giubbotti dei "koppities" non sono trofei di guerra, ma il segno di un particolarissimo "gemellaggio etico", se così possiamo chiamarlo. Come se volessero dirci: lo sappiamo, stiamo ancora espiando. Ricordo il pudore e l'imbarazzo del mio vicino di posto, nel mio "debutto" ad Anfield nel 2001, quando chiacchierando gli dissi che "I was there..." . Pochi, in Italia, capiscono. Gli hooligans. I teppisti. La feccia. I supporters britannici in generale, additati al pubblico ludibrio. Una alluvione di luoghi comuni superficiali e tonnellate di demagogia. La "giustizia" dell'UEFA. Una giustizia pusillanime, vigliacca. Con una lunghissima coda di paglia dimostrata persino 15 anni dopo, agli Europei del 2000, quando i parrucconi del Comitato Organizzatore osteggiarono qualsiasi commemorazione proposta dalla nazionale italiana davanti alla lapide nel nuovo stadio "Re Baldovino". Poi Antonio Conte e Paolo Maldini andarono ugualmente a deporre dei fiori. Juventus a porte chiuse i primi due turni europei dell'anno successivo. Perché ? Me lo spieghino. E niente Supercoppa Europea con l'Everton per il bando ai club di Sua Maestà. La Juve poteva almeno giocare contro il Rapid Vienna, la finalista sconfitta. Niente. Mah. Prima fanno disputare finali europee con larghissimo seguito di pubblico in impianti ridicoli, fatiscenti, pericolosi, con otto poliziotti a cavallo: poi cercano di lavarsi la coscienza col pugno di ferro... E nessuno di loro ha pagato, né pagherà. Vorrei qui trascrivere alcuni passaggi dell'editoriale di Italo Cucci, dal Guerin Sportivo del 5 giugno 1985: "...Avere negato al calcio inglese il contatto con l'altra Europa è come aver assegnato a quei fanatici una medaglia. Semmai dovevano punire soltanto il Liverpool, oggettivamente responsabile dei suoi "animals"; il ritiro del "passaporto" all'Everton e agli altri club riporta indietro non solo tutta l'Europa calcistica ma anche quel grande paese sognato che doveva sorgere sull'abbattimento dei confini e dei nazionalismi (...) non per mero idealismo ma per amore di una sicura fratellanza fra i popoli. Le lacrime dei ragazzi di Fagan nella cattedrale di Liverpool sono vere come quelle che noi abbiamo versato per le vittime dell'Heysel. Mi sento anche di respingere il ruolo di giudice assegnatosi dall'UEFA. Se la mano omicida è stata quella degli "animals" di Liverpool, la mente idiota che ha favorito il massacro è senza dubbio quella dell'ente calcistico europeo affidatosi alla federazione belga senza pretendere il controllo della sua organizzazione, apparsa colpevole fin dalla lontana vigilia, quando ha saputo interpretare soltanto un ruolo burocratico, mancando d'intelligenza e di ogni forma di prudenza. Mentre il signor Millichip, presidente della federazione inglese, comunicava la dura decisione di ritirare le proprie squadre dalle competizioni europee, l'intero gruppo dirigente dell'UEFA doveva dimettersi, imitato dalle autorità calcistiche e dai responsabili dell'ordine pubblico del Belgio. Tutti costoro - ripeto - sono più colpevoli della strage di Bruxelles di quanto lo sia il calcio inglese. In Italia questo doveva essere preteso, dai governanti del calcio come da quelli del Palazzo; si è invece preferito moraleggiare sul piccolo e stupido trionfo improvvisato allo stadio dei giocatori della Juve, sicuramente stravolti dalla terribile vicenda di cui erano stati testimoni. (...) Piuttosto che rivolgersi ai veri colpevoli della strage pretendendo giustizia, si è preferito infierire su chi era andato a cogliere un trofeo nell'Heysel. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felicità. Speriamo invece che le dia l'energia, la determinazione sportiva di riconquistarla fra un anno: solo una coppa così, più vera, potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non sono più tornati dallo stadio di Bruxelles e sono stati portati sul freddo marmo di un obitorio coperti di bandiere e di sciarpe bianconere". Eppure, mi sembra che il 29 maggio 1985 sia passato invano. Nel 2005, quando giocammo ad Anfield, fummo accolti da una bellissima coreografia, ma gli ultras esportati per l'occasione si girarono di spalle col dito medio alzato. Non solo, ma all'aeroporto disdegnarono il saluto del sindaco e del console italiano a Liverpool, non capendo che un conto è il dolore, un conto è l'inciviltà. italiani e inglesi non possono, non devono sentirsi nemici. Il popolo dei Reds, scontato l'embargo e le più pesanti condanne morali, è sempre lì, a sostenere i suoi undici campioni, a urlare "You'll never walk alone" dalla Kop. Invece noi abbiamo dato una brutta immagine quest'anno a Torino, e non abbiamo imparato dal passato come hanno fatto oltre la Manica. Dobbiamo ammettere che Capello e Ancelotti su questo aspetto hanno ragione.

28 maggio 2010

Fonte: Juventinovero.com

A-Z

... ANDREA DANUBI ...

Il mio Heysel

La mattina del 29 maggio 1985 ero nella Grand Place di Bruxelles. Moltissimi inglesi si stavano riempiendo di birra, "carburante" ideale, ahimè, per un’euforia che sfociò in tragedia. Ad un certo punto un bestione vestito di rosso mi viene incontro: io ero un ragazzo magrolino un po’ timido, lì per lì fui titubante, poi capii col mio inglese scolastico che voleva scambiare il cappellino e fare una foto insieme. I koppities erano tantissimi, mossi da una fede che vent’anni dopo li ha riversati ad Istanbul, surclassando in quantità, colore e potenza sonora del tifo gli altri supporters, in ogni stadio. A Torino, lo scorso 14 aprile, erano 2000, noi 50.000: eppure, al 90°, io stavo uscendo dal Delle Alpi dal lato opposto, e sentivo solo loro che cantavano lo struggente "You’ll never walk alone". Non camminerete mai soli. "Quando attraversi una tempesta...", dice la prima strofa. Nel dopo Bruxelles loro l’hanno davvero attraversata. Le condanne morali perpetue, messi al bando dall’UEFA e dalla Thatcher, additati tutti come hooligans. Credo che sia giusto riconoscere i grandi progressi di maturità e civiltà, adesso, del pubblico britannico. Già nel 1990, ai mondiali italiani, vinsero il premio fair-play della FIFA. Io sono stato ad Anfield Road, a toccare con mano. Resto convinto che in uno stadio diverso, invece che nel fatiscente e pericoloso Heysel, e con un servizio d’ordine efficiente, non sarebbe accaduto nulla. Immagino che il 90% di quei 15.000 e più "liverpudiani" presenti a Bruxelles fossero anche a Roma l’anno precedente. Non vi furono incidenti all’Olimpico. I belgi: il 29 maggio dell’85 hanno avuto la loro caporetto. La gente non lo sa, ma diverse autopsie furono sbagliate. I corpi di molti tifosi non furono ricuciti subito. Alcuni cadaveri tornarono in Italia in dei sacchi di plastica, con un cartello legato all’alluce col nome del morto. E capitò pure che dei cartelli siano stati invertiti. E, vergogna delle vergogne, ad alcune famiglie arrivarono, mesi dopo, le fatture dagli ospedali di Bruxelles. Così ci hanno trattato. Ostacolando il lavoro di chi cercava di fare luce, di vederci chiaro. Un processo farsa, dove i responsabili del disastro organizzativo non hanno pagato. Assolti. L’UEFA, per lavarsi la coscienza, ha demolito l’impianto e ricostruito sopra lo stadio Re Baldovino. Con affissa all’interno, in quella zona dove crollò il muretto che determinò la strage, una penosa targa ricordo. Io non sono più stato a Bruxelles. Quel nome, per me, fa rima con morte. La Juventus e il Liverpool giocarono in trance, e dal momento che furono obbligati ad andare in campo lo fecero con professionalità encomiabile. Il popolo juventino aveva il diritto di festeggiare, non poté farlo. Aveva 39 caduti. Caduti in una terra per noi amara, per i belgi noi siamo sempre i minatori di Marcinelle.

29 Maggio 2005

Fonte: Tuttojuve.com

A-Z


ATTILIO DE COL

De Col (Corriere delle Alpi): "Dall'Heysel a Berlino, 30 anni dopo"

Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Attilio De Col del Corriere delle Alpi di Belluno: Trent'anni da quella maledetta finale. Sabato sarò in tribuna a Berlino, trent'anni dopo quella maledetta finale.

Io ero all'Heysel e quindi la mia presenza in Germania assume per me un valore ancora maggiore. E' un ricordo che ogni anno affievolisce sempre più, ma che è comunque sempre vivo nella memoria. Non ero in curva Z per fortuna, ero nella curva opposta e i ricordi sono ancora impressi nella mente... RICORDO che io e il mio amico Ivan Da Col prenotammo il viaggio in ottobre da una agenzia viaggi di Belluno, innamorati di Platini e convinti che in maggio quella super Juve ci sarebbe stata. RICORDO un interminabile viaggio da Belluno a Bruxelles, 25 ore in pullman. Per contenere i costi l'agenzia non pagò nemmeno il pedaggio per il ponte di Innsbruck. Tre ore in più per delle stradine assurde. RICORDO il clima di festa che c'era a Bruxelles. In mattinata eravamo nella stessa piazza con gli inglesi. E chi poteva immaginare cosa sarebbe successo quella notte ? Abbiamo giocato a calcetto in piazza contro di loro, con le porte fatte con le casse di birra, prendendoci anche in giro e bevendo con gli inglesi. Purtroppo ho perso la foto di gruppo fatta alla fine di quella partita. Noi tutti dipinti di bianco e nero, loro di rosso. RICORDO, però, che già all'ingresso allo stadio si capiva che qualcosa stava funzionando male. Tifosi stipati come bestie ai cancelli e alla prima lamentela un paio di poliziotti a cavallo a passare addirittura in mezzo a noi, rischiando di ferire qualcuno, insultando gli italiani nella loro lingua. Come se poi non si capissero quegli insulti. RICORDO quello stadio inadatto anche per una gara di Terza categoria. Con la terra fra un gradone e l'altro e le transenne che si potevano togliere con le mani. RICORDO i commenti dei tifosi attorno a noi su come avevano messi gli inglesi. Rinchiusi in un terzo di curva quando ne sarebbe servita almeno mezza per contenerli tutti. Ma perché non avevano dato una curva a testa ? Presagi maledetti. RICORDO le prime cariche degli inglesi. E poi la gente in campo, ma nessuno di noi aveva capito realmente cosa era successo. Avranno invaso il campo per scappare dagli inglesi abbiamo pensato tutti. RICORDO quando i Fighters (erano loro il gruppo ultras nel 1985) ci urlavano con i megafoni di entrare tutti in campo e noi non capivamo il perché. Anzi, da sopra tutti li insultavano. "Abbiamo fatto un giorno di pullman, ora vuoi rovinarci la festa ?". Ma quale festa ? Ma questo lo scoprimmo molto dopo. RICORDO a malapena il messaggio di Gaetano Scirea, perché in quello stadio maledetto non funzionavano nemmeno gli altoparlanti. RICORDO la gioia incredibile al rigore di Platini. Quanta attesa dopo la delusione terribile di Atene, che rivincita. E poi la festa a fine gara. Gli juventini di quella curva sono gli unici che hanno festeggiato davvero quella vittoria. RICORDO poi la brutta sensazione all'uscita dello stadio. Una autentica caccia all'inglese. Scappiamo veloci verso il nostro pullman. Nessuno ci disse nulla, nemmeno l'autista. Nessuno sapeva nulla di quei 39 morti. Nel 1985 non c'erano telefonini o social network. Ora sarebbe diverso. RICORDO... E questo è il peggiore... Il brivido sulla schiena quando entrammo in un autogrill in Germania e nei giornali tedeschi il titolo gigante era: 39 morti. Ma come ? A Bruxelles ? E allora via tutti a cercare un telefono per chiamare a casa. RICORDO mia nonna in lacrime quando rispose al telefono. A quel punto erano lacrime di gioia, ma la sera prima i miei avevano chiamato tutti i numeri possibili per sapere se ero ancora vivo. RICORDO anche la sgradevole sensazione dei giorni successivi, quando alle immagini dei morti si contrapponevano quelli di Platini e gli altri giocatori con la coppa in mano. Ma non sono mai riuscito a colpevolizzarli per questo. In definitiva non era colpa loro di quello che era successo. Le cose importanti nella vita sono altre. Sono mia figlia, mia moglie, la mia famiglia, il mio lavoro, i miei amici. Ma la Juventus ha una parte importante nel mio cuore. E' una passione che incredibilmente cresce con il passare degli anni. Soffro ad ogni partita, sia in tv, sia allo stadio. Forse è stata anche colpa di quella maledetta notte che non sono andato alle altre finali di Champions. O solo per la difficoltà ad avere i biglietti. O solo per il costo troppo alto. Chissà. Avrei gioito a Roma e pianto per le sconfitte contro Dortmund, Real Madrid e Milan. Ma ora ci siamo. Comunque vada, quest'anno è una Juve meravigliosa. Ma se dovesse vincere il mio pensiero, in mezzo alla festa, andrà sicuramente a quella notte maledetta. In bocca al lupo ragazzi. E se dovesse accadere qualcosa di magico, una dedica a quelle 39 persone sfortunate sarebbe il regalo più bello per quei 30 mila tifosi presenti quella notte a Bruxelles. Attilio De Col (Juventus Club Doc Pavel Nedved Belluno)

1 giugno 2015

Fonti: Tuttojuve.com - Corriere delle Alpi di Belluno

A-Z


ALESSIO DEGRANDI

Il racconto di un superstite dell'Heysel che nel 1985 aveva appena 14anni: Alessio Degrandi

"Quella tragedia non mi ha sconfitto, amo ancora la Juve"

di Antonio Barillà

All'indomani della tragedia dell'Heysel, l'Italia, impietrita dal dolore, prega per un giovanissimo tifoso: Alessio Degrandi, quattordici anni, era stato travolto dall'onda assassina degli hooligans e il più diffuso dei quotidiani scelse la sua immagine per ritagliare, tra morti e lacrime, un messaggio di speranza. La fotografia pubblicata lo ritraeva esanime accanto a un cadavere, mentre un poliziotto cercava disperatamente di rianimarlo, la scritta era commovente: "Ragazzo, tu devi farcela". Alessio ce l'ha fatta: è tornato dal buio. S'è laureato in economia e commercio, lavora nel campo assicurativo, progetta il matrimonio con Stefania, ama il calcio e la Juventus, ha un cattivo ricordo e nessuna fobia: "Ho avuto problemi soltanto i primi mesi: mi viene in mente un improvviso attacco di panico al Palasport di Montecatini Terme, la mia città, gremito per un derby di pallacanestro con Pistoia. Fui assalito, da una sensazione terribile, mi sentivo soffocare, vedevo scorrere i flash back di Bruxelles". Problemi ormai superati... E' stato fondamentale tornare, subito in uno stadio, furono i medici a consigliarlo ai miei genitori. Mi portarono a Pisa, naturalmente, a vedere la Juventus, e da allora ho ripreso regolarmente a frequentare curve e tribune. Pur vivendo in Toscana, rinnovo ogni anno l'abbonamento e non mi perdo le più importanti sfide europee dei bianconeri. C'ero con il Real Madrid e ci sarò con il Liverpool: ho già prenotato il biglietto. Mi da solo, tremendamente fastidio, ormai, assistere a incidenti, anche banali scazzottate, tra tifosi. So, purtroppo, quanto basti poco perché possano degenerare: io sono, arrivato a qualche secondo dalla fine, trentanove persone non hanno avuto la mia fortuna. Il sorteggio dei quarti riaccende i ricordi... Dimenticare, non sarebbe giusto. Mi auguro che la sfida diventi una festa, che vinca lo sport per onorare la memoria delle vittime. Penso che sia stato il destino a tenere Juventus e Liverpool lontane per vent'anni. Se la sente di raccontare quel giorno ? L'ho fatto tante volte, benché quasi mai pubblicamente. Ero con mio cugino Gianfranco, più grande di me, quello che mi ha trasmesso la passione bianconera. Mi aveva già portato ad Atene, per l'amara finale contro l'Amburgo: a Bruxelles volevamo esserci e in extremis riuscimmo a trovare i biglietti. Incredibilmente, dopo tanta fatica, al momento di partire li dimenticammo a casa: ce ne accorgemmo al casello quando stavamo andando in aeroporto, forse era un presagio. A Bruxelles sciamavano già hooligans invasati... Prima della partita non ho assistito a scene di violenza, ho solo visto gruppi d'inglesi ubriachi nella Grande Place. Al ristorante fraternizzammo con una famiglia di Liverpool. Ben diversa, è facile immaginare, l'atmosfera dello stadio... Capimmo subito che era inadeguato. L'ingresso del nostro settore era minuscolo, la rete che ci separava dagli inglesi fragilissima e già forata, i gradoni fatiscenti: un colpo sul cordolo e si sbriciolavano.  Le munizioni degli hooligans... I primi lanci cominciarono subito, sporadici, ci fu pure un cenno di rissa perché provarono a strappare uno striscione. Ogni tanto i poliziotti belgi ne portavano via uno, ma assurdamente lo vedevamo rientrare subito e portare pure le birre ai compagni: erano ubriachi, loro, ma i veri responsabili del dramma furono le forze dell'ordine. E chi scelse quel maledetto stadio. L'inferno si aprì all'improvviso... Partì una sassaiola violentissima, ci fu un fuggi fuggi generale, gli hooligans cominciarono ad avanzare. Mio cugino aveva intuito il pericolo e urlava di non scappare, però arginare quell'onda era impossibile. Persi una scarpa, mi chinai per raccoglierla, caddi e non riuscii più a muovermi. Ricordo le persone che mi calpestavano, i gradoni che mi segavano la schiena. E ricordo... Un avambraccio, qualcuno caduto accanto a me e al quale mi aggrappai con forza. Ricordo una voce d'uomo che mi diceva di resistere. Poi arrivarono gli hooligans, io ero tramortito, mi colpirono con calci e pugni, mi rubarono il portafoglio e l'orologio. Poi il buio... Aprii gli occhi qualche ora dopo nell'ospedale di Bruggman: vedevo soltanto ombre, un taglio profondo al piede mi impediva di camminare. Un'infermiera mi informò del rigore di Platini: chiesi se c'era una tv, volli vedere gli ultimi minuti. Ero solo, senza soldi, né documenti: uno dei feriti chiamò il consolato e subito una funzionaria mi raggiunse. Suo cugino, nel frattempo ? S'era salvato e mi cercava dappertutto. Anch'io, inconsciamente, lo cercavo: quando mi chiesero le generalità pronunciai il suo nome, così non risultai nell'elenco dei feriti. Era disperato, andò a vedere i morti, poi riprese a setacciare gli ospedali: in uno gli dissero che era appena morto un ragazzino italiano, credo fosse Andrea Casula, di Cagliari. Intanto Simone, un nostro amico, era riuscito a contattare casa. Non mi aveva più visto, ma disse che stavamo tutti bene: i miei angosciati dalla tv, si tranquillizzarono e quando telefonarono dal consolato, di notte, mia madre svenne. Quando la trovò Gianfranco ? "La mattina dopo. lo gli dissi: "Hai visto, abbiamo vinto", lui piangeva e mi stringeva forte. Quell'abbraccio ha avuto un seguito nella finale di Roma con l'Ajax: c'eravamo, e dopo il rigore decisivo di Jugovic ci stringemmo forte, come allora, in silenzio. Tutti e due in lacrime". Il ritorno a casa... "Ci imbarcarono, su un aereo destinato ai feriti. Oltre al taglio al piede avevo ecchimosi ed escoriazioni in tutto il corpo; mi avevano diagnosticato un trauma cranico e toracico. Mi sono rimaste conseguenze alla vista, un'accentuazione della miopia. Ricordo i miei abiti di fortuna, i pianti di gioia dei parenti, una processione di gente a casa. Le mie foto divennero uno dei simboli della tragedia, mi portarono anche una copia dell'Equipe: io adagiato su una transenna trasformata in barella, io portato via a braccia". Vent'anni dopo, di nuovo il Liverpool... Spero che sia una festa, che la Juventus raggiunga la finale e vinca largo. Spero che nessuno dimentichi e spero, ma è impossibile, in un calcio senza più violenza. Ha mai incontrato altri superstiti o familiari di vittime ? "Solo occasionalmente, ma più volte sono stato tentato di andare a trovare il signor Lorentini. Ho letto che suo figlio, medico è morto per salvare altre persone. Ha salvato anche un ragazzo, forse quel ragazzo ero io"...

(Il figlio del signor Lorentini, medico, è morto quella sera, schiacciato e calpestato dalla furia degli hooligans mentre provava a rianimare un bambino rimasto esanime per terra sugli spalti dopo i primi scontri. Quello stesso giorno a casa Lorentini era arrivato il telegramma con cui l'ospedale di Arezzo comunicava l'avvenuta assunzione del giovane medico... Il signor Lorentini, padre di questo medico coraggioso, presiede tutt'oggi l'associazione vittime del 29 maggio 1985. N.d.R.)

23 marzo 2005

Fonte: Tuttosport

A-Z


FRANCESCO DEMARTINO

Un giorno di straordinaria follia

Sono Francesco, figlio del maresciallo foggiano che il 29 Maggio 1985 ha corso il rischio di non veder più crescere i suoi due figli, non veder più l'amata compagna di vita che ora non c'è più... Tutto questo per colpa di chi... Naturalmente dell'uomo, se non di chi altri... Solo che questa volta l'uomo nero aveva le sembianze di una marea umana, uomini, come noi non extraterrestri... Gente venuta da Liverpool trasformatasi in belve ubriache fino al midollo. Cercherò di partire dall'inizio, il mio battesimo del fuoco allo stadio Comunale di Torino l'ho avuto in semifinale con il Bordeaux. Papà dopo mille insistenze mi portò con sé a vedere i miei eroi, vincemmo 3-0, segnarono Boniek, Briaschi e Platini... Ero al settimo cielo, ero riuscito a veder dal vivo i miei eroi. Peccato solo che non giocò il mio vero mito di allora Capitan Fracassa Stefano Tacconi... Tornati a casa cercai di strappare una promessa a papà... "Se vai a vedere la finale con il Liverpool io vengo con te", mi disse di sì. Una favola per me, immagina 9 anni io... All'inizio sembrava che i biglietti si fossero dissolti nella nebbia, ma poi papà seppe che molti Tour operator erano entrati in possesso di tanti tagliandi. Riuscì a trovare due biglietti con annesso viaggio aereo e albergo per Bruxelles. Mamma si impose perché non voleva che viaggiassi in aereo ed il mio biglietto andò a finire nelle mani di un mio parente. Io mi dovevo accontentare della Tv... Però papà mi avrebbe sicuramente portato qualche souvenir della finale... Veniamo al viaggio, accompagniamo papà in stazione, treno direzione Roma. Arrivato a Roma c'era un suo collega di corso della scuola sottufficiali, che viveva lì da tempo e lo accompagnò in aeroporto. Il Tour operator aspettava i tifosi con un elenco in mano. Sbrigate le pratiche del viaggio, arrivo a Bruxelles, un pullman sempre del Tour accompagnò papà e tanti altri in albergo. Sistemati in camera papà chiamò per avvertirci che tutto si era svolto al meglio e mi disse: "domani vinciamo, segna Platini". Il mattino successivo papà voleva farsi un giro nelle piazze principali di Bruxelles però qualcosa non lo convinceva, il timore fondato che gli inglesi avrebbero fatto danni c'era. Anni prima papà era stato per un periodo in Inghilterra per motivi legati al servizio e conosceva benissimo le loro abitudini "alcoliche"... La scena che lo colpì fu una piazza completamente invasa e ricoperta di lattine, bottiglie vuote rotte di birra, fontane devastate e alcune vetrate di negozi sfondate. Incontrò molti inglesi già completamente ubriachi...  Alcuni volevano scambiare le sciarpe e bandiere, lui da vecchio militare lo fece... Pranzarono in albergo poi il Tour operator li portò allo stadio, all'incirca le 17.30 del pomeriggio... Arrivati allo stadio c'erano già migliaia di tifosi della Juve in festa pronti a entrare... Papà si posizionò in corrispondenza del tabellone luminoso, aspettando il suo turno per entrare. L'entrata era piccolissima, malmessa, fatta anche di legno, ferro arrugginito, stretta... Lui notò pezzi di cemento a terra... Ma a tanti tifosi era sfuggita una cosa che a papà ha fatto drizzare le antenne... Vicino lo stadio un cantiere senza sorveglianza, un potenziale deposito di armi improprie... Poi un'altra cosa non gli quadrava, pochi gendarmi, pochi poliziotti... Ma soprattutto lungo il tragitto che aveva fatto per arrivare allo stadio aveva notato un reparto mobile di gendarmeria... Dentro l'impianto pochi agenti, alcuni a cavallo... Altra cosa, gli inglesi che entravano di fianco lo facevano senza nessun controllo, pieni di cassette da sei lattine o bottiglie di birra, bandiere che sembravano lance appuntite. Una volta entrato si è ritrovato quasi al centro della curva, leggermente in basso... La sua fortuna col senno di poi... Poco dopo le 19 l'INFERNO. Viene sparato un razzo verso il suo settore e comincia il tutto. Gli italiani mischiati a belgi vengono aggrediti con pietre, pezzi di cemento, colli di bottiglie... Il cantiere adiacente lo stadio era diventato già prima un armeria. Arrivava di tutto, spranghe che volavano. Gli Juventini indietreggiavano e gli hooligans la rete metallica la utilizzavano per schiacciare gli italiani, continuavano nella loro follia gli inglesi. Papà ha cercato di rimanere in piedi il più possibile, se fosse inciampato o caduto non lo so se lo avrei più rivisto... In mezzo a quella follia collettiva papà ha fatto il percorso contrario, molti juventini cercavano scampo ammucchiandosi tutti insieme in alto, lui non so com'è riuscito, ma purtroppo, ahimè, facendosi largo in tutte le maniere possibili, ad arrivare sul terreno di gioco, mentre il muretto cedeva, gli altri venivano calpestati, massacrati... Lui e tanti altri si sono ritrovati in campo... Quei pochi gendarmi addirittura volevano caricarli... Con uno di quelli papà ha utilizzato l'inglese per farsi capire, chiedere rinforzi, aiuto... La risposta non è stato educata... Papà neanche lui è stato educato con i gendarmi... Ha fatto benissimo a mio avviso, del tutto impreparati... Ha visto tanti tifosi juventini che cercavano di scavalcare e dirigersi verso la tribuna stampa e si è ritrovato Marino Bartoletti di fianco... Arrivato in tribuna stampa ha provato a dirigersi verso Bruno Pizzul, nel frattempo in mezzo a molti juventini che gli chiedevano di chiamare a casa... Chiamare al telefono familiari e parenti... Papà ha provato dicendo ad altri giornalisti presenti che in curva Z era accaduta una tragedia, lui era certo, qualcuno non ce l’ha fatta. Nel frattempo i soccorsi improvvisati si muovevano dappertutto, papà ha notato che i feriti venivano addirittura trasportati verso gli spogliatoi. Gli appelli dei Capitani Neal e Scirea papà li ha ascoltati a pochi metri da lui. In tutto quel caos nessuno si è avvicinato a mio padre. Il famoso reparto di gendarmeria era entrato in campo, avevano addirittura i cavalli disposti in schieramento da parata... La follia all'ennesima potenza... Mio padre vide alcuni giocatori della Juve in campo parlare con i tifosi, vide Bodini, Tacconi, Brio, Tardelli, Prandelli, Caricola e poco dopo vide portare delle persone morte su barelle improvvisate... Questo è ciò che è successo, la partita, la vittoria, il ritorno verso il parcheggio del pullman, avere ritrovato tutti i componenti del viaggio, qualcuno ferito... C'è tanto ancora da raccontare, tanto, ma è solo dolore e rabbia.

12 ottobre 2014

Fonte: Facebook (Pagina Comitato Heysel)

A-Z


FABRIZIO DE TOMMASO

"Heysel, partimmo da Cittaducale in 13…"

Il ricordo di Fabrizio de Tommaso

Il reatino Fabrizio De Tommaso era all’Heysel in quella maledetta finale di Coppa dei Campionai. Era il 29 maggio di trenta anni fa e De Tommaso era a Bruxelles in un giorno nerissimo per il calcio europeo ed italiano. Questo il suo ricordo.

Un martedì di 30 anni fa partimmo da Cittaducale in tredici. Dovevamo essere sessanta ma la grande richiesta di biglietti per questa finale tagliarono di fatto le esigenze di richieste dei club da parte della società, e quel giorno al vecchio comunale, in quella gara Juventus -Avellino, ultimo match del grande Furino, mi recai a Torino per il ritiro dei biglietti (N.D.R. Furino si è ritirato in quella partita, ma si è svolta l’anno precedente, stagione 1983-1984. Nel 1985 La Juventus giocò in casa con l’Avellino il 10.02.1985. E’ più presumibile si trattasse di Juventus Sampdoria giocata il 12.05.1985) Tornai a Cittaducale ugualmente felice di avere in mano quei tredici tagliandi che nel tempo avrebbero potuto rimanere nella storia sportiva. Radunai i miei compagni di viaggio in una mitica cena e pieni di entusiasmo organizzammo il viaggio. Io appena patentato e nel pieno dei miei 22 anni - tenendo nascosto le modalità di viaggio ai miei genitori - non vedevo l’ora di inghiottire quei quasi 2000 chilometri che mi dividevano da Bruxelles e, insieme ai miei compagni, non vedevo l’ora di assistere al primo trionfo in una coppa Campioni dei miei idoli: Platini, Boniek, Scirea, Cabrini, atleti che l’anno prima avevo visto trionfare a Basilea nell’allora Coppa delle Coppe. Ma si sa, la coppa dalle grande orecchie era il vero trionfo che mancava alla Juventus ed io volevo essere lì. Il martedì 28 maggio alle 7 di mattino, alla guida della mia auto con a bordo Walter e Giustino, insieme a Tonino, Loris e tutti gli altri, ci avviamo destinazione Aosta, sede della prima sosta: risate tante, momenti di grande spensieratezza come tutti i viaggi e grande attesa per il mitico avvenimento a cui da lì a poco, avremmo assistito. Hotel "Il caminetto", grande accoglienza come tutte le località montane, cena tipica… E l’attesa continuava a salire. Il giorno dopo partiamo, transitiamo per il traforo del Monte Bianco verso Le Fiandre, dal paesaggio bellissimo e caratteristico che le grandi corse ciclistiche hanno esaltato per spettacolarità. Intorno alle 14 arriviamo a Bruxelles, e ci dirigiamo allo stadio, poco fuori la città. Ricoveriamo le macchine dove meglio potevamo e già da lì la disorganizzazione era una cosa certa. Vedere qualcuno delle forze dell’ordine era cosa rara: ormai comunque eravamo allo stadio, felici e contenti. Nel muoverci però cominciava a salire la preoccupazione. Non c’era un inglese che non era ubriaco e che non recasse fastidio a chi stava vicino. Cerchiamo di avvicinarci alla nostra zona di ingresso e lì venni assalito da un gruppetto di tifosi e colpito con pugni nel tentativo di rubarmi il biglietto. Riesco a scappare e raggiungere i miei compagni di viaggio fuggiti visto il pericolo. Nel raggiungere la curva N incontriamo ragazzi giovanissimi inglesi che venivano arrestati e portati via a piedi in manette dalle forza dell’ordine che piano piano cominciavano a comparire (qualcuno aveva pensato bene di chiamare rinforzi). Nelle classiche postazioni di ristoro non potevi pensare di avvicinarti: erano prese d’ assalto dagli inglesi alla ricerca di birre, che venivano portate via e dentro allo stadio in cartoni interi.

Entriamo allo stadio senza nessun controllo con il biglietto intatto: il vecchio Heysel era confrontabile con il nostro Fassini, con la differenza che i vari settori erano divisi da una semplice rete di plastica di color verde, di quella utilizzata da noi per semplici recinti di cortile, completamente fatiscente con pezzi di cemento che si staccavano completamente con le mani. Prendiamo posizione alla ricerca della miglior visibilità e da subito ci rendiamo conto che i tifosi bianconeri nell’ altra curva subivano cariche in continuazione da parte degli inglesi. Nulla potevano le semplici reti di divisione. Partiva una carica di 100 persone circa, colpiva i tifosi, rientrava nel settore e subito ne partiva un’altra. Spesso gli inglesi effettuavano queste cariche con bottiglie di birra vuote rotte nella parte superiore. Assistevamo increduli ad uno spettacolo incredibile: roba da guerre Puniche, centinaia di persone che si spostavano da destra a sinistra e le guardie a bordo campo che guardavano, impossibilitate ad intervenire per il loro numero esiguo. La gente comincia ad arrivare nella nostra curva scappando dalla famosa curva Z. Già cominciano a parlare di 28 morti. Questo è stato il primo dato sentito da noi. Increduli ci rendiamo conto di essere stati super fortunati: una semplice lettera N invece di Z ci aveva salvato la vita. Vengono sotto la curva Platini e Cabrini, arrivano gli altri bianconeri, i due capitani nella loro lingua fanno appello alla calma altrimenti la partita sarebbe stata rinviata. Il popolo bianconero che non si rendeva conto nei numeri (28 morti) aspettava con ansia l’inizio della gara, ma piano piano che diventava certezza questo dato, la paura, la rabbia la tristezza ci invadeva il corpo e la mente. Nel tempo i morti sarebbero poi diventati 30: il tutto per una partita di calcio seppur importante. Che tristezza. Per motivi di ordine pubblico - diranno poi in seguito - la gara ebbe inizio e finì come tutti sappiamo e come non voglio raccontare. Il mio gruppo ormai decimato nei fuggi fuggi, uscì dallo stadio alla metà del secondo tempo. Ormai il panico, il terrore, ci aveva assaliti e tanta paura c’era nel dopo partita al rischio di incontrare i tifosi inglesi. Il loro parcheggio era di fatto alle nostre spalle. Corriamo in auto e tante ambulanze incontriamo nella nostra fuga. Le radio locali in lingua francese parlavano di una catastrofe allo stadio Heysel: ora era tutto chiaro. Abbiamo evitato una strage. Abbiamo assistito ad una sterminio vero e proprio: le immagini di persone che scappavano nel campo di calcio, ci avevano pietrificati di dolore e disperazione. Pensavamo tutti ai nostri cari a Cittaducale che avevano visto tutto in tv ma non avevano notizie di noi. Dovevamo avvisarli. Al nostro arrivo gli autogrill del posto ci abbassavano le serrande davanti. I gestori erano impauriti che fossimo inglesi o italiani con voglia di distruggere o rubare. Dopo circa 50 chilometri sulla strada di fuga ed ormai a notte fonda troviamo un nostro connazionale calabrese che gestiva una pompa di benzina e ci è venuto incontro dandoci la disponibilità a telefonare. Il povero Loris Paris, ex sindaco per 20 anni di Cittaducale, morto per cause naturali dopo 30 giorni esatti, telefonò a casa sua a sua moglie e lei poi riuscì ad avvisare per tranquillizzare i nostri cari. Erano circa le 3 di notte: immaginiamo che ore lunghissime di attesa sono state per loro. Durante il viaggio di ritorno in una sosta in terra di Lussemburgo incontriamo il pullman del club 2 stelle di Terni. Qui apprendiamo la tragica notizia della morte di Gianni Mastroiaco. Un ragazzo che conoscevo. La notizia ci ha distrutto il cuore. Ognuno di noi poteva essere stato al suo posto. Tornammo a Cittaducale nella notte tra giovedì e venerdì. Tantissima gente ci aspettò nella piazza principale dove facemmo l’alba nel raccontare le vicissitudini della nostra trasferta. Raccogliemmo il conforto dei nostri familiari che ci raccontarono che per ore ci avevano cercato tramite conoscenze nei locali ospedali della capitale belga. Sono passati 30 anni da quel fatidico 29 maggio, ogni tanto sono tornato allo stadio, anche in Italia - con molta paura a volte - io amo il calcio dei dilettanti e ironia della sorte spesso sono stato in Inghilterra a vedere la Premier League. Devo dire che almeno loro la lezione l’hanno davvero imparata, in Italia decisamente ancora no. Troppa violenza intorno al nostro calcio, che tiene inevitabilmente lontano le famiglie. Concludo questo travagliato ricordo con una sola riflessione da Juventino vero: la Juve ha vinto 33 scudetti, ma dobbiamo togliere una coppa dei campioni. Quella dell’Heysel non l’ha vinta, proprio no, non appartiene a nessuno se non alla memoria di tutti quei morti uccisi barbaramente e stupidamente in occasione di una partita di calcio. Assurdo, incredibilmente assurdo.  

28 maggio 2015

Fonte: Rietilife.com

A-Z


MASSIMO DI COLA

A 35 anni dall'Heysel il ricordo di un camerte che era

allo stadio: "Ho pensato che non ci saremmo salvati"

di Angelo Ubaldi

Se i ricordi di eventi sportivi per gli appassionati hanno comunque aspetti belli e altri meno da ricordare, così lo è stato anche per 4 tifosi camerti, gli unici della città ducale presenti a Bruxelles 35 anni fa nella tragica notte dell’Heysel, dove in seguito al crollo di parte di una tribuna sotto la pressione dei tifosi del Liverpool, persero la vita 39 tifosi della Juventus giunti da più parti d’Italia. Venerdì (29 maggio) cadeva l’anniversario di quella notte di morte e di terrore, che ha segnato la storia in un caldissimo ed insolito pomeriggio belga e che ebbe forti ripercussioni sul calcio e sulle squadre inglesi nella partecipazione alle coppe europee. Una Coppa dei Campioni, quella del 1985, che è passata alla storia più per questi tragici fatti che per la vittoria conseguita poi dalla Juventus per 1-0 in un clima ed una situazione surreale. Eppure le attese per tutti i tifosi bianconeri erano grandi, come alla vigilia di ogni finale e c’è chi è riuscito a trovare un biglietto in extremis, come i 4 camerti. "Riuscimmo a trovare i tagliandi - racconta l’avvocato Massimo Di Cola (allora 27enne) - tramite l’annuncio di una tv privata marchigiana, che promuoveva il viaggio di un’agenzia di Ancona. Si trattava di una combinazione, in quanto fino a Milano dovevamo andare in macchina, e la presi io, poi proseguimmo con un pullman organizzato fino a Bruxelles. Partimmo in quattro da Camerino e l’entusiasmo era tanto. La Juve in finale, una trasferta nuova per tutti. Trovammo i biglietti perché tanti inglesi rinunciarono e ci furono circa 3-4000 biglietti in più per i tifosi juventini, altrimenti quello doveva essere un settore riservato a loro, vicino ad altri inglesi". Tutto fila liscio fino all’arrivo in Belgio, poi nella capitale e quindi allo stadio Heysel, forse non proprio la sede adatta per una finale di quella portata, sia per la fatiscenza, che per le caratteristiche, soprattutto se confrontato con altre sedi di gioco europee. "Arrivammo a Bruxelles verso le 9.30 circa - prosegue Di Cola - scendemmo in centro. Sapevamo che allo stadio i cancelli sarebbero stati aperti verso le ore 16, quindi avevamo tempo per veder un po’ la città e mangiare qualcosa, mi ricordo panini e patatine fritte. Poi ci avviammo verso lo stadio, che non è lontano dal centro. Una volta lì, verso le ore 13.30, trovammo i cancelli già aperti, avevano anticipato l’ingresso alle ore 13, quindi ci siamo avviati per prendere posto. Era molto caldo. Ci dissero che mai a Bruxelles aveva fatto così caldo, c’erano 32-33 gradi. Non c’era moltissima polizia, all’interno anche una ventina di agenti a cavallo, ma pochi più per il resto. L’emozione per la partita era grande. Verso le ore 16 lo stadio era già pieno. Già giravano voci di tifosi inglesi ubriachi fin dal mattino in giro per Bruxelles". Nemmeno il tempo di cominciare a realizzare il sogno, le emozioni dello stadio, i colori del tifo, che iniziano le prime schermaglie e la tragedia è dietro l’angolo. "Ad un certo punto iniziano i primi contrasti fra tifosi e cominciano a volare sassi e bottiglie nei due settori più ravvicinati - dice Massimo - c’era un po’ di tensione, ma la speranza era che prima o poi finisse tutto. Noi quattro non eravamo tutti vicinissimi tra noi e un po’ staccati dal muro che è crollato sotto la pressione dei tifosi inglesi. Quella distanza dal muro ci ha salvato. Io ero più in basso e mi sono ritrovato con il volto ed il corpo schiacciato sulla rete per diversi minuti tanto che i segni li ho portati per diversi giorni, un altro di noi è riuscito a saltare da un muretto e quando è caduto è rimbalzato e poi ricaduto in piedi e gli sono scoppiate le vene di caviglie e polpacci, un altro ha riportato la rottura di diverse costole per la pressione della calca ed un altro è rimasto schiacciato tra i paletti riportando le ferite più gravi. A quel punto ho pensato che non ci saremmo salvati. Dopo alcuni minuti la rete si è allentata per il crollo del muro. All’inizio la polizia cercava di respingerci, poi quando è crollato il muro e ha visto i feriti ha invece prestato subito aiuto". In quelle situazioni dopo averla scampata il primo pensiero va agli amici, di cui si è perso ogni contatto. Inoltre in quel trambusto non ci si perde solo di vista, ma si smarriscono anche gli effetti personali al seguito. Per i 4 camerti però il miracolo si materializza in giornata. "Quando mi sono reso conto in campo che ero sano e salvo sono svenuto - ricorda l’avvocato Di Cola - e mi sono svegliato dentro gli spogliatoi, in una zona dove avevano portato le persone ferite e quelle che non ce l’avevano fatta. La sensazione è stata indescrivibile, ho avuto paura per i miei amici, quando ad un certo punto ho sentito uno di loro che mi chiama per nome. Non sapevamo niente degli altri due. Quando eravamo in attesa di un taxi che ci avrebbe condotto all’ospedale, ci siamo sentiti chiamare dagli altri due e tutti e quattro abbiamo preso lo stesso mezzo che ci ha accompagnato al nosocomio di Charleroi a circa 70 km da Bruxelles, in quanto sono state migliaia le persone soccorse e ci hanno dislocato nei vari ospedali della zona. È stato bello ritrovarci, ma eravamo tutti acciaccati, chi più chi meno, ma averla scampata ed essendo di nuovo insieme ci ha aiutato. Durante il viaggio verso Charleroi abbiamo ascoltato la cronaca della partita e di quanto era successo dalla radio del taxista ed anche se in francese qualcosa si capiva. Siamo arrivati in ospedale alle 23,30". Nel frattempo la paura cresceva anche a casa, davanti alla tv, per i famigliari di tutti i presenti all’Heysel e nel caso dei 4 camerti tutti si erano ritrovati dai genitori di Massimo Di Cola. "All’ospedale sono stati tutti molto premurosi e mi hanno permesso di fare una telefonata per tranquillizzare i miei, a casa mia c’era anche la mia fidanzata e alcuni dei genitori degli altri amici e ricordo che è stato commovente per tutti sentirci. Ho cercato di tranquillizzarli e di pazientare, in quanto non potevamo rientrare subito, avevamo perso tutto, contatti, il pullman, chi i documenti e soldi ed eravamo anche leggermente contusi, per cui avevamo bisogno di cure. Uno di noi ha riportato ferite all’inguine necessarie di 28 punti di sutura, chi 10 costole rotte, chi per le vene scoppiate è stato costretto ad altri giorni di ospedale a Camerino e io ho riportato contusioni e ferite varie, lacerazioni al corpo e al volto per la pressione contro la rete". La mobilitazione, la generosità e la solidarietà di belgi e diplomatici italiani in Belgio però è stata grande. "Il console Italiano a Bruxelles ci ha raggiunto in ospedale - continua Di Cola - e ci ha organizzato il viaggio di ritorno in pullman in Italia con altri tifosi connazionali e ci ha consegnato anche del denaro sia in lire che in marchi in quanto dovevamo attraversare la Germania. Io dovevo recuperare la mia macchina a Milano, per cui ci siamo fermati una notte lì, abbiamo dormito a casa di un mio amico che ci ha rifocillato e fatti lavare. Quindi abbiamo fatto rientro a Camerino". Finito il calvario, i postumi di quella esperienza hanno però lasciato il segno, non solo ricordi brutti e pervasi di paura. "Per i successivi 4-5 anni - conclude l’avvocato Di Cola - ho avuto paura anche di andare al cinema e in chiesa. All’epoca eravamo ragazzi, spensierati, e lo spavento è stato grande. Nessuno ha pensato in quei frangenti di fare azioni legali. Avevo dato lo scritto dell’esame per avvocato, volevo solo godermi un evento, poi quello che è successo ci ha sconvolto. Solo nei giorni successivi più tardi vedendo le foto sui giornali belgi ho riconosciuto altri tifosi delle nostre zone come il dottor Daniele Maria Angelini che sta a Civitanova o Pediconi Fulvio della Pizzeria Elen di Castelraimondo".

30 maggio 2020

Fonte: Viverecamerino.it

A-Z

NICK DIDLICK

Un fotografo ricorda l'Heysel: "Giocare fu la soluzione migliore"

Nick Didlick, candidato al premio Pulitzer per le sue foto della tragedia dell'Heysel, prima della finale di Coppa dei Campioni del 1985 tra Juventus e Liverpool, è tornato a parlarne a Gazzetta.it. Queste le sue parole: "Quel che è successo quel giorno non potrò mai dimenticarlo. Io ero in un punto centrale dello stadio e ricordo una scena che non avevo mai visto in vita mia: due settori pieni di gente allargati così completamente aperti. Poco dopo capii che quel buco tra tifosi inglesi e i tifosi della Juventus c'era perché stava accadendo qualcosa nello stadio che li spingeva. Ed era qualcosa che spingeva gli italiani in uno stretto, piccolo, angolo fino a pressarli contro la recinzione. Quindi ho iniziato a guardare in quella direzione perché era davvero insolito quando vedi una separazione di quel tipo. E mi avvicinai, da dentro il campo da gioco, fino a quando il muretto collassò. Era un muretto non particolarmente alto: 3 o 4 metri di altezza, se ricordo bene. Ma quel muretto cadde improvvisamente, schiacciando i tifosi uno sopra l'altro. Ricordo di aver pensato: "Non possono credere che facciano giocare la partita. La gente non sa quello che è successo qui ?" Capisco adesso, col senno di poi, che lo fecero perché non volevano che gli inglesi potessero mischiarsi col resto del pubblico. E probabilmente fu la decisione migliore in quel momento, perché ha consentito a più polizia di entrare nello stadio ed essere preparata per la fine della partita. E questo almeno ha permesso di concludere l'evento abbastanza bene alla fine, proprio per merito di quella decisione di giocare la partita".

8 gennaio 2019

Fonte: Calciomercato.com

A-Z

CARMELO DI PILLA

 

I 70 anni di Carmelo Di Pilla, fotoreporter isernino

che sfuggì alla morte nella strage dell’Heysel

di Maurizio Cavaliere

La sua foto, riverso esanime, sui gradoni della morte dello stadio di Bruxelles, la sera di Juventus-Liverpool, fece il giro del mondo. "Mi risvegliai in ospedale diverse ore dopo". Dagli anni Novanta lavora come fotografo che, nonostante tutto, predilige gli eventi sportivi. Ecco il ricordo di quella drammatica notte.

Compie oggi 70 anni uno dei fotografi più noti di Isernia e un po’ di tutto il Molise. Auguri e lunga vita al nostro amico, sempre cortese e disponibile, Carmelo Di Pilla, quella vita che strinse con tutte le forze fra le mani la sera del 29 maggio del 1985, la sera in cui si riversarono nella curva di uno stadio tutti i demoni più mostruosi del calcio, la sera della strage dell’Heysel a Bruxelles. L’uomo che vedete qui sopra, riverso esanime a terra, è proprio lui. Un’immagine impietosa, agghiacciante, che venne utilizzata da vari giornali italiani e stranieri a corredo del drammatico titolo che sancì quella orrenda pagina di morte allo stadio. Carmelo era andato a Bruxelles in compagnia di tre amici di Isernia. "Avevamo mangiato, e male, alla Grand Place -ricorda - Poi ci avviammo verso lo stadio per seguire trepidanti la finalissima di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Ricordo che scelsi io il posto dove sedermi, era libero". Era un gradone di cemento deteriorato nel famigerato "Settore Z", quello che, intorno alle 19.20, venne invaso con la violenza di un uragano dal maledetto magma umano degli hooligans inglesi, molti dei quali ubriachi e fuori di senno da diverse ore. Un assalto premeditato, forse una vendetta, si dirà in seguito, dal momento che tra quei delinquenti senza coscienza c’erano anche tifosi di altre squadre britanniche, non solo i Reds del Liverpool. Quello che successe subito dopo è rimasto negli occhi di tutti noi che quella sera eravamo davanti alla tv, pronti ad esultare per un gol, e che invece ci ritrovammo costretti a fare i conti, all’improvviso, e troppo giovani, con la follia del genere umano. "Ci fu una prima ondata fortissima che ci spinse via lontano - racconta Carmelo Di Pilla - poi un’altra, devastante. Mi ritrovai per terra, calpestato da decine di persone e in balia dei movimenti di quell’onda di gente inerme, schiantata dagli hooligans. Poi si spense la luce… Non ricordo altro". Carmelo perse i sensi. Nella foto lo vediamo in polo bianca, scomposto, buttato sui gradoni del fatiscente stadio Heysel, come un cadavere, braccia aperte e gambe piegate innaturalmente: un Cristo caduto dalla croce. La sua immagine, in quello scorcio di caos, tamburi, morti, panico e sciarpe bianconere, fece il giro del mondo. Ci "aprirono" la Gazzetta dello Sport e il Tempo (la foto qui sopra) e anche alcuni giornali francesi. Carmelo, per fortuna, non era morto. "Mi risvegliai verso le 3 di notte in un letto di ospedale, sempre a Bruxelles. Avevo ferite su tutto il corpo. Avevo perso tutto: giacca, macchina fotografica e soldi. Ma ero ancora vivo". Altre 500 persone come lui vennero ricoverate in diversi ospedali della capitale belga. Alcuni purtroppo morirono, sopraffatti dall’ondata di morte generata dai pazzi inglesi, senza dimenticare in questo contesto la vergognosa impreparazione delle Forze dell’Ordine belghe. Furono 39 le vittime, 32 delle quali italiane, tifosi della Juve, bambini compresi. "Restai due giorni in ospedale - dice ancora - vennero a trovarmi il Presidente della Figc di allora, Federico Sordillo, e Antonio Matarrese, che sarebbe stato il suo successore dopo la parentesi Carraro. In corsia incontrai pure Re Baldovino, con il quale scambiai qualche parola in francese". Poi, Carmelo Di Pilla, il sopravvissuto, poté tornare in Italia. "Era un volo militare, sull’aereo c’era anche il Ministro (del Lavoro, ndr) De Michelis. Quando in volo aprii un giornale francese, vidi la mia foto, quell’immagine così drammatica e assurda". Già, una foto, quello che poi avrebbe rappresentato il risultato tangibile della sua professione. Carmelo Di Pilla, infatti, dopo aver condotto per una dozzina d’anni un negozio di alimentari, a Isernia, ha deciso di riprendere la macchina fotografica e, dagli anni Novanta, è impegnato come fotografo che, nonostante tutto, ama e predilige gli eventi sportivi. È sempre lo stesso, cortese e "sempre juventino". La tragedia di quella notte gli è rimasta dentro ma anche la voglia di essere vivo e testimone delle sue grandi passioni. Buon compleanno Carmelo, auguri per tutto.

11 Marzo 2019

Fonte: Primonumero.it

A-Z
... CARMELO DI PILLA ...

Juve, il tifoso dell'Heysel: "Ero morto su

 quelle tribune, ora non mi perdo una finale"

di Antonino Morici

Carmelo Di Pilla è uno degli oltre 600 feriti della maledetta notte di Bruxelles. "Dalla foto sui giornali tutti mi credevano morto. Dopo il coma mi sono ripreso, ma ci ho messo 10 anni per entrare nuovamente in uno stadio. Ora non perdo una partita della mia Juve".

Quel giorno c'era il sole a Bruxelles. La città era più viva del solito, c'erano migliaia di italiani arrivati da Torino, Milano, Roma, Palermo, pronti ad accompagnare la Juventus nel viaggio verso il Sogno. La Coppa dei Campioni - vecchia denominazione, infinito fascino - sarebbe stata assegnata allo stadio del quartiere "Heysel" quella sera, 29 maggio 1985. Avversario il Liverpool, che tra quarti di finale e semifinale aveva eliminato Austria Vienna e Panathinaikos e che un anno prima aveva strappato il trofeo alla Roma, dopo i calci di rigore della stregata notte dell'Olimpico. Nel settore Z dell'impianto che oggi è conosciuto come "Re Baldovino" c'era anche Carmelo Di Pilla, molisano, uno dei tanti sostenitori juventini presenti a quell'appuntamento, funesto, con la storia. TERRORE - In quel settore non c'era il tifo organizzato bianconero, al quale era stata assegnata la curva opposta. C'erano famiglie, padri con i loro figli, gruppi di amici. "Eravamo riusciti a trovare un biglietto all'ultimo momento - racconta Di Pilla, che all'epoca aveva 36 anni. Eravamo entusiasti, quindi arrivammo in largo anticipo per prendere posto. Lo stadio era vecchio, piccolo, non adatto a una finale. Accanto a noi vedevamo quella macchia rossa sempre più grande, sempre più vicina, minacciosa. Ricordo l'ingresso in campo per il riscaldamento di Grobbelaar. Lo stavo fotografando, erano le 18.50, poi si è scatenato l'inferno". SCHIACCIATI - Restano schiacciati migliaia di spettatori, terrorizzati: da una parte gli hooligans inglesi che spingono, inveiscono e lanciano bottiglie di vetro spezzate, dall'altra la polizia belga che colpisce con i manganelli chi cerca una via di fuga verso il terreno di gioco. "Una folla sovrumana mi spingeva, non c'era scampo. Mi mancava l'aria, non riuscivo a respirare. Da quel momento il buio, fino a quando mi sono risvegliato in ospedale. E in quel momento mi è sembrato di rinascere una seconda volta". SEMPRE IN FINALE - Carmelo si sveglia dal coma quando la moglie, il figlio e i parenti lo hanno già visto in prima pagina su tutti i giornali. Le braccia larghe, il volto inespressivo. "Mi avevano dato per morto. Fortunatamente oggi posso raccontare questa storia, a differenza dei 39 che purtroppo hanno perso la vita quella maledetta sera (32 gli italiani, ndr)". La passione per la Juventus è rimasta intatta. Anche se per superare lo choc sono serviti 10 anni senza stadio. Poi è stata una finale e una partita dopo l'altra: Carmelo è sempre stato presente. "In tribuna o in campo, in Champions League come in campionato o in Coppa Italia, a volte da fotografo accreditato, riuscendo a unire le mie grandi passioni: foto e calcio". Tifando bianconero. "E sperando che a Cardiff arrivi finalmente il successo sfuggito a Berlino, Manchester e in tutte le altre finali perse. Lo meriterebbe Allegri con i suoi ragazzi e lo meriterebbero anche tutti quei tifosi, che come me, fanno tanta strada per seguire la Juve da tutte le parti d'Italia". Come quelli che 32 anni fa viaggiarono alla volta di Bruxelles.

31 maggio 2017

Fonte: Gazzetta.it

NDR: Carmelo Di Pilla è l'uomo con la camicia bianca

A-Z



... CARMELO DI PILLA ...

"Un’onda mi spinse, poi il buio"

Carmelo Di Pilla, uno dei sopravvissuti: "Sono un miracolato"

Mi chiamo Carmelo Di Pilla, ho sessantasei anni e sono morto trent’anni fa. Quando mi trovarono avevo un biglietto nella tasca dei pantaloni. Un biglietto di curva, settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles, la data stampata era quella del 29 maggio 1985. Il giorno prima di morire andai a ritirare il biglietto in un’agenzia di Isernia, la città dove abitavo. Io e i miei quattro amici juventini seguivamo la Juve ovunque, due anni prima eravamo stati ad Atene. Per la finale dell’Heysel avevamo pagato per un posto in tribuna. "Questi sono biglietti di curva", dissi al dipendente che ci consegnò i tagliandi. "Ve li cambieranno quando arriverete là", rispose. Non era vero, non ero così sciocco da crederci; ci tenemmo i biglietti, protestare sarebbe stato inutile e poi troppa era la voglia di goderci la partita. La mattina dopo partimmo da Roma, arrivammo a Bruxelles all’ora di pranzo. Girammo la città, ci fermammo a mangiare. Nelle strade e nelle piazze c’erano molti tifosi italiani. Ricordo che a tavola mi riempii di tutto, ostriche, tagliatelle, cioccolato caldo con la vaniglia, mangiai così tanto da stare male. Arrivammo all’Heysel verso le cinque. Il cielo era di un blu bellissimo. Ricordo i cancelli d’entrata stretti stretti, che dovevamo passare mettendoci di lato; ricordo l’impianto vecchio, i tubi arrugginiti, le reti metalliche rotte, i gradoni di marmo. Pensai che non era il posto degno per una finale di Coppa dei Campioni. Ne parlai con i miei amici, eravamo tutti d’accordo: non è uno stadio da finale. Poi vidi Grobbelaar, il portiere del Liverpool, che passava a pochi metri da noi, oltre la rete. Ci eravamo seduti in prima fila, a ridosso del campo. "Voglio sgranchirmi le gambe e avere un po’ di spazio davanti" - dissi ai miei amici - "Andiamo a sederci là". Ora posso dire che quel piccolo lusso che volli concedermi forse mi salvò la vita. Presi la macchina fotografica che portavo sempre con me e cominciai a scattare foto ai giocatori del Liverpool e ai poliziotti a cavallo che giravano per il campo. All’epoca lavoravo come commerciante di frutta, ma la fotografia era la mia grande passione. Ovunque andassi, avevo la mia macchina fotografica. Ad un certo punto mi girai, ricordo che guardai il grande orologio che troneggiava sulla curva: erano le sette meno dieci. Passò qualche minuto e mi accorsi che mi muovevo senza volerlo fare, un’onda umana mi spingeva, premeva, mi schiacciava. Mi girai ancora: in alto vidi un ammasso senza senso di persone. Urlavano, spingevano, avevano visi stravolti, le bocche aperte alla disperata ricerca d’aria. L’onda si fece sempre più impetuosa e cattiva. Successe tutto in fretta: cercai di attaccarmi alla rete, ricordo le dita impigliate che mi bruciavano. Gridai aiuto. Una, due tre volte. "Aiuto ! Aiuto ! Aiuto !". Poi venne il buio. Non ricordo più nulla. Mi risvegliai la mattina dopo, in ospedale, poco prima dell’alba. Non ero lucido, non capivo perché mi trovavo lì. Mi dissero che all’Heysel c’erano stati degli incidenti. Qualcuno mi aveva trovato a terra, svenuto. E mi aveva portato fuori dallo stadio. Da lì, in ospedale. Mi allontanai per cercare un telefono e avvisare mia moglie che stavo bene. Lei piangeva, non smetteva di piangere, mi disse che stava stringendo forte mio figlio; io ero confuso, non capivo cosa mi stava dicendo. Girai tra i corridoi dell’ospedale. Vidi un giornale francese. In prima pagina c’ero io: morto. Sono quello con la maglia bianca, nella foto a fianco. A terra, come Gesù, le braccia larghe, il viso da cadavere. Seppi più tardi che quella foto aveva fatto il giro del mondo. L’aveva vista mia moglie, che dalla sera prima non aveva avuto più notizie di me. I miei amici mi avevano cercato, tra i bivacchi fuori dall’Heysel, dove sostavano uomini e altri simili che erano diventati animali. Ma non mi avevano trovato ed erano tornati in Italia. Un medico dell’ospedale mi disse che il re Baldovino era venuto a farmi visita. Più tardi arrivarono anche Sordillo e Matarrese, presidente e vicepresidente della Figc. Avevo il volto tumefatto, varie ferite, gli occhi gonfi, il corpo di un rosso acceso. Ero morto, mi ripetevo. Ero un uomo morto e ora sono vivo. Sono un miracolato. Un sopravvissuto. Non lo so cosa o chi ha deciso che io quel giorno mi salvassi, so che mi sedetti vicino alla rete perché volevo sgranchirmi le gambe. Il 29 maggio del 1985 ero allo stadio Heysel di Bruxelles, settore Z, lì dove è arrivata la morte. Volevo solo vedere una partita, mi sono ritrovato dentro l’apocalisse. Mi chiamo Carmelo Di Pilla, ho sessantasei anni e trent’anni fa sono morto gridando aiuto. Ma poi la vita mi ha ripreso. (Testo di raccolto da Furio Zara)

29 maggio 2015

Fonte: Corriere dello Sport


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