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Reduci Heysel O
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Testimonianze Reduci Heysel (O)
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ROBERTO OBLATO

La storia dell'astigiano sopravvissuto all’Heysel e che morì un mese dopo

di Stefano Masino

Trent'anni fa, e precisamente tra fine maggio e fine giugno del 1985, l'astigiano Roberto Oblato si trovò per due volte, ravvicinate fra loro, di fronte al suo destino: sopravvisse alla curva maledetta dell'Heysel (Bruxelles), ma non scampò a un'altra curva, infinitamente più maledetta, a pochi chilometri da Asti.

La scorsa settimana un mio collega, Marco Raviola, mi ha portato a vedere un cimelio di trent'anni fa: il biglietto n.3870 della finale Juventus-Liverpool della Coupe Clubs Champions Européens, disputata allo Stade du Heysel (Heizelstadion) il 29 maggio 1985. Di colore verdino, ben conservato, sul corpo del ticket si evincono alcune curiosità: il costo: 300 franchi; l'orario partita: 20.15. Sul retro, oltre agli sponsor (Bata, Coca Cola, Canon, Jvc, Camel, Cinzano, Fuji Film, Seiko), è riprodotta la pianta dello stadio: il mio collega si trovava nella curva opposta (posti in piedi N) rispetto a dove avvenne la tragedia (Y e Z). Una frase, però, ha destato la mia attenzione; riletta oggi, col senno di poi, fa venire i brividi. È collocata in bella mostra nella parte bassa e occupa un terzo della facciata principale del biglietto: "L'organisateur décline toute responsabilità du chef d'accident, de quelque nature qu'il soit, qui pourrait se produire au cours ou à l'occasion du match pour lequel ce ticket est délivré" ("L'organizzatore declina ogni responsabilità in caso di incidente di qualsiasi natura che potrà verificarsi durante o in occasione del match per il quale viene emesso il biglietto"). Raviola poi, dopo avermi descritto le condizioni precarie dello stadio belga dell'epoca, si è ricordato di un'altra vicenda drammatica legata all'Heysel. Altri astigiani, infatti, erano dentro quel maledetto stadio.

Rientrando dalla festa di San Giovanni - "Mio fratello è morto il 25 giugno 1985. Era andato a Torino con un suo amico per la festa di San Giovanni e rientrando, verso le 2 dopo la mezzanotte, a 500 metri da casa per un colpo di sonno è andato a scontrarsi contro la cappella votiva che si trova di fronte al campo sportivo di Villa San Secondo". A parlare, con la voce rotta dalla commozione, è Valeria Oblato, sorella dell'indimenticato Roberto Oblato. "Pensi che lui nello stadio era proprio dove crollò tutto. Si salvò per miracolo. Il suo amico era andato a chiedere aiuto alla polizia mentre quegli individui (hooligans inglesi. NdR) avanzavano contro di loro. A un certo punto mio fratello decide di raggiungerlo; di fianco a lui c'era una famiglia (papà mamma e figlioletto): il papà non voleva farlo andare, lo aveva quasi trattenuto perché allontanarsi di lì in quel momento voleva dire andare proprio in bocca a quei pazzi; ma lui pensò che ubriachi come erano magari non vedevano la singola persona ma il mucchio di gente lì ammassata e così fece. Ci raccontò che aveva appena fatto qualche metro quando si udì un tremendo boato e crollò tutto". Un mese dopo soltanto quella tragedia sportiva, dove persero la vita 39 pacifici tifosi juventini (32 italiani), il destino attese, questa volta definitivamente, Roberto Oblato. Aveva appena 21 anni, lavorava nell'azienda agricola di famiglia. I funerali si svolsero a Corsione dove risiedeva e dove abitano ancora adesso sua mamma, la sorella Valeria e due nipoti, Chiara e Michela, che non ebbe il tempo di conoscere.

14 giugno 2015

Fonte: Lanuovaprovincia.it

A-Z

29 maggio 1985, trent'anni dalla strage di Heysel:

il racconto di due finalesi che vissero la tragedia

Tecla Olivieri e Domenico Coppa erano andati ad assistere alla partita Juventus-Liverpool: ci furono 39 morti e 600 persone ferite.

"Fuori e dentro lo stadio era una guerra, volavano pietre ovunque: da quel giorno non ho mai più tifato nessuna squadra di calcio". Sono queste le prime parole che pronuncia Tecla Olivieri, che il 29 maggio 1985, insieme all'ex marito Domenico Coppa si trovava allo stadio Heysel di Bruxelles, dove morirono 39 persone e ci furono 600 feriti. La coppia, originaria di Finale, si trovava In Belgio insieme ad un gruppo di amici per assistere alla partita Juventus-Liverpool. Un’ora prima del match gli hooligan cominciarono a spingere verso il settore Z, dove si trovavano i bianconeri, per tentare di penetrare all’interno. In quella zona, però, si trovavano dei semplici spettatori e non i veri tifosi che, alla vista degli inglesi iniziarono a fuggire terrorizzati. Restano impresse nella mente tutte le immagini della gente che fugge spaventata e si ammassa, il muro di contenimento della gradinata che cede e le persone rimaste schiacciate sotto la folla e i sassi. "In pochi secondi", racconta Tecla, "fu guerra. Io mi trovavo nella parte alta del settore e quella fu la nostra fortuna. Intorno a noi cominciò a scatenarsi una battaglia, c’erano pietre e mattoni che volavano ovunque, gente che scappava. Io mi muovevo spinta dalla folla, non toccavo neanche i piedi per terra". "Fortunatamente, prosegue la donna, davanti a noi c’erano quattro bambini. Una guardia venne a prenderli per metterli in salvo, noi li seguimmo e riuscimmo a uscire dallo stadio. Dopo di noi chiusero le porte e per parecchie ore non sapemmo la sorte dei nostri amici". Fuori dall’Heysel ai loro occhi si presentò un vero e proprio scenario di guerra: polizia in tenuta antisommossa, guardie a cavallo, nessuno per le vie cittadine, un silenzio irreale rotto solo dalle grida di chi si trovava imprigionato nello stadio. "Siamo corsi verso il bus", continua la signora, "ma non ci hanno fatto salire: non sapevamo cosa fare. Abbiamo iniziato, sempre tenendoci per mano per paura di perderci, ad allontanarci dalla zona, alla disperata ricerca di un mezzo pubblico". Tutti i veicoli cittadini, dagli autobus ai tram, erano però stati precettati per portare i feriti dallo stadio agli ospedali. "Ci siamo messi in mezzo alla strada a sbracciare, ma nessuno ci ha caricato. Dopo un po’ di tempo che vagavamo abbiamo visto un taxi fermo". Tecla e l'ex marito si avvicinano e cercano di raccontare l’accaduto all’uomo che si trovava alla guida. "Dopo quella dei bambini, spiega la testimone, questa è stata la seconda fortuna della giornata. L’autista infatti era marocchino, ma parlava perfettamente italiano perché aveva lavorato per moltissimo tempo a Savona. Ci ha spiegato che la corsa era stata prenotata da una signora e che la stava appunto aspettando". La donna in quel momento arriva, sale sul veicolo e l’extracomunitario le spiega quello che era successo allo stadio: il taxi parte, ma dopo pochi metri si ferma. "Quella signora, racconta Tecla, dopo essersi voltata e averci guardato dal lunotto ha deciso di farci salire. L’autista ci ha fatto togliere le sciarpe e, dopo aver accompagnato lei in stazione, ci ha portato in aeroporto". Da lì i coniugi Coppa riescono ad avvisare al telefono la famiglia a Finale che stavano bene. "Ho parlato con mia madre, prosegue la signora, per qualche secondo, giusto il tempo di rassicurarla e poi è caduta la linea". Cominciano poi le ore di attesa all’aeroporto: si parla di cancellare i voli, polizia che gira ovunque, pochissime informazioni. "Dopo due ore cominciano ad arrivare i nostri amici, chi con la camicia strappata, chi senza scarpe, chi ferito. Qualcuno è partito con noi subito per rientrare in Italia, qualcun altro era tra i feriti dello stadio. Non potrò mai dimenticare quel giorno".

29 maggio 2015

Fonte: Savonanews.it

A-Z

Ricordare

Ricordare è un esercizio della mente, ognuno di noi ha un bagaglio vissuto che ha contribuito in maniera determinante a farlo crescere, gli sbagli del passato sono esperienza, le gioie di ieri diventano struggente nostalgia al pensiero del tempo andato. Ricordare la storia significa conoscere cosa è avvenuto quando il potere decisionale era nelle mani di persone che abbiamo amato ed oggi non ci sono più. Far finta che certi avvenimenti non ci tocchino da vicino o, peggio ancora, non ci appartengano, è una mancanza di rispetto a noi stessi ancor prima che ai protagonisti diretti. E' così in tutti i settori della vita, dalla politica alla famiglia. Il 29 Maggio del 1985 ha segnato profondamente la nostra Storia, incidendola in profondità, segnando un confine impossibile da superare… Eppure, colpevolmente, molti di noi lo hanno fatto... Chi in campo, pur a conoscenza di ciò che era accaduto, festeggiò... Chi, il giorno dopo, scese dalla scaletta dell'aereo, a Caselle, alzando sorridente quella Coppa grondante sangue... Chi scese in strada clacsonando... Chi, in società, chiuse a chiave il finto trofeo considerandolo vero... Chi, ancora oggi, pensa che di Coppe dei Campioni ne abbiamo vinte due perché in questo modo il Milan con le sue 7 vittorie appare più vicino... 39 morti sono finiti nel dimenticatoio, corpi scomodi dei quali sbarazzarsi, ricordi fastidiosi da evitare... Alcuni di noi, una netta minoranza, ma la qualità non va mai d'accordo con la quantità, si sono battuti per tenere accesa la fiamma recandosi a Bruxelles ogni volta che è capitata l'occasione, stando vicini ai parenti abbandonati, cantando in ogni stadio la voglia di non dimenticare. Ora sembra che, a Bruxelles, vogliano abbattere l'Heysel, il nostro mausoleo per farne un centro commerciale, buttare giù la piccola lapide ed il monumento che ricorda la nostra tragedia. Io che ho pianto nel vedere entrambi, la scorsa estate, non riesco a immaginare una squadra di operai armati di picconi che distruggono quel poco che resta a ricordo dei nostri fratelli e sorelle. Sono certo che il poco rispetto portatoci dalle altre tifoserie parta anche dal modo in cui non siamo stati capaci di gestire il dopo Heysel. Oggi qualcuno ha il coraggio di chiedere che gli accattoni restituiscano lo scudetto loro assegnato ed a noi tolto in seguito a calciopoli, un tricolore chiaramente finto e non meritato, ma chi siamo noi per pretendere questo se continuiamo a non voler restituire una Coppa consegnataci senza merito grazie ad una partita giocata solo ed esclusivamente per motivi di ordine pubblico ? Il 29 Maggio non è tra due giorni, per noi GOBBI ogni giorno è il 29 Maggio. Raccontiamo ai giovani cosa fu quella sera, insegniamo loro che restituirla è un atto doveroso, colpevolmente in ritardo, ma indispensabile. Smetterò di andare allo stadio definitivamente solo quando avrò vinto la mia battaglia, quella dei Gobbi veri che non si vergognano di un passato vergognoso.

27 maggio 2008

Fonte: Orgogliogobbo.forumcommunity.net

A-Z
... ORGOGLIO GOBBO ...

Bruxelles e l'Heysel 22 anni dopo...

Avevo lasciato Bruxelles quella maledetta sera del 29 maggio 1985 con la morte negli occhi, l'angoscia che mi accompagna ancora adesso di non aver potuto far nulla per aiutare la mia gente, l'odore di morte che solo quando lo senti capisci che esiste. Sul pullman gli occhi di chi ce l'aveva fatta, la conta con il batticuore, la partenza in una città spettrale militarizzata come mai. E poi il pensiero di dover telefonare a casa per tranquillizzare i familiari. Non esistevano i cellulari, le linee erano intasate, io ricordo di essere riuscito a chiamare verso le 5 di mattina e vi lascio immaginare quanti e quali pensieri avevano percorso le menti delle persone che mi aspettavano. In tutti questi anni ho sempre pensato che sarei tornato in quella città per rendere omaggio a chi non era tornato. Ho cercato, per quanto possibile, di tener vivo il ricordo di quanto accadde raccontandolo a chi, all'epoca, non era ancora nato. Ho atteso la partita con i reds come un appuntamento al quale non sarei mancato per nessuna ragione al mondo e, senza vergogna, ero in prima fila incurante delle conseguenze a cercare il contatto non avvenuto causa la presenza di un vero esercito a protezione degli animali. Ero ad Arezzo quando è stato intitolato il piazzale a Roberto Lorentini, una delle vittime di quella sera. Ma il cuore mi diceva che sarei dovuto tornare lì e così, ai primi di Agosto, ho imbarcato tutta la famiglia in auto e sono partito alla volta del Belgio. Ho voluto fare, quasi, le stesse cose che feci 22 anni fa, partendo da una passeggiata in centro, in quello splendido salotto che è la Grand Place, affollata di gente che sedeva nei tavolini dei tanti bistrot. L'ho trovata uguale e diversa, o forse sono io che la ricordavo differente: più grande, invasa dagli inglesi ubriachi che ci impedivano di passeggiare tranquillamente con la loro prepotenza alticcia. Il trasferimento all'Heysel è risultato agevole grazie al navigatore, all'epoca ricordo che feci qualche fatica ad arrivare con i mezzi pubblici, sbagliando un paio di volte e decidendo alla fine di incamminarmi seguendo l'enorme figura dell'Atomium che si stagliava nel cielo. Lo stadio oggi è cambiato rispetto ad allora, completamente ricostruito quasi come se una nuova veste riuscisse a cancellare il passato. Ma non è così. Quegli spalti fanno parte della nostra storia tanto quanto la città di Torino !  E' tutto diverso, anche i colori dei mattoni di un rosso vivo contrastano con il ricordo di un grigio che più grigio non si può, la copertura verde che prima non c'era, ma lo spazio è rimasto quello. La lapide, non visibilissima, con i nomi incisi è un urlo che fa male al cuore ed alle orecchie. Il muro crollato, ed oggi nuovamente in piedi, è lì a pochi metri e sembra il Titanic appoggiato su un fianco. Ho raccontato ai miei figli cosa accadde quella sera, perché accadde e di chi fu la responsabilità di quel massacro. Abbiamo pianto insieme scorrendo i nomi della lapide e di alcuni ho ricordato la storia e la provenienza. Penso che ogni Gobbo dovrebbe, nel corso della propria vita, recarsi all'Heysel, oggi Stadio Re Baldovino, come ogni buon cristiano si reca dal Papa durante l'Anno Santo o come i musulmani vanno alla mecca.  Arriverà il momento in cui anche io mi tirerò da parte, ma prima che questo accada impegnerò tutte le mie forze affinché quella coppa venga restituita con colpevole ritardo all'organo internazionale che ce la regalò grazie ad un rigore che più fasullo non si può.  Inutile dire che ne abbiamo vinta solo una se poi ne abbiamo due in bacheca perché, come ho già scritto, non possiamo pretendere il rispetto degli altri se non siamo noi per primi ad averne per la nostra gente che non c'è più. Abbiamo passato momenti orribili, una vera rivoluzione ci ha colpiti, cosa volete che sia privarsi di una cosa che non ci appartiene ?  Vi prego: andate a Bruxelles, toccate quel muro e lo sentirete vibrare come quando è venuto giù. Se tornando a casa vorrete ancora quella coppa in bacheca, vorrà dire che il mio popolo fa schifo e le mie battaglie per migliorarlo sono risultate vane.

15 agosto 2007

Fonte: Orgogliogobbo.forumcommunity.net

A-Z

SANTINO e FAUSTO ORSI

Santino Orsi, sopravvissuto ai campi di concentramento (Jugoslavia) e Heysel

di Mauro Molinaroli

Due storie vere per Santino Orsi, l'uomo che visse due volte. L'uomo uscito due volte dall'incubo di una morte annunciata oggi ha 91 anni, abita nei pressi della Galleana, è persona cordiale e molto lucida. Non penseresti mai che la sua esistenza è stata segnata così pesantemente da due eventi talmente tragici di fronte ai quali chiunque non troverebbe la forza di sorridere e di guardare avanti.

IL PASSATO PESA - Lui sì, perché c'è un senso a tutto anche al dolore ed alla morte. Perché il tempo sa shakerare i ricordi e lenire le sofferenze. Perché l'oggi è meglio di ieri, ma il passato pesa, pesa come un macigno: prigioniero nella Jugoslavia di Tito dall'aprile 1945 al Natale del 1945, ha rischiato anche di morire di calcio allo stadio dell'Heysel a Bruxelles, il 29 maggio 1985, durante la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Lui era in quel maledetto settore "Z" insieme al figlio che lo salva accorgendosi che sta per essere soffocato da una montagna di persone che spingono per uscire da quell'inferno. Entra in coma, si sveglierà qualche giorno dopo all'ospedale di Saint Luc di Bruxelles, ma la vita difficile vera aveva toccato punte incredibili dopo la caduta del Terzo Reich avvenuta l'8 maggio 1945. PRIGIONIERI A LUBIANA - Diverse migliaia di militari, in maggioranza italiani, ma anche tedeschi e qualche slavo, con l'inganno vengono fatti prigionieri e condotti a Lubiana, città vicina ai confini con l'Italia, attraverso la Jugoslavia settentrionale fino a Novi Vrbas, importante centro agricolo al confine ungherese con l'obiettivo di sostituire gli ungheresi cacciati dalle loro terre nei lavori nei campi e nelle fabbriche. La marcia dura 38 giorni, tra i deportati c'è proprio lui, Santino Orsi, reduce dalla campagna di Russia e della Grecia poi: "Da Lubiana a piedi ci tradussero a Novi Vrbas, eravamo più di 1.500 italiani, tornammo in 800. Tutto avvenne senza cibo né bevande, spiega, mentre sfoglia un libro scritto da un suo compagno di allora, Giuliano Marzaroli, dal titolo "La marcia della giovinezza (Edizioni Ets) dove Santino è più volte citato, che riporta proprio i giorni di quella devastante marcia, quel viaggio nel cuore del comunismo di Tito, bevevamo l'acqua nei fossi, mangiavamo le radici degli alberi e qualche patata. Il percorso passava attraverso piccoli centri abitati, e spesso anziché essere aiutati la gente ci insultava ed a volte ci picchiava. Mi creda, ho ritrovato il libro di Giuliano Marzaroli e mi sono ritrovato nell'inferno di allora. Mi chiedo se sarà ancora vivo, però quel viaggio, quelle sofferenze e quelle torture sono ferite che non si cicatrizzano". LA DEPORTAZIONE - L'onta della deportazione, il Danubio limaccioso, città mai viste: "Urlavano che eravamo fascisti, prosegue Orsi, e la gente si sfogava sputandoci addosso e picchiandoci. Osijek rimane un incubo, una città terribile e ognuno di noi si rendeva conto che dimagriva di giorno in giorno. Senza una ragione ci stavano portando a forza in una città che non conoscevamo, una località che avrebbe ospitato migliaia di montenegrini. Ma questo noi non potevamo saperlo. Si dormiva nei prati, tra l'umidore ed il solo conforto era di contarci, ritrovarci e capire che eravamo vivi. Fu forte la voglia di lasciarci scivolare a terra. Giungemmo a Backa, la regione più a est della Jugoslavia il 17 giugno. La marcia era finita. Saremmo stati forza-lavoro per l'agricoltura e per le fabbriche. Ci diedero del pane e non ci parve vero. Ci misero in uno stanzone, il risveglio fu terribile". IL LAGER - Eravamo in un lager e il comandante ci fece fare molte flessioni, una punizione inspiegabile. Eravamo deboli, stanchi, non sapevamo come sarebbe finita, ma so per certo che ciò che vivevamo era l'inferno. Eppure il lavoro in fabbrica era durissimo diviso per turni, con pesanti mazze molti di noi dovevano spezzare pietre prese dalle cave, altri prigionieri le estraevano e poi venivano cotte nei forni a ciclo continuo e trasformate in calce viva. Facevo l'"elecriciaio", l'elettricista per intenderci. Mi chiamarono per installare la prese delle case ed i montenegrini probabilmente non avevano mai avuto la luce elettrica; una sera mi chiamarono chiedendomi come si spegnessero gli interruttori, con un gesto della mano spensi in un attimo". HEYSEL: LA FINALISSIMA - La domenica precedente la partita, Santino cade dalla bicicletta e sbatte la testa, sembrano segni di un destino beffardo. Padre e figlio sono indecisi se partire o meno. Poi vanno: "Un'ora prima della partita gli hooligans, violenti ed ubriachi più che mai, dicono, cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, sfondando le reti divisorie, reti che non erano per niente sufficienti a garantire un'adeguata sicurezza: la tifoseria organizzata bianconera è nella curva opposta, molto lontano; quel settore è occupato solo da gente buona, da famiglie che vivono un dramma che non dimenticheranno più. Eravamo impauriti, anche per il mancato intervento e per l'assoluta impreparazione delle forze dell'ordine belghe, che ostacolavano la fuga degli Italiani verso il campo manganellandoci. Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono contro le recinzioni. Il muro ad un certo punto crollò per il troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d'uscita". L'INFERNO - Prosegue Fausto Orsi: "Anche noi cercavamo di raggiungere il campo, ma era impossibile. Mio padre cadde e fu travolto da una folla che spingeva, che cercava a tutti i costi di salvarsi. Mi accorsi dov'era perché indossava un paio di calzoni con un disegno a quadri, molto ben visibile. Ricordo che mi tuffai in quel marasma, cercai mio padre che aveva perduto i  sensi, improvvisai una respirazione bocca a bocca e dopo diverso tempo fu portato in un ospedale militare nei dintorni dello stadio. C'era l'inferno, la gente che piangeva, si disperava, sangue ovunque, feriti, i morti che neppure impressionavano più in quel marasma. Raccontare oggi quel che accadde allora è riaprire una ferita che ha impiegato molto tempo a cicatrizzarsi. Fu quando mio padre giunse all'imponente ospedale di Saint Cloud che mi resi conto che avrebbe potuto farcela. Un centro medico molto attrezzato, lui era tenuto in coma farmacologico. Ci raggiunse anche mia madre, fu un mese molto strano, particolare. Santino intanto giorno dopo giorno riprendeva conoscenza: "mi volevano tutti bene, fui trattato in modo esemplare. Fecero il possibile per farmi dimenticare quel dramma. Mio figlio era tornato a Piacenza, c'era il negozio di elettrodomestici e l'attività di elettricista da mandare avanti. Io rimasi a lungo. La foto in cui ero a terra esanime divenne una sorta di simbolo nonché la copertina del Guerin Sportivo".

18 febbraio 2013

Fonte: La Libertà

A-Z

CARLO OTTAVIANO

"Quella foto che mi riporta nell'incubo dell'Heysel"

di Carlo Ottaviano

Trent'anni fa la strage: la testimonianza del giornalista Carlo Ottaviano quel giorno allo stadio con un gruppo di amici. "Ho rivissuto il dramma vedendo pubblicata l'immagine del dolore di due tifosi con i quali avevo viaggiato da Catania a Bruxelles".

Claudio quel giorno era ancora nella pancia di Giusi che al telefono dall’unità di crisi della Farnesina si sentì rispondere: "No, suo marito non è tra i cadaveri riconosciuti... Però abbiamo 11 corpi ancora senza nome e ci sono centinaia di feriti". Il mio ricordo dell’Heysel è il senso di colpa per quelle ore di angoscia fatte vivere a chi mi amava. Il mio ricordo dell’Heysel è la consapevolezza che nessun merito e nessuna responsabilità sul loro destino avevano e hanno quei due ragazzi che sarebbero nati di lì a poco e che tra qualche mese compiranno i 30 anni. Domenico ha lo stesso nome del padre mai conosciuto, una delle 39 vittime di quella dannata partita. Domenico Russo viveva in Piemonte e aveva 28 anni, come me allora. Dal 29 maggio del 1985 associo immancabilmente l’idea dell’imponderabilità del fato a quel giorno e ai due ragazzi che sarebbero diventati Claudio e Domenico. "Tra mezz’ora da Fontanarossa parte un volo per Bruxelles. La Fiat mi ha regalato 4 posti. Vuoi venire assieme a mio figlio e mio nipote ? Si rientra per mezzanotte a Catania". Giusto il tempo di una telefonata a casa e via. Sull’aereo c’è aria di festa. Il destino ha le sembianze di un gentile signore che distribuisce i biglietti di ingresso allo stadio. A me capita la curva M. Ad altri la N e la O. A 12 passeggeri, seduti in coda all’aereo, viene dato l’accesso alla curva Z, quella della morte. Arrivati all’aeroporto di Anversa, un’ora da Bruxelles vengo attratto da un simpatico omaccione in bianconero: cappellino a righe, giacca a righe, pantalone uno bianco e uno nero, scarpe in tono. Mentre lo fotografo un amico gli si mette al fianco. Ho recuperato l’immagine in queste ore dal cassetto dei ricordi dopo aver visto la "Repubblica" di lunedì. Una foto riprende i due dopo il passaggio della furia assassina degli hooligans: quelle sul volto del Pierrot bianconero non sono lacrime dipinte, sono vere. Una volta entrati nello stadio non capimmo nulla di ciò che accadeva nella curva Z. Vedemmo la marea di maglie rosse muoversi, la polizia portare via dei corpi tenendoli per le mani e le gambe. Sapendo poi e ora che erano i corpi delle vittime, continuo a vergognarmi per aver applaudito al rigore di Platini e la vittoria dei torinesi. Solo a partita terminata, si iniziò a sapere cos’era accaduto e ad avere contezza del dramma. Si vagava per strada, alla ricerca del bus che avrebbe dovuto riportarci in aeroporto. Quando, alle 5 della mattina dopo, il gruppo si ricompose, all’appello mancavano in tanti, alcuni feriti gravemente, altri rimasti per assisterli. Eugenio Gagliano, 34 anni, assessore socialista a Mirabella Imbaccari, padre di tre bambini, sarebbe tornato qualche giorno dopo con un Hercules C130 dell’Aeronautica Militare ma dentro una cassa di legno. E dopo due mesi di sofferenza all’Ospedale Erasme, senza mai riprendersi dal coma, lo stesso triste viaggio avrebbe compiuto Luigi Pidone, 31 anni, di Nicosia. Entrambi vittime della furia dei teppisti inglesi e di quel dannato casuale biglietto Z e non M, N, O.

27 maggio 2015

Fonte: La Repubblica - Palermo

A-Z
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