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Reduci Heysel F
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Testimonianze Reduci Heysel (F)
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Un brindisino all'Heysel: "La percezione della tragedia solo alla fine"

di Ludovica Anelli

Ventinove maggio 1985. Ricorre venerdì prossimo il trentesimo anniversario della strage dell'Heysel, lo stadio di Bruxelles, dove persero la vita 39 persone, 32 italiane tra cui il mesagnese Alberto Guarini. Le immagini di un giorno tanto triste continuano ad essere stampate negli occhi di chi era presente. E la conferma di questo viene proprio da un brindisino, l'architetto Carlo Faccini.

BRINDISI - Ventinove maggio 1985. Ricorre venerdì prossimo il trentesimo anniversario della strage dell’Heysel, lo stadio di Bruxelles, dove persero la vita 39 persone, 32 italiane tra cui il mesagnese Alberto Guarini. Malgrado il tempo trascorso, il ricordo di una notte così tragica è ancora vivo nella mente di molti. Una sfida, quella tra Juventus-Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni dell’85, vinta, poi, dalla "Vecchia Signora, che ha segnato per sempre il mondo del calcio moderno e che, ancora oggi, è impossibile da dimenticare. Le immagini di un giorno tanto triste continuano ad essere stampate negli occhi di chi era presente. E la conferma di questo viene proprio da un brindisino, l’architetto Carlo  Faccini che, contattato da BrindisiReport.it, a distanza di anni, ha ripercorso quella drammatica esperienza che ricorda come se fosse ieri. "E’ passato tanto tempo - racconta Faccini - ma ogni volta che ne parlo mi vengono i brividi. Avevo 32 anni, ero giovane, ma con la testa sulle spalle e ricordo perfettamente che quel giorno, nonostante l’entusiasmo, la gioia di stare lì fossero immensi, sin da subito ebbi la percezione che stava per accadere qualcosa". Una sorta di presentimento "salva-vita" per lui e per chi era al suo fianco. Sì, perché, stando a quanto ha raccontato, Faccini, arrivato a Bruxelles, si rese conto che in curva, dove aveva acquistato il biglietto, c’era una confusione mai vista prima, tale da capire che quella davanti ai suoi occhi di lì a poco sarebbe diventata una situazione davvero molto pericolosa. "Mi accorsi, notando una serie di movimenti strani tra la tifoseria inglese - prosegue l’architetto - che il clima non era dei migliori. Allora, mentre persi di vista mio fratello Antonio che si allontanò con altra gente, presi con me il più piccolo, Stefano e, insieme con un amico, ci allontanammo con l’intenzione di non restare lì, ma di andare a vedere la partita in un bar nelle vicinanze. Cambiammo idea, quando andando via, mi resi conto che avevano aperto l’entrata della tribuna centrale, quasi completamente vuota e dove provammo a sederci, riuscendo così a vedere tutta la partita". Nessuno, infatti, se non i coinvolti nello scontro, si accorse della strage che era scoppiata poco prima del match per mano dei tifosi del Liverpool, i cosiddetti hooligans che, già in passato, si erano resi autori di atti vandalici e teppistici. "A parte un po’ di caos, qualche oggetto lanciato all’inizio, noi che avevamo ormai preso posto da tutt’altro lato - dice ancora Carlo Faccini - non ci accorgemmo di nulla: vedemmo la gara e poi, solo una volta usciti dallo stadio, non trovando più neanche il pullman che da Bruxelles doveva portarci all’aeroporto di Ostenda per prendere il volo di ritorno, venimmo messi al corrente di quanto accaduto. Furono, infatti, le forze dell’ordine che, d’accordo con gli organizzatori, decisero di far giocare ugualmente la partita tentando di ovattare la notizia il più possibile, questo per non creare giustamente ulteriori tensioni". Solo la mattina dopo, attraverso tv e giornali, Faccini e gli altri scoprirono tutto, venendo a conoscenza anche di tragici eventi, quelli che occhi e orecchie mai avrebbero voluto vedere e sentire. "Il giorno seguente - ricorda Carlo - mi rincontrai con mio fratello più grande, Antonio. Più leggevo i giornali e sempre meno era la forza che avevo per commentare. Seppi che Alberto Guarini (il ragazzo mesagnese che rimase coinvolto nel tragico evento, ndr) con cui avevo condiviso il viaggio di andata aveva perso la vita. Quella notizia per me fu come una doccia fredda, ci ho messo del tempo ad imparare a convivere con quel dolore, ancor più perché conoscevo bene quel ragazzo, più volte avevamo anche giocato insieme a tennis". Una tragedia che non stava né in cielo, né in terra e che non troverà mai una spiegazione valida. "Sono passati 30 anni - conclude Faccini - ma ho impresso ben in mente tutta la storia. Conservo ancora oggi il biglietto in curva per quella finale. Certo, devo dire, che il fatto che all’epoca non ci fossero telefoni cellulari, che erano poche le forme di sicurezza, credo che incise notevolmente sull’accaduto, aggravando di conseguenza tutta la situazione. Oggi, da questo punto di vista, c’è molta più attenzione. Ciò sempre fermo restando che per una tragedia del genere non esistono giustificazioni di alcun tipo. Quello doveva solo essere un giorno di festa".

26 maggio 2015

Fonte: Brindisireport.it

A-Z

ROBERTO FAGOTTI

"Per anni non sono più andato allo stadio"

di Loris Del Frate

PORDENONE - Roberto Fagotti, pordenonese di Rorai grande ha 60 anni. Ne aveva la metà la notte maledetta dell’Heysel. Era con altri tre amici di Pordenone nella curva "N" opposta alla strage. "Non abbiamo capito subito cosa accadeva. Anzi, pensavamo che i tifosi juventini avessero assalito quelli del Liverpool. Poco dopo capimmo che la colpa era degli Hooligans e che erano morti tanti italiani. Montò una grande rabbia e anche i tifosi moderati volevano fare giustizia. Anche contro la polizia che non ci aveva tutelato. Far giocare la partita fu giusto, servì a calmare gli animi. Al gol della Juve non ho esultato, volevo andarmene. Per farci uscire passammo in mezzo a un cordone di poliziotti e tutti lanciavamo monetine: non avevano difeso gli italiani. Solo dopo sette ore riuscii a chiamare casa. Mi madre mi disse: Dove sotu ? Torna casa subito. Allo stadio sono tornato molti anni dopo".

29 maggio 2015

Fonte: Il Gazzettino

A-Z

RENZO FALAVIGNA

LA STORIA

Renzo Falavigna: "Io, scampato alla strage dell'Heysel"

di Riccardo Lonardi

Pegognaga - C'era anche lui allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. Data e tragedia che invano cerca di dimenticare da 33 anni. Mentre racconta alla Voce di Mantova la sua terribile esperienza, un singhiozzo gli sale in gola e gli si inumidiscono gli occhi. Il pegognaghese Renzo Falavigna c'era andato da juventino, certo del trionfo della squadra del cuore nella finale Coppa Campioni contro il Liverpool. "Siamo partiti da Gonzaga - racconta - con il club di Juventini Due Stelle, alle 4.30 del pomeriggio in 33 su un pullman proveniente da Brescia. Con me c'era Massimo Giovannini di Villa Saviola. Sedici ore di viaggio per giungere alle 8 del mattino successivo a Bruxelles, dove non c'era nessun cartello che indicasse l'Heysel. Ad accompagnarci nel parcheggio dello stadio abbiamo fatto salire uno spazzino del posto. Il parcheggio era già quasi interamente occupato da altre corriere italiane ma soprattutto inglesi. Gli hooligans erano giunti il giorno prima, carichi di bottiglie di birra. Già ubriachi, si divertivano a lanciare le bottiglie ovunque mandandole in frantumi. Scena premonitrice di ciò che sarebbe avvenuto poi. Alle 15 giungono poliziotte a cavallo che, ignorando gli inglesi, hanno puntato su noi italiani imputandoci del disastro di bottiglie e vetri sparsi e quindi offendendoci con male parole". Perché hanno ignorato gli inglesi ? "Secondo me per pregiudizio anti-italiano risalente all'epoca in cui i nostri connazionali andavano a lavorare nelle miniere belghe. Allo stadio, davanti al quale sorge un'ampia fontana, altro spettacolo indecente: gli hooligan ci si erano buttati dentro più ubriachi che mai buttando addosso a noi italiani le bottiglie vuote". Descrive quindi le pessime condizioni dello stadio, le cui scalinate nella curva destinata agli italiani, erano praticamente di pietre sovrapposte una sull'altra. Nelle stesse condizioni la curva "Zeta", dove gli hooligan si erano messi ad usare le pietre come proiettili contro gli juventini. Per evitarle molti sono scappati verso la recinzione, che poi ha ceduto sotto la pressione, causando le prime vittime. "Nel frattempo - racconta Falavigna - viene verso la nostra curva capitan Scirea con gli occhi pieni di lacrime dicendo "Ragazzi è successo un pandemonio. Vi chiediamo scusa, ma per far andare fuori dallo stadio gli hooligans con un certo ordine c'impongono di giocare la partita". Che è iniziata con un'ora e mezza di ritardo. Sono quindi giunti i poliziotti veri, le teste di cuoio, facendo fuoriuscire gli hooligan e chiudendoli in un cerchio di una ventina di carrarmati per tenerli a bada. Noi italiani siamo invece stati costretti ad uscire dallo stadio dopo mezzanotte, per evitare che ci scontrassimo con gli inglesi. Abbiamo fatto in tempo a vedere lo spettacolo di morte. La Juve aveva vinto su rigore di Michel Platini, ma nessuno aveva voglia di festeggiare. Volevamo solo tornare a casa e piangere i nostri morti". Renzo Falavigna è stato invitato in questi giorni a Reggio Emilia, dove, per iniziativa privata, è stato eretto un monumento alle vittime della furia hooligans e della carenza organizzativa belga.

2 giugno 2018

Fonte: Vocedimantova.it

... RENZO FALAVIGNA ... 

Il pegognaghese Renzo Falavigna ricorda la tragedia dell’Heysel che lo sfiorò.

"Mai più"

di Riccardo Lonardi

PEGOGNAGA - Il tifo calcistico è fatto di esplosioni di gioia, di momenti di amarezza, ma in qualche caso anche di momenti di vera tristezza. "Da fedelissimo juventino - dice Renzo Falavigna di Pegognaga - non posso dimenticare quel tragico 29 maggio 1985, quando nello stadio belga Heysel anziché gioire per la prima vincita di Coppa Campioni della mia squadra del cuore, piansi per i 39 tifosi che ci hanno rimesso la vita. Io era là a vivere quella tragedia. E ringrazio il Signore per essere stato sfiorato personalmente dalla sciagura. Ma ancor oggi, a 35 anni di distanza, gli occhi mi si riempiono di lacrime avendo visto scomparire degli amici di Reggio Emilia, coi quali ho raggiunto il Belgio ad assistere alla disputa della Juve con i Reds del Liverpool. A loro infatti e a tutti gli juventini deceduti all’Heysel è dedicato il monumento eretto appunto a Reggio, di fronte al quale io sono ritratto. Questi fatti non dovranno mai più accadere, perché lo sport deve essere inno di vita".

29 maggio 2020

Fonte: Mantovauno.it

29 maggio 2022

Fonte: Comitato Heysel Reggio Emilia

A-Z

PIERPAOLO FILIPPI

30 anni fa l’Heysel

"Camminavo sui cadaveri"

di Giorgio Pasini

Il racconto di Pierpaolo: il 29 maggio 1985 aveva 13 anni. Il braccio del padre lo salvò dal massacro nella Curva Z.

"Avevo quasi tredici anni, non ero mai andato allo stadio prima di quel giorno. Papà non se la sentiva. Roma-Juve o Lazio-Juve erano partite a rischio. Quando però la Juve andò in finale di Coppa dei Campioni chiamò zio Giovanni, l'altro fratello di papà. Viveva in Belgio, ad Anversa, dove aveva sposato una fiamminga. "Posso trovare i biglietti, venite ?". Così partimmo in cinque: io, papà, zio, suo figlio di diciotto anni e un amico. In auto, una Citroen BX. Un lungo viaggio, lunghissimo. Siamo arrivati ad Anversa il giorno prima della partita, ricordo tutto nitidamente". Comincia così il racconto drammatico e doloroso, intenso da trattenere il fiato, di Pierpaolo Filippi, laziale di Latina, famiglia juventina da sempre. Quella terribile sera del 29 maggio 1985 era al fianco di papà Gianfranco nella famigerata Curva Z dell'altrettanto famigerato stadio Heysel di Bruxelles. Quello che non c'è più. In mano due biglietti vecchi di trent'anni, li maneggia con estrema cura. Sono il numero 11336 e 11337. Costo 300 franchi: 7,44 euro al cambio d'oggi, 9.518 lire quello d'allora. Sono ingialliti, come i giornali d'epoca, belgi e italiani, che il padre ha custodito a sua insaputa per quasi tutto questo tempo. Davanti c'è la corona della monarchia belga e il timbro postale su una scritta inquietante in francese e fiammingo: "L'organizzazione declina ogni responsabilità in caso di incidenti, di qualsiasi natura, che potranno verificarsi durante il match". Dietro la mappa dello stadio e i loghi degli sponsor della competizione. Pierpaolo, che ora ha 43 anni e 2 figlie (Lucia di 9 e Anna di 6), ce li mostra come l'albumetto portafoto a fiori con il quale ha collezionato gli autografi dei giocatori juventini. Ognuno ben riposto sotto la plastica e con il nome scritto a matita. I suoi idoli. Parliamo nella sua agenzia immobiliare davanti allo Stadio Olimpico (l'ex Comunale) di Torino, dove s'è trasferito l'anno dopo quella finale. Proprio di fronte alla curva Filadelfia. In Corso Agnelli. Cinque vetrine più in là c'è il "granatastore". Da Superga all'Heysel, ognuno ha le proprie tragedie a Torino. Pierpaolo ci racconta quella che trent'anni fa, assurdamente, ha portato via 39 vite bianconere. Non la sua. Grazie al braccio possente di papà Gianfranco che lo cinse forte per quella terribile, interminabile e indimenticabile mezz'ora. "Ricordo la tensione enorme di un bambino che per la prima volta andava allo stadio a vedere la sua squadra e viveva un evento enorme. Una tensione gioiosa. Sentivo così la giornata che non mangiai praticamente nulla. Avevo lo stomaco chiuso. Arrivammo a Bruxelles all’ora di pranzo. E subito rimasi stupito del fatto che noi e i tifosi inglesi entrammo subito in contatto, ma in un clima di festa. Cambi di sciarpa, foto mescolati: niente lasciava presupporre quello che sarebbe successo dopo poche ore. Era una bella giornata di sole, cocente. Ricordo la lunga attesa fuori dallo stadio prima di poter entrare. Verso le sei e mezza di pomeriggio finalmente aprirono i cancelli e subito ebbi un presagio. La curva Z era dedicata al tifo non organizzato, alle famiglie come la nostra. Gli ultras della Juve erano dalla parte opposta, ma a sorpresa ci trovammo a fianco gli hooligans del Liverpool. Entrammo insieme con loro. Ricordo che la polizia belga tolse l’asta di plastica della mia piccola bandiera, mentre loro entravano con le bottiglie di birra in mano. E allora erano di vetro. Assurdo. Come dentro. C’era pochissima polizia. E quasi tutti gli agenti sotto la curva della Juve. Inspiegabile. Nei resoconti ho letto che c’erano 164 poliziotti. Non so se fosse vero, di sicuro non sentivi la presenza delle forze dell’ordine. Rossi contro bianchi - Il pre-partita però fu tranquillo. C’era un incontro tra due squadre giovanili locali. Evidentemente doveva intrattenerci. Gli inglesi tifavano per la squadra rossa, noi per quella bianca. Avevano scelto in base ai colori. Partirono i classici cori da stadio. Sfottò, per lo più. Noi inneggiavamo all’Everton, la rivale del Liverpool che quell’anno vinse il campionato inglese. Poi, improvvisamente, l’atmosfera si scaldò. Troppo. Scoppiarono delle mini risse tra gli stessi hooligans. Ogni tanto qualcuno, completamente ubriaco, veniva preso e portato fuori. Eravamo divisi da una semplice rete metallica. Sì, di quelle che si usano negli orti. Gli inglesi iniziarono a fare pressione, senza che la polizia intervenisse. Secondo me capirono che potevano andare oltre, che nessuno li avrebbe fermati. Così lo fecero, senza nessuna opposizione. Noi eravamo famiglie spaventate, le forze dell’ordine non erano adeguate. Così come lo stadio fatiscente. I gradini erano molto bassi e malconci. Si staccavano pezzi con le mani. Cominciarono a tirarceli addosso, assieme a razzi. Ci ritirammo verso l’estremità della curva. L’intero settore Z era ammassato in un terzo della curva. Una calca esagerata. Ricordo dei ragazzini che per scappare ci passavano sulle teste. Non c’era un buco dove infilare il piede. Ci trovammo divisi in due gruppetti. Io, papà e lo zio belga, gli altri tre spariti dalla vista. Ero terrorizzato. Papà fin dal primo momento mi strinse forte a lui e non mi lasciò mai un attimo.

Pierpaolo Filippi © Heysel 29.05.1985

Fu la mia salvezza. Io davanti, lui dietro a cingermi il petto col braccio destro. Il sinistro era bloccato, si faceva fatica a respirare. Impossibile muoversi, ripararsi. E arrivava di tutto. Ricordo gente a fianco a me con la faccia gonfia per le pietre che arrivavano. Uno venne colpito in pieno da un razzo. C’era sangue dappertutto. Io fui davvero fortunato. Non fui colpito da nulla. Papà si ruppe due costole nella calca. Sotto i piedi sentivo qualcosa di solido e molliccio al tempo stesso, ma non riuscivo a vedere nulla. Pensavo fossero gradini, non era così. Il silenzio era pazzesco. Gli inglesi urlavano, noi eravamo paralizzati. A un certo punto mio zio, che nei piccoli spostamenti s’era trovato a un paio di metri da noi chiese aiuto. Lo vedevamo scivolare giù, come risucchiato da una palude. E’ stato il momento più drammatico. Papà non poteva muoversi. Se mi avesse lasciato sarei finito. In quel momento successe l’evento che ci salvò: crollò il muro. Sì, il muro accusato di aver causato la maggior parte dei morti. In realtà fu il contrario. Prima di tutto non era alto, il dislivello non era eccessivo e sotto c’era del verde, non l’asfalto. Fu la nostra fortuna. Cedendo fu una valvola di sfogo per tutti noi. E in quel momento gli inglesi si resero conto del dramma e in un attimo cessarono di lanciare pietre e pressarci. Vidi zio che stava cedendo, senza più forze, e qualcuno improvvisamente gridò: "Calma, calma. E’ finita". La gente iniziò a sparpagliarsi e quello fu il momento dello choc. Capii cosa avevo sotto i piedi. Non gradini, non vestiti o borse o striscioni: erano le vittime, la maggior parte delle vittime. Erano morti calpestati, asfissiati. I volti erano lividi, c’era sangue. I corpi uno sull’altro. La fine che poteva fare mio zio. O io, se mio padre non mi avesse tenuto. Il bambino del giornale - Nelle cronache lessi che perse la vita anche un bambino di undici anni, cagliaritano. Si chiamava Andrea Casula. Ricordo di aver visto un bambino nella calca. Fu un attimo. Tempo di girare la testa e non c’era più. Eccolo, è qui in questa foto (indica un’immagine sgualcita di un giornale dell’epoca, ndr). Terribile. Era il caos generale. Papà mi portò verso la tribuna. I tifosi inglesi continuavano a cantare e urlare. Dall’altra parte dello stadio quelli della Juve non capivano cosa succedeva. Arrivarono i poliziotti a cavallo, ma era tutto finito. Noi eravamo sopra l’uscita degli spogliatoi. Il tunnel era di plastica, si vedeva qualche giocatore del Liverpool. Ricordo che uno di loro indicò i tifosi e fece il gesto del dito sulla tempia: questi sono pazzi. La telefonata a casa - Papà mi lasciò con lo zio e tornò nella curva a cercare gli altri. Anni dopo mi raccontò quanto fu straziante. Non trovò nessuno, ma per fortuna erano salvi e ci incontrammo fuori dallo stadio mentre accatastavano i corpi sotto lenzuoli bianchi. C’erano ambulanze, medici, poliziotti, feriti. Papà cercò una cabina per chiamare a casa. Non c’erano i cellulari. Disse che stavamo bene, che non eravamo in quel macello. Una bugia. Alla partita non pensavamo più. Tornammo a casa dello zio, ad Anversa. La finale che aspettavo con ansia, la mia prima volta allo stadio, la vedemmo in tv. In un clima assurdo. Il giorno dopo comprammo i giornali locali. In molte foto c’era papà con la sua camicia di jeans che camminava tra i cadaveri. In una ci sono anch’io. S’intravvede la mia testa bionda. Poi siamo ritornati a casa. Il tema di 3ª media - A mamma abbiamo raccontato la verità tempo dopo, un po’ per volta. Come ci ho messo tempo per tornare allo stadio. A scuola tutti mi chiedevano, io non riuscivo a parlarne. Cercavo di rimuovere. Poi l’anno dopo, per l’esame di terza media c’era un tema: "Raccontate un episodio della vostra vita che vi ha colpito". Fu l’occasione per liberarmi. Scrissi 13 pagine, fitte. La professoressa telefonò a casa per farmi i complimenti: "Non posso darvi il tema, ma lo terrò come esempio" disse ai miei genitori. Mi diede un bel voto. E venimmo a Torino. Volpiano per l’esattezza. Giocavo nelle giovanili del Torrazza Piemonte. L’allenatore era Giuseppe Forte, il padre del vostro Camillo. In porta c’era Luca, suo fratello. Ero un difensore. Stopper. Ho giocato fino in Prima categoria, nell’Ivrea. E nel frattempo sono tornato allo stadio. Ero troppo tifoso, Platini il mio idolo. Prima al Combi, per gli allenamenti. A caccia di autografi. Li ho tutti. Poi sono andato alle partite. Quelle più tranquille. Ai derby mai, quelli no. Al Delle Alpi sono andato per Italia 90. Comprai l’abbonamento. Vidi tutte le partite tranne una, la semifinale: c’era l’Inghilterra, contro la Germania per di più. Troppa paura, troppi ricordi. Regalai il biglietto. Dal giorno dell’Heysel non ho più visto una squadra inglese dal vivo. Capitai in un bar del centro per Juve-Manchester di Champions, quella del gol di Inzaghi. Ricordo le stesse scene di allora. Chiesi al barista perché vendesse alcoolici che erano vietati. Mi rispose: "Provaci tu a non darli a questi qui"… Sono passati trent’anni, vorrei chiudere il cerchio, finire bene questa storia anche se i ricordi non potrò mai cancellarli del tutto. Vorrei andare a Berlino. Se fosse andato in finale il Bayern no, non mi sarei fidato. Con il Barcellona invece mi sentirei sicuro. Sono a caccia di un biglietto". Un altro da collezionare, infilare nella scatola che papà Gianfranco gli ha nascosto per anni. C’erano dentro i due tagliandi della Curva Z dell’Heysel e i ritagli di giornale che ci sta mostrando.

28 maggio 2015

Fonte: Tuttosport

A-Z

GINO FRANCHETTI

"La mia notte senza Coppa all'Heysel"

Una prima volta c'è per tutti, ma non sempre fa bene ricordarla. A Bruxelles, stadio Heysel, quella sera del 29 maggio 1985 io c'ero. C'ero e ho visto tutto, al di là di quel gol su rigore di Michel Platini, decisivo per l'assegnazione della Coppa alla Juve, che pure non avrebbe potuto in futuro ricordare quello come un giorno glorioso. Tutto o quasi ho visto. Perché il mio "esserci" è partito in ritardo, impegnato com'ero a litigare, spalle al campo, con i responsabili dei collegamenti telefonici che non avevano fatto trovare a noi del "Giorno" il richiesto telefono al posto stampa in tribuna. Quando mi sono accorto che qualcosa di strano accadeva nel settore di curva alla sinistra della nostra postazione probabilmente da casa mia avevano già chiamato con preoccupazione comprensibile la redazione del giornale, perché il dramma che si stava consumando, visto in Tv, doveva essere se possibile persino amplificato. "Guarda lì che cosa succede !", bofonchiò Gianmaria Gazzaniga al mio ritorno al posto, senza nemmeno chiedermi che risultato avessi ottenuto con quelli dei telefoni. Lì dove ? Sentivo urlare, ma non capivo, lo stadio era una bolgia infernale. La prima immagine che mi colpì fu nella curva alla mia destra, dov'erano raggruppati i tifosi della Juve. La curva era evidentemente in tumulto. Ne partivano lanci di oggetti verso il campo; qualcuno tentava, respinto dai pochi agenti incaricati di mantenere l'ordine attorno al rettangolo di gioco, di scavalcare le transenne e buttarsi dentro. "Siamo alle solite - mi scappò detto. Che cosa vogliono fare quei deficienti ?". "Di là - disse una voce - è di là che tentano di andare". Fu allora che mi accorsi di quel che stava accadendo. Si vedeva gente che premeva contro le reti di protezione e la polizia belga che usava il manganello. Qualcuno si aggrappava a improbabili appigli, poi si lasciava cadere oltre, sul corridoio in pietra o sul prato vicino alla bandierina del calcio d'angolo. Ma sul prato, ecco, c'era gente distesa. Il servizio d'ordine si preoccupava di liberare il campo, ma non era possibile: la piccola fiumana pareva ingrossarsi sempre più e gli hooligans inglesi bersagliavano senza sosta (cos'erano ? pezzi di ferro ?) il settore a rischio accanto alla loro curva, dove molti italiani che non avevano fatto ricorso alla prevendita degli Juve Club avevano trovato posto. "Non ha retto - si sentì urlare - è crollato il muro !". Allora sì il disastro divenne visibile. C'erano corpi distesi sul prato e non si muovevano più. C'era gente che si muoveva da uno all'altro, altri invitavano gli agenti a intervenire e indicavano la follia inglese che non aveva fine, la fuga disperata di inermi pacifici tifosi alle prese con energumeni seminudi armati di spranghe di ferro: sospinti nel vuoto, gli italiani cadevano gli uni sugli altri. "Vado giù", dissi, mentre le barelle cominciavano a portar fuori corpi inanimati e la polizia intimava bruscamente di liberare il terreno di gioco a tutti coloro che si reggevano in piedi. Udivo voci scandalizzate mentre l'altoparlante invitava il pubblico a mantenere la calma: "Ma che cosa fanno ? Vogliono che si giochi ?". Mentre si dava inizio alla partita (era la scelta migliore, sosteneva qualcuno, per evitare che il vecchio Heysel diventasse un campo di battaglia), io scoprivo tutt'altro spettacolo nello spiazzo davanti al settore tribune. Erano arrivate alcune ambulanze e altre ne erano state richieste, ma la capitale del Belgio appariva incapace di reggere alle proporzioni della tragedia che nessuno aveva saputo prevedere. Con l'esperienza di quel giorno e di tutti i problemi che sarebbero stati creati in seguito attorno al calcio da masse di scriteriati e violenti pseudo tifosi, qualcuno certo avrebbe stabilito che in quello stadio, glorioso ma trascurato e non adeguato a ospitare in sicurezza una finale europea, non si poteva giocare. Ma allora l'organizzazione calcistica era ancora fin troppo ingenua a fiduciosa. Chi mai avrebbe pensato di dover approntare un piano di soccorso per qualcosa come seicento feriti ? Perché erano quelle, si sarebbe appreso poi, le proporzioni del dramma. Avevano montato delle tende per tenervi riparati i feriti più gravi. Lungo il muro dello stadio erano allineati una trentina di corpi, ricoperti alla meglio. Erano morti ! Ma quante vittime senza più speranza aveva dunque provocato quella follia ? Nessuno sapeva dirlo. Non certo gli spettri che si aggiravano lì attorno, ognuno raccontando il proprio pezzetto di storia tragica. Di come i tifosi italiani fossero stati accolti allo stadio come potenziali delinquenti dalla polizia a cavallo belga, fin troppo amichevole nei confronti dei tifosi del Liverpool. Di come gli inglesi, ubriachi, avessero cominciato una volta assiepati nel loro settore (ne erano entrati, probabilmente, più di quanti fossero in possesso di regolare biglietto) a lanciare lattine piene di birra, poi pezzetti di cemento strappati alla carne di quello stadio in decadenza, poi proiettili di ferro. Di come avessero poi sfondato le transenne e divelto le sbarre di ferro da usare come armi. Di come qualcuno avesse impugnato il coltello nel gettarsi contro quella piccola folla tranquilla di famiglie e tifosi anche occasionali: uno juventino grande e grosso aveva sparato un pugno in pieno viso al capo dei facinorosi armati, bloccando lo slancio di coloro che lo seguivano e mettendo in salvo se stesso e altri vicini a lui. Di come avessero visto entrare allo stadio eccitata e sorridente una bella ragazza dai pantaloni verdi (forse Giuseppina Conti, 17 anni) e l'avessero poi riconosciuta fra i corpi distesi e semicoperti, proprio per il colore di quei pantaloni. L'avrebbero messa nel titolo di uno dei miei articoli da Bruxelles la "ragazza dai pantaloni verdi". E il mio orrore sarebbe continuato il giorno dopo, con i racconti dei feriti e dei familiari dei morti (39 il bilancio finale) trovati negli ospedali della città, essa pure sotto choc, tanto che, in cerca degli italiani ancora in vita e pur tuttavia gravemente colpiti, sarei addirittura entrato, senza incontrare i dovuti sbarramenti cautelari, fra i corpi nudi di uomini e donne in una sala di rianimazione. Ma intanto quella sera maledetta, mentre dettavo la mia cronaca mesta, avevo potuto vedere Michel Platini, un grande in assoluto, andare al gol su rigore per un fallo su Boniek commesso fuori area. Con quel gol la Juve aveva vinto la sua prima Coppa Campioni. Ma aveva vinto ?

(Gino Franchetti, nato a Milano il 7 marzo 1943, è un giornalista sportivo. Ha lavorato, oltre che per "Il Giorno", al "Corriere dello Sport-Stadio" e alla "Gazzetta dello Sport", dov'è stato caporedattore. Ha seguito da inviato finali di Coppa e Mondiali. Dal 1995 al 1999 è stato responsabile delle relazioni esterne e delle attività editoriali dell'Inter)

28 maggio 2010

Fonte: Sportmediaset.mediaset.it

A-Z

BEPPE FRANZO

Una coppa in più, 39 tifosi in meno: la tragedia dell’Heysel prima della finale

di Federico Callegaro

Il racconto di chi ha vissuto quell’incubo, trentun anni dopo

TORINO - "Dal punto in cui eravamo noi sembrava che il settore Z stesse ondeggiando. Si vedeva un’indistinta marea rossa che premeva verso gli spalti occupati dagli italiani e li faceva arretrare". La sera del 29 maggio 1985 Beppe Franzo è dentro l’Heysel, lo stadio di Bruxelles in cui la Juventus si gioca la Coppa dei Campioni contro il Liverpool. E’ un ragazzo di vent’anni ed è un ultras degli Indians, un gruppo di tifosi organizzati che segue i bianconeri in tutte le trasferte. "Eravamo partiti il giorno prima da piazza Castello - racconta - All’epoca i pullman per le partite fuori casa si radunavano tutti lì". Quello che sta succedendo dall’altro lato dell’impianto sportivo e che tutti i testimoni descrivono con la metafora dell’onda umana lo racconta su "La Stampa" Carlo Capecci, un avvocato di Pistoia che si trova allo stadio con tre bambini. L’uomo ha preso i biglietti nel settore Z, il lato sud della curva occupata dai tifosi del Liverpool e che doveva servire da cuscinetto tra le opposte tifoserie. Visto il grande numero di spettatori italiani, però, in quel punto vengono collocati anche gli juventini. A separare famiglie e pacifici tifosi dagli hooligans inglesi c’è una semplice rete: "Improvvisamente ho sentito un razzo sfiorarmi il capo. Guardo verso quelli del Liverpool e li vedo che stanno lanciando altri razzi verso di noi - racconta Capecci - Siete matti ? Grido. Subito riparo con le braccia il bimbo più piccolo, spaventato". E’ l’inizio di una tragedia che costerà la vita a 39 persone. "Le donne hanno cominciato a strillare, a spingere per scappare. Ma non solo le donne. Tutti cercavano di allontanarsi il più possibile dalla rete che li separava dai Reds. Intanto continuava a volare di tutto, e c’erano i primi feriti. Gente colpita al capo col volto rigato dal sangue". Nel settore Z ci sono soltanto famiglie. Gli ultras bianconeri sono nell’altra curva e possono solo intuire quello che sta capitando. "Quando vediamo che gli inglesi caricano nuovamente verso i nostri decidiamo di sfondare le barriere e entriamo in campo - racconta Franzo - La polizia belga era quasi tutta radunata sotto il nostro settore, nell’altra curva dove stava avvenendo la strage erano in pochi". La polizia carica gli ultras italiani e riesce a respingerli ma Franzo si separa dal suo gruppo. Inizia a percorrere a piedi l’anello della pista di atletica nella speranza di trovare un punto di accesso alle tribune: "Continuo a camminare e mi avvicino sempre di più al settore degli inglesi. Arrivo a pochi metri da loro e mi accorgo che c’è qualcosa che non va. Ci sono bandiere della Juventus e tricolori italiani distesi per terra e da sotto i drappi vedo che spuntano dei piedi". Sono i primi morti. La carica dei Reds ha spinto i tifosi bianconeri ad ammassarsi contro un muretto che ha ceduto, facendoli precipitare nel vuoto. Il tifoso riesce a prendere un megafono e si mette a gridare verso le tribune spiegando che è in corso una tragedia ma gli spettatori non lo capiscono e gli lanciano addosso quello che hanno in mano. "Eravamo lontani dal punto della strage. Abbiamo saputo dopo quanto era veramente accaduto". Quello che cercano tutti, durante e dopo il drammatico evento, è di reperire informazioni. Lo fanno gli ultras collocati nella curva opposta al settore Z e che intravedono soltanto la scena, i famigliari di chi è andato in trasferta, angosciati davanti al televisore ma senza la possibilità di mettersi in contatto con i propri cari e anche i tifosi in bus durante il viaggio di ritorno. "La prima cosa che abbiamo fatto quando siamo rientrati in Italia è stata andare a comprare i giornali - racconta Franzo - Solo guardando le prime pagine abbiamo capito davvero la dimensione della tragedia". Su alcuni pullman, poi, dei posti a sedere sono vuoti. E’ il caso di quello che riporta a casa lo Juventus club di Alessandria, dove all’appello manca Walter Gianni, un ragazzo di 27 anni di cui gli amici hanno perso le tracce durante la carica degli inglesi. Il suo è un caso fortunato. Nonostante l’angoscia degli altri alessandrini, infatti, si scoprirà in serata che era stato ricoverato in un ospedale di Bruxelles. "A casa erano tutti preoccupati ma i miei genitori no perché mi avevano visto in televisione - racconta Franzo - Dopo essere tornato nel mio settore avevamo nuovamente sfondato i cordoni della polizia per raggiungere gli inglesi. Mio padre mi aveva visto al Tg mentre piantavo nel centro del campo da calcio una bandiera Italiana. Il suo commento era stato: Ho un figlio stupido ma almeno so che è vivo". Alla fine, nonostante il ministro dell’Interno belga ne avesse chiesto l’annullamento, la partita si gioca. Motivi di ordine pubblico, spiegano le autorità. Far uscire tutti dallo stadio sarebbe stato peggio. La Juventus vince la Coppa ma, tra quelli che sono all’Heysel, la partita non la guarda nessuno. Né i tifosi, né Giovanni Agnelli, che appena saputo dei gravi fatti ha deciso di tornare subito in Italia. "Gravissime carenze erano state constatate nell’organizzazione del servizio di sicurezza attorno allo stadio e al suo interno".  A Torino, però, la gente scende in strada per festeggiare il successo sportivo. "Ed è la cosa che ci ha fatto più male - spiega Beppe Franzo - Per noi sapere che qualcuno aveva voglia di fare i caroselli con le auto è stato un colpo al cuore. A distanza di tempo ho avuto modo di incontrare tante persone che si giustificavano persino per aver scelto di scendere in strada in quella giornata di disgrazie". Una cosa simile succede anche ad Alessandria, dove però dalla caserma dei Carabinieri escono tutte le volanti che si impegnano meticolosamente a multare i conducenti delle vetture che si sono date ai festeggiamenti. Per la strage che è costata la vita a 39 persone sono state accertate le responsabilità degli hooligans inglesi e quelle legate alla gestione dell’ordine pubblico, imputate alla polizia belga.

6 giugno 2016

Fonte: Lastampa.it

A-Z

PAUL FRY

"Ho assistito alla tragedia dell’Heysel 35 anni fa, questo è ciò che è accaduto"

di Paul Fry

Un uomo ha raccontato in prima persona il tragico evento.

Il 29 maggio 1985, durante la prima finale della Coppa dei Campioni fra Italia e Inghilterra allo stadio belga Heysel, si verificò una tragedia indimenticabile. Poco prima dell'inizio della partita tra la squadra italiana della Juventus e il Liverpool, ci fu una fuga di persone che causò decine di morti. Secondo le ricostruzioni dell’epoca, i tifosi del Liverpool sfondarono una recinzione che separava le due tifoserie, provocando una ressa umana. Circa 600 persone rimasero ferite e 39 hanno perso la vita. Oggi ricorre il 35° anniversario del tragico disastro. Il nostro reporter Paul Fry era allo stadio durante lo svolgimento dell'evento e lo ricorda bene. Qui offrirà il suo racconto in prima persona di come fu assistere allo svolgimento degli orrori. È un ricordo impossibile da cancellare: file di corpi, coperti da bandiere e disposti in file disordinate per terra fuori da uno stadio di calcio. Non ci fu dignità per loro neanche nella morte, poiché la discesa degli elicotteri della polizia smuoveva quelle bandiere, lasciando i corpi esposti nella confusione e nel caos in quell'orribile serata di 35 anni fa allo Stadio Heysel di Bruxelles. Circa 50.000 biglietti furono venduti per la finale della Coppa Europea del 29 maggio 1985, e molti altri entrarono senza biglietto, ma, al termine della giornata, persero la vita 39 tifosi di calcio. Tutti sono morti a pochi metri da dove mi trovavo io, sulle gradinate dello stadio, dietro a una porta. La maggior parte di loro fu soffocata nella ressa quando un muro dello stadio crollò, mentre le vittime, soprattutto ma non esclusivamente italiane, cercavano di evitare una grandinata di proiettili lanciati dai tifosi del Liverpool. Nella fredda luce del giorno dopo, mentre iniziava la ricerca di risposte - e di giustizia - quelle stesse gradinate erano disseminate di detriti: grumi di cemento che erano stati usati come armi, barriere frangi-folla piegate e rovesciate, il muro del campo crollato e mal costruito e ogni sorta di capo d'abbigliamento e sciarpe della squadra abbandonati. Sono rimasto basito quando mi sono reso conto di quanto fossi andato vicino a rimanere ferito (o peggio) in quello che era accaduto, era una specie di trauma ritardato. I brividi sono arrivati qualche giorno dopo, e poi una sorta di euforia del sopravvissuto che è difficile da descrivere, una sorta di sensazione del tipo: "non è ancora il tuo momento, amico, quindi muoviti". Erano le emozioni che mi sono venute in mente quando ho letto di recente, per la prima volta, la storia di un uomo dell'Irlanda del Nord che era tra i morti. Patrick Radcliffe, 39 anni, di Belfast, lavorava come archivista per la CEE (l’antesignana dell'Unione Europea) a Bruxelles e non amava nemmeno il calcio. Andò a trascorrere una serata all’aperto con un collega che aveva un biglietto in più. Come disse più tardi suo fratello gemello George: "Era nel posto sbagliato al momento sbagliato". Non lo erano tutti... Con il senno di poi, la tragedia dello Stadio Heysel non ha fatto altro che prefigurare una tragedia ancora più grande - anche se in circostanze solo in parte paragonabili, a Hillsborough quattro anni dopo. Ci furono più vittime quella volta: 96. Ma come a Bruxelles, erano solo persone che andavano a una partita di calcio. Mi trovavo nella capitale belga per andare a trovare la mia ragazza che lavorava come traduttrice in una banca e, per caso, son passato dallo stadio la mattina della partita tra il Liverpool, campione d'Europa in carica, e la Juventus. Mi ha sorpreso vedere soltanto una breve fila davanti ad una piccola capannina bianca che fungeva al momento da biglietteria. Non ho avuto problemi a prenderne uno, penso per circa 15 euro. La maggior parte dei tifosi di entrambi i club avevano già i loro biglietti e quelli venduti il giorno della partita erano presumibilmente per i "neutrali" in un grande settore, il Blocco Z - uno dei tre dietro la porta. Questo sarebbe diventato determinante in seguito. Missione compiuta, sono tornato nella bellissima piazza medievale del centro di Bruxelles, pavimentata con i ciottoli, la Grand Place. Era una luminosa e calda giornata di maggio e c'era un vivace e colorato mercato dei fiori di fronte ai pittoreschi edifici in pietra e legno oggi utilizzati come ristoranti e caffè. Ad un lato, una coppia appena sposata è uscita dal municipio sotto un sole splendente a farsi fare una serenata dai tifosi del Liverpool e della Juventus. Per il momento, almeno, c’era armonia, anche se i tifosi del Liverpool hanno usato le loro prevedibili parole d'ispirazione televisiva per O’ Sole Mio. Gli italiani, di comune accordo, vinsero il concorso di canzoni estemporanee in Eurovisione. Nel prosieguo della giornata di festa, si vedeva che molti dei tifosi italiani s’accontentavano di ripararsi in un caffè per un boccone con uno o due bicchieri di vino. Per troppi tifosi del Liverpool, la propria scelta di menu fu un carrello della spesa riempito di bottiglie di birra vuote da un supermercato in una strada laterale vicino alla statua del Mannekin Pis. L'atmosfera si è adombrata quando le bevande sono state consumate. Nel tardo pomeriggio, la polizia ha isolato una strada in cui una gioielleria aveva infrante le sue vetrine, con alcuni articoli rubati.

Tuttavia, sono andato con la metro alla partita pensando che probabilmente certe cose erano solo l’aspetto esuberante di alcuni casinisti e niente di più. Sono arrivato a destinazione con il gigantesco Atomium che dominava l’orizzonte, in anticipo. La mia prima impressione è stata che i tifosi della Juventus avessero tutti e tre i settori dietro la porta avversaria, mentre il gruppo del Liverpool fosse contingentato in due. E anche se era presto, il settore dei reds sembrava piuttosto pieno. Sembrava una stupidaggine perché l'Inghilterra era più vicina al posto e c'era da aspettarsi che moltissimi tifosi avrebbero viaggiato dal Merseyside, biglietto o non biglietto. Il settore Z era, al confronto, spazioso. Ero in piedi di lato vicino alla rete che ci separava dai tifosi del Liverpool e c'era a malapena qualcuno davanti a me, fino alla recinzione del bordo-pista. Una volta incominciate le ostilità, a un certo punto mi sono spostato in avanti per evitare l'assalto prima di battere frettolosamente in ritirata, rendendomi conto che tutte le uscite sicure erano dietro di me. Credo che tutto sia iniziato con i tifosi del Liverpool che erano invidiosi di tutto lo spazio che avevamo mentre loro erano costipati. E non è passato loro inosservato che la stragrande maggioranza del mio settore erano italiani. Erano per la maggior parte persone del luogo o emigrati che approfittavano della possibilità di vedere una squadra del loro paese in una grande finale proprio alla porta di casa. Le teste calde nel punto accanto non la vedevano così e la situazione si è fatta sempre più calda, a un certo punto ho visto un tifoso del Liverpool arrampicarsi sulla recinzione e tirare fuori una pistola lanciarazzi. L'aggressione è partita quasi esclusivamente dalla mia sinistra, dall’angolo dei rossi rivolti contro i tifosi italiani, gli azzurri. All'inizio sembrava qualcosa di tipico all'epoca. Una serie di esplosioni di violenza negli stadi in Inghilterra, in particolare in occasione di una coppa d'Inghilterra tra Luton e il Millwall quell'inverno, quando i sedili furono rotti e usati come armi, aveva reso il calcio uno spettacolo così poco edificante che le compagnie televisive non facevano la fila per mettere le partite sugli schermi della nazione e i soldi nelle casse delle autorità calcistiche. In effetti non ci fu nessun accordo televisivo per sette mesi dopo l’accaduto fino a metà della stagione 1985 - e questo per soli 1,3 milioni di sterline. I proiettili, dei calcinacci delle gradinate che si sbriciolavano facilmente con un calcio del tallone ben assestato, iniziarono a piovere, tutti ben al di sopra della mia testa. Non c’è da stupirsi che i bersagli del fuoco incrociato si siano ammassati il più lontano possibile. Ma è stato in quel momento che un muro dello stadio ha ceduto e la gente è stata calpestata, la vita è rimasta letteralmente schiacciata in mezzo a loro. Oltre alle vittime, quasi 600 sono stati feriti in una notte di infamia che ha avuto conseguenze disastrose per i club inglesi. C'erano immagini disperate di persone con le braccia tese che imploravano aiuto.  Ma l'assistenza degli addetti al primo soccorso è stata lenta. Ho visto i tifosi usare le barriere frangi-folla e i cartelloni pubblicitari come barelle di fortuna. Una vittima era coperta da una bandiera della Juventus e io sono stato scosso alla vista di un braccio che saltava fuori da sotto la sottile copertura. Era da subito evidente che era morto. A questo punto mi sono reso conto della gravità della situazione. Per un paio d'anni avevo fatto dei turni da freelance sulla scrivania sportiva del Times e sul The Mail di domenica e sentii il bisogno di provare se riuscivo ad entrare in sala stampa per descrivere ai cronisti sportivi che conoscevo quello che avevo visto. Era anche, mi sono reso conto più tardi, un rifugio sicuro. Ho iniziato a farmi strada superando un paio di poliziotti distratti e ho potuto vedere alla mia destra che erano stati fatti dei buchi sulla parete esterna dello stadio, permettendo un facile accesso a quelli senza biglietto. Avevo incontrato alcuni tifosi dei Reds senza biglietto sul traghetto e sul treno da Ostenda, tra cui uno nel viaggio serale da Londra a Dover, il cui biglietto del treno era per Liverpool a Bootle, con la parola "Bootle" sbarrata e "Belgio" scarabocchiata al suo posto. Non sapeva scrivere Bruxelles, scherzando. La scena fuori all'Heysel era quella del set di un film drammatico: c'erano polizia, ambulanze, persone a caso che camminavano e elicotteri sopra la testa, che illuminavano dai riflettori... Mi sono recato all'ingresso principale e ho visto che la reception era assediata e ho seguito i cartelli fino alla tribuna stampa, dove sono entrato senza problemi. Quando ho iniziato a chiacchierare con un giornalista, sono stato ascoltato da un responsabile della BBC che mi ha chiesto se volevo fare un'intervista. Mi sono seduto accanto all'ex capitano del Liverpool Emlyn Hughes, che era in lacrime mentre descrivevo la scena del matrimonio felice di prima e la discesa nella follia e nella morte. Non sapevo, finché non sono tornato a casa, che mia madre a Stevenage aveva visto l'intervista in TV e sapeva che ero al sicuro. Il calcio d'inizio era stato ritardato - ma il calcio non contava più niente se la gente stava morendo. I giocatori del Liverpool hanno fatto appello alla calma, ma senza successo. Le mogli dei giocatori, ci è stato detto, erano in lacrime.

Avevo potuto osservare che la rete che avevo accanto era stata abbattuta e i tifosi del Liverpool si erano riversati nel blocco Z, c'erano gas lacrimogeni pesanti nell'aria, la polizia con gli scudi antisommossa e la gente che correva in tutte le direzioni. Per un'ora hanno tirato fuori i corpi dalle macerie. Intorno a me si è discusso se la partita dovesse svolgersi. C'erano divisioni. Ma per l'ordine pubblico, una volta conclusa la sommossa, perché quello era (e c’erano stati problemi alla fine anche con gli Italiani quando i tifosi avevano visto i loro connazionali attaccati) la partita si è dovuta condurre fino al termine. Per prima cosa, avendo fatto guadagnare tempo alla polizia per pianificare una strategia di uscita dopo la partita ed evitare uno spargimento di sangue più grande dentro Bruxelles, era meglio per contenere. Ma nessuno voleva giocare. Ci è giunta voce che i giocatori erano restii a partecipare a quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione spettacolare. La moglie di Kenny Dalglish, Marina, è stato poi riferito che abbia detto di aver pregato che non avesse un penalty perché temeva per lui se avesse segnato. Così come accadde, Michel Platini segnò dal dischetto del rigore - davanti ai tifosi del Liverpool - l'unico gol della partita. La Juventus ha così vinto una finale che molti pensavano non si sarebbe mai dovuta disputare. Platini ha detto più tardi di non essere molto contento del calcio di rigore. Non pensava che fosse giusto e la Juventus non voleva vincere in quel modo. Ma come si è arrivati a questo punto ? Si potrebbe sostenere che l’Heysel era inevitabile. C'era un cocktail pericoloso in bella vista che era stato nascosto: molte delle autorità potevano prevedere quello che accadde ma la UEFA, l'organo di governo del gioco europeo, non fece nulla. A parte i fondati timori per lo stadio, c’era preoccupazione per la sicurezza dei tifosi dopo la finale Liverpool-Roma di un anno prima a Roma, quando si perpetrò molta violenza ai danni dei tifosi ospiti, con la polizia che si accanì sulle loro sofferenze. Si temeva che alcuni tifosi del Liverpool potessero venire a Bruxelles in cerca di una qualche forma di vendetta. Lo stadio era stato costruito nel 1920. Era chiaramente non adatto all’evento. La UEFA, i responsabili dello Stadio Heysel e la polizia belga sono stati indagati per le loro responsabilità. Albert Roosens, capo della Federcalcio belga, fu processato per aver permesso la vendita dei biglietti del Blocco Z ai tifosi della Juventus. Dopo un'indagine durata 18 mesi, il dossier del giudice belga Marina Coppieters concluse che le colpe dovessero ricadere esclusivamente sui tifosi del Liverpool, 14 dei quali hanno poi ottenuto 3 anni ciascuno per omicidio colposo - le uniche accuse per cui potevano essere estradati - con la metà delle loro condanne sospese. Ma dopo un appello degli avvocati belgi, le condanne di 11 tifosi furono aumentate a 4 e 5 anni. Il teppismo è stato per troppo tempo una macchia per il calcio inglese e il giorno dopo l’Heysel, il primo ministro Margaret Thatcher ha iniziato un processo che avrebbe portato a bandire i club inglesi dalle competizioni europee per cinque anni, il Liverpool per un altro anno. Il club di Anfield si qualificò per l'Europa in cinque di quei sei anni, tre come campione della Lega. E questo in un'epoca in cui i club inglesi erano una forza dominante in Europa. Stadi con tutti i posti a sedere, telecamere a circuito chiuso e i migliori corpi e regolamenti di polizia hanno contribuito enormemente a ridurre i problemi all'interno dei campi di calcio. Ai piantagrane è stato impedito di recarsi all'estero, anche se ci sono stati gravi incidenti che hanno coinvolto i tifosi inglesi all'estero, in particolare in Italia nel 1990 e all'Euro in Portogallo nel 2004. L’Heysel è stato ricostruito dopo la tragedia, ma al suo posto è previsto un nuovo super stadio in stile Tottenham. Il seguito davvero triste per Heysel è che in parte ha portato ad Hillsborough appena quattro anni dopo. La polizia e i funzionari di polizia e del calcio erano totalmente condizionati dall’Heysel e da altri incidenti negli stadi, tanto che qualsiasi problema nel calcio era semplicemente, nella loro mente, il diretto risultato del teppismo - e quindi si comportavano di conseguenza. Allo stesso modo, quando morirono 96 tifosi, schiacciati contro le recinzioni e sulle gradinate di Sheffield durante la semifinale della FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest nel 1989, la prima reazione dei responsabili fu che la colpa era del teppismo. Non era così. Quei poveri tifosi, tra cui donne e ragazzini, sono morti a causa di una cattiva gestione del pubblico, e la polizia aveva invertito le proprie responsabilità - ripetutamente, anche in tribunale - rigirandole ai tifosi del Liverpool che erano i colpevoli. È stata una narrazione che, attraverso il sostegno compiacente di una parte dei media, ha trovato un più ampio seguito e ci sono voluti più di 25 anni perché le famiglie di coloro che hanno perso la vita incontrassero giustizia. E la loro lotta non è del tutto finita, la loro causa è ancora insoddisfatta. Ci saranno cerimonie e racconti virtuali dedicate ai morti dello Stadio Heysel nei prossimi giorni per celebrare i 35 anni. E questa è una ottima cosa. Le lezioni sono state imparate, gli stadi sono stati migliorati al di là di ogni riconoscimento, così come la polizia e l'organizzazione delle partite. E mentre la Premier League è un pozzo di soldi fintamente camuffato da competizione leale, dobbiamo sperare che i tifosi non passino mai più un pomeriggio o una serata ad una partita di calcio solo per non tornare mai più a casa.

29 maggio 2020

Fonte: Derbytelegraph.co.uk

© Fotografia: Liverpool Echo

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