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ISP. FILIPPO RACITI
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Ispettore Capo Filippo Raciti 2.02.2007 Altri Articoli
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Noi, padri di quei ragazzi da stadio

di Carlo Verdelli

Da dove uscivano quei ragazzi che correvano bardati e bendati nella notte di Catania, tra il fumo di lacrimogeni e le strade sporche di sassi ? Da che case venivano, da che scuole, da quali bar ? Ancora non lo sapevano, ma sulla coscienza di tutti loro, e di tutti noi, c’era il peso di una sera stupidamente atroce, e un poliziotto dilaniato. Un poliziotto, segnatevi il nome: Filippo Raciti. Uno di quelli intervenuti per cercare di placare gli scontri scoppiati intorno allo stadio. Uno come Luigi Silvestre, che due settimane fa, scampato per miracolo a una bomba che gli era arrivata tra i piedi, aveva inutilmente pronosticato, dal letto d’ospedale dove si trovava con un buco nella gamba: "Ma cosa aspettano a muoversi ? Che ci scappi il morto". Adesso si sono mossi, sull’onda anche della vergogna di quanto accaduto qualche giorno fa, con il corpo del povero Ermanno Licursi preso a calci in faccia in uno spogliatoio di Terza categoria, e morto lì, morto così. Morto senza neanche la consolazione, la domenica dopo, di un minuto di silenzio in suo onore (minuto di silenzio che è arrivato, per atroce paradosso, proprio ieri sera in apertura di Catania-Palermo). Il calcio si ferma, per un turno, due, chissà: non per un soprassalto di dignità ma per spossatezza, per impotenza, per aver perduto, non da oggi, non da ieri sera, il senso profondo per cui era nato. Da dove uscivano quei ragazzi di Catania, che cosa avevano in testa quando sono entrati a vedere la loro partita, di quale maledizione erano e sono intrise le loro bandane, e le bandiere, e i fazzoletti, e gli slogan urlati sempre contro qualcosa e qualcuno ? Di chi sono figli, da quale benzina vengono alimentati, chi e cosa trasforma la loro passione per lo sport in furia, la loro voglia in odio ? Non sono domande retoriche. Sono domande che in molti dovrebbero cominciare a porsi molto ma molto seriamente, anche dentro i giornali, le televisioni, la rete di Internet. Italia, abbiamo un problema. E non riguarda tanto i tifosi di calcio. E non riguarda nemmeno l’ordine pubblico. Riguarda il tessuto profondo di questo Paese, riguarda chi ci governa e chi organizza la nostra scuola, riguarda le nostre case e le nostre famiglie. Riguarda il Paese grottescamente campione del Mondo di calcio. Riguarda ognuno di noi, padre a suo modo di ciascuno di quei ragazzi della notte di Catania, che passeranno alla storia ignobile di questo Paese con un merito tremendo ma indiscutibile: l’averci costretto ad aprire gli occhi. E a provare un brivido di pena per quello che siamo diventati.

3 febbraio 2007

Fonte: La Gazzetta dello Sport

© Fotografia: Lasicilia.it

"Noi poliziotti: abbandonati, derisi"

di Sebastiano Vernazza

Dal nostro inviato. CATANIA - Hanno facce stanche, tirate. Sono incazzati, masticano una rabbia agra. Sono i colleghi (e le colleghe) dell’ispettore Filippo Raciti, poliziotti che hanno condiviso con lui la "linea del fuoco", i tanti scontri con i delinquenti del Cibali. Stanno davanti alla Questura, in piazza Santa Nicolella, e sono soli, non un cittadino che esprima loro solidarietà. Vestono abiti borghesi, osservano con distacco la foresta di microfoni e telecamere attorno all’auto del capo della Polizia, Gianni De Gennaro, impegnato in un vertice dentro l’ufficio del Questore. Catania pensa alla festa di Sant'Agata, la Cattedrale troneggia poco distante e via Etnea è pronta per la processione. Mezzogiorno amaro, le voci dei poliziotti di Catania si sovrappongono. Ne viene fuori un concerto di testimonianze, accuse e sfoghi. Parole vere, "di pancia", che riportiamo senza legarle a nomi e cognomi, ché tanto non servono. PRIMA O POI "Raciti è un morto annunciatissimo. Omicidio premeditato. Al derby col Messina gli ultrà catanesi ci attirarono in trappola, simularono un ferimento, ci avvicinammo per soccorrere e fummo attaccati a tradimento. In dicembre, per Catania-Udinese, ci tirarono addosso 67 bombe carta. Uno dei nostri è vivo per miracolo, una "cipolla" (micidiale petardo, ndr) si era incastrata nel colletto del giubbotto e se fosse esplosa gli avrebbe squassato la testa. Lo salvò un collega, che rischiò di perdere una mano scaraventando via l’ordigno, deflagrato poi lontano. Gli ultrà cantavano: "Sono contento solo se vedo morire un poliziotto". Il nostro sindacato scrisse una lettera al Questore: guardate che ci scappa il morto. Niente. Lo sapevamo che sarebbe successo, che qualcuno dei nostri ci avrebbe lasciato la pelle. "U" sentivamo". LAMPADARIO "Gli ultrà catanesi ce l’avevano con noi, non con quelli del Palermo. E non scrivete le solite cose sui pochi isolati teppisti. Quali pochi ! Qui ci sono centinaia di canaglie. Avete visto come si è svuotata la curva Nord quando sono arrivati i palermitani ? Tutti fuori, a cercare lo scontro con noi dietro la finta scusa dei nemici rosanero. Dal balcone di una casa ci hanno lanciato addosso un lampadario. La gente è ostile o indifferente. Il cittadino aggredito urla: "Aiuto, polizia !". Il cittadino indenne si gira dall’altra parte e poi dice che la polizia esagera. Una signora, però, ha offerto una sedia a un graduato contuso allo sterno". TAPPI PER LE ORECCHIE "A noi della Questura forniscono caschi e scudi, ma negano le tute imbottite con para-gomiti e para-gambe, riservate al Reparto Mobile. Lo sapete che cosa significa ? Che ogni pietra tirata ad altezza tibia ti può spezzare un osso. Venerdì i nostri cadevano come mosche sotto la pioggia di sassi, tondini, biglie di ferro. Non eravamo attrezzati per la guerriglia urbana. Servirebbero gli idranti, i gettiti d’acqua disperdono la folla e non ammazzano, ma in Italia sono vietati. Per contrastare le bombe carta ci hanno rifornito di tappi per le orecchie, anti-rumore. Si può ? Presi per il culo, ecco". DISNEY CHANNEL "Io sono rientrato a casa alle cinque della mattina e ho trovato la figlia di dieci anni in lacrime. Mia moglie aveva cercato di tenerla buona con Disney Channel, ma la bambina pensava che fossi morto e aveva le crisi isteriche, di paura. I nostri ragazzi terrorizzati per colpa di una partita: ma si può ?". STIPENDI "Venerdì siamo stati in strada per 16-17 ore di fila. Prima la prevenzione, poi gli scontri. Siamo andati in straordinario, ogni ora in più ce la pagano 12 euro lordi. A fine mese i giovani prendono stipendi da mille e cento euro, quelli con venti-trent' anni di servizio arrivano a mille e 500. Io sono poliziotto per scelta, credo nell’ordine, ma a Catania lo Stato ha perso l’autorità. Non c’è più rispetto per le divise, in Settentrione è diverso. Qui ci cantano "Bastardo col casco blu" oppure "Poliziotto primo nemico". Non possiamo entrare nella curva Nord per un tacito accordo, i signori ultrà rossoazzurri hanno fatto sapere che se varcassimo i cancelli del loro territorio si riterrebbero vittime di una provocazione. Lo Stato non governa più un pezzo del Cibali, la curva Nord non fa più parte della Repubblica Italiana, è un territorio a sé dove non si osservano le leggi del Parlamento. A me questo fatto mi fa impazzire. Possibile ? E devo inghiottire gli sfottò di centinaia di ragazzini teppisti, intoccabili perché minorenni". CALCIATORI "A noi i calciatori ci stanno un po' qua, con tutti quei milioni che incassano. Rischiamo la vita per salvarli e loro fanno i furbi. Uno non aveva il pass e voleva lo stesso parcheggiare allo stadio. Diceva che lui era un giocatore - vero, l’ho riconosciuto - e che non aveva bisogno del permesso, però io gli ho risposto che sono poliziotto e devo far rispettare le disposizioni, così la macchina del signor calciatore ha fatto la retromarcia". MANI LEGATE "Abbiamo le pistole, ma non le possiamo usare, ci mancherebbe. Quelli là tirano di tutto e noi li inseguiamo con i manganelli, che sono sfollagente e non fanno tanto male. Le nostre regole d’ingaggio dicono che il teppista lo puoi colpire a spalle, braccia e gambe. Cazzi tuoi se gli dai una botta in testa e quello va in rianimazione. Lo Stato ti molla e tu devi risarcire il "poveretto", che il colpo alla capa se l’era beccato perché ti aveva preso a pietrate. Abbiamo le mani legate e dopo il G8 di Genova è peggio perché la maggioranza degli italiani pensa che noi siamo degli assassini torturatori. Che certi "benpensanti" venissero a passare mezz'ora con noi, quando impazza il tafferuglio". RICHIESTE "Chiediamo leggi dure e la certezza delle pene. Non che andiamo a testimoniare ai processi e poi gli accusati patteggiano, escono e ci minacciano. E non prendeteci in giro con le diffide a entrare negli stadi. A Catania non le rispetta nessuno, le "maschere" del Cibali sono compiacenti, forse perché ricattate: fanno entrare i senza biglietto e pure i diffidati".

4 febbraio 2007

Fonte: La Gazzetta dello Sport

© Fotografia: Palermo.gds.it

L’Amaca

di Michele Serra

Caro piccolo sciacallo che, sopra un muro di Livorno, hai inneggiato alla morte dello "sbirro" Filippo Raciti: ma come fai a non sapere che lo sbirro sei tu ? Raciti era un lavoratore di 38 anni, che per uno stipendio da operaio andava a farsi sputare addosso da quelli come te. Soldatacci, sbirraglia da curva, branco armato che per provare il brivido di essere qualcuno trasforma la miserabile identità di "tifoso" in valor militare. Tu sei lo sbirro, tu il repressore, tu il persecutore delle vite altrui, tu e tutte le cosche mafiose che, in tutti gli stadi italiani, presidiano il territorio della domenica (rubandolo agli altri) per dimenticare di essere uno zero tutti gli altri giorni. Credi di essere "di sinistra", magari "rivoluzionario", ma hai la tipica testa del maschio reazionario, piena delle parole retoriche e sceme della sedicente "cultura ultrà": onore, gloria, vittoria, cascami di un linguaggio di guerra che ormai fa ridere anche nelle caserme, dove i tuoi coetanei la pelle la rischiano davvero. Magari avrai vent' anni, ma sei un vecchio. Un vecchio violento e ipocrita, che per ammantare di qualche ideale la tua frustrazione, la tua prepotenza, te la passi da ribelle. Non sei un ribelle, sei un conformista. Un piccolo conformista dal cuore vuoto. Vuoto quanto basta per diventare sbirro.

4 febbraio 2007

Fonte: La Repubblica

Catania divisa tra il lutto e la festa e i fedeli non applaudono la Polizia

di Emanuela Audisio

CATANIA - Se questo è un morto. Se questa è la sua famiglia. Se questa è la sua città e la sua patrona. Applausi. Ma non alla polizia di Catania. Nella cattedrale non si battono le mani alla legge. Sant' Agata, una delle feste più partecipate del mondo. Mai annullata, se non nel '91 per la Guerra del Golfo quando gli F-16 rigarono il cielo e monsignor Bommarito la ridusse a una piccola processione. Il fercolo: 18 tonnellate, costruito tra il 1514 e il 1519. Portato a spalla fino al 1713, poi sistemato su grosse funi e montato su pattini di metallo. Fercolo spogliato nel 1890 da 160 chili d’argento, furto a opera dei soliti ignoti, aiutati dal custode. Distrutto dai bombardamenti del '43, rimesso a nuovo e cesellato in argento ornato da filigrane. Per questo il busto della santa, saccheggiata pure lei, è custodito nel sacello con una porta blindata con tre serrature. È l’alba, il cielo è grigio, piove. Per i devoti è Sant' Agata che piange. Per la cronaca è una giornata un po' kafkiana e molto pirandelliana: veglia funebre alla mattina, inno alla vita di sera. Catania onora la sua santa e il suo morto da stadio. Un po' festa e un po' lutto. Sacro e profano. Religione e paganesimo. Omelia e bancarelle. Tuniche bianche e palloncini rossi. Assurdità e mestizia. Fanatismo e compostezza. La reliquia del passato e un corpo del presente. Una santa martirizzata perché non volle cedere la sua verginità, un ispettore ucciso perché non volle cedere agli ultrà. Lei, amputata dei seni e bruciata. Lui, con il fegato spappolato. Sprangati tutti e due. Ognuno ha le sue camere ardenti, quella di Filippo Raciti, 38 anni, è all’ingresso del decimo reparto mobile della polizia, con le bandiere a mezz' asta. La fila è lunghissima, arriva anche Emanuele Filiberto di Savoia. Per la città una festa con il freno a mano: niente candelore, niente carrozze, niente fuochi d’artificio. Perché in Italia una decisione vera non c' è mai, tutto è sempre a metà, così tutti sono un po' scontenti e un po' contenti. Anche se per Pippo Baudo, catanese, la festa doveva essere annullata. Agata doveva restare in chiesa, come la bara dell’ispettore. Alle 4 e mezza di mattina c' è già una folla di devoti che preme sul cancello della cattedrale. All’interno il sacrestano si fa il segno della croce, batte tre volte sul portone, si mette da parte. È il segnale. È come la corsa dei tori, i devoti, quasi tutti da ragazzi, si scatenano, corrono a occupare i primi posti. Le tuniche sono bianche perché quando le spoglie della santa tornarono in nave da Costantinopoli era l’alba e i fedeli scesero al porto con la camicia da notte, la papalina e il fazzoletto in mano. Alle 6 l’omelia di Salvatore Gristina, arcivescovo di Catania, occhialini calati sul naso. "Siamo profondamente feriti dagli episodi di Palermo-Catania". Veramente si giocava a Catania. Infatti si corregge. "Alla vedova, ai figli, ai familiari di Filippo va la nostra solidarietà". Chiede: "Come è stato possibile che tutto ciò sia accaduto ?". Velata polemica contro un’opera di prevenzione che non c' è stata ? "Siamo soggetti alla tentazione, sperimentiamo la nostra fragilità. Cosa fare di fronte e tanto disagio ? È capitato altrove, è una vergogna nazionale. Non dobbiamo scoraggiarci, né arrenderci". Silenzio. "Coraggio, Marisa, il Signore non ti abbandona e Filippo dal cielo prega per te, Alessio e Fabiana". Applausi, partecipazione, commozione. Per la vedova, per il figlio di 9 anni e la figlia di 15. L’arcivescovo continua: "Coraggio, forze dell’ordine". Silenzio. Gelo. Freddo sotto le navate. Molti ragazzi, molte facce da ultrà, molti corpi usciti dalla guerriglia e ricoperti dal sacco stanno rigidi. L’arcivescovo pretende una solidarietà che non c' è, non da parte di tutti. Raciti era un poliziotto. E qui l’insulto peggiore è: cornuto e sbirro. Allora supplica: "Facciamo un applauso". Come Biscardi quando al Processo chiedeva un applauso spontaneo. Gristina sente che deve specificare, che quel vuoto tra città e forze dell’ordine deve essere colmato: "Carabinieri, vi vediamo come persone, non siamo contro di voi". Un tentativo di far fare pace in nome di sant' Agata almeno in cattedrale. E ancora: "Coraggio, responsabili dell’istituzione. Dobbiamo esserci ed esercitare le responsabilità.

Coraggio, perché Catania non deve essere deturpata dal male". Stavolta l’applauso c'è. Anche perché questo discorso ricorda quello di Papa Wojtyla che nel '94 in una stagione nera per gli omicidi di mafia venne e incitò: "Catania, alzati. E rivestiti di luce e giustizia". Parole ricordate in una targa in piazza Duomo. Il busto della santa ondeggia, è pronto ad uscire. La folla stavolta è composta, in molti restano a pregare nella cattedrale. Fuori un’altra omelia, del nuovo parroco, Barbaro Scionti: "Catania non si sente rappresentata da chi usa violenza, scusaci Agata, piango per te, per quello che devi vedere". Perché qui Agata è come una sorella, una santa a cui si dà del tu. "Agata, perdonaci". Applausi sentiti. Agata non era una sbirra, si ribellò, ma accettò il martirio. Agata tutelò la sua purezza, Catania, ma non solo Catania, non può più. Soprattutto perché a sera quando la festa affronta la salita dei Cappuccini, stavolta a passo lento, il capomastro ferma la processione perché si è tranciato un cordone del fercolo. Si riparte, verso i quartieri più popolari, si passa davanti alle putie dove si arrostisce la carne di cavallo. Fette e polpette. Vanno a fuoco anche le certezze di chi pensa che gli ultrà siano solo poveri giovani disgraziati. Il procuratore Renato Papa, titolare dell’inchiesta sulla morte dell’ispettore Raciti, dichiara: "Tra gli indagati ci sono anche figli di buona famiglia, di medici e poliziotti, persone forse trascinate da altri, ma che vengono da un ambiente sano". Il branco da stadio è trasversale. Viene dalla periferia e dai salotti con i bicchieri di cristallo. Fanatismo dei piani alti, non solo bassifondi. A Sant' Agata tocca finire il giro serale con questa notizia. Oggi i funerali di Raciti saranno celebrati alle 12 nella cattedrale, in contemporanea con il Pontificale della festa. Non era mai capitato che la santa dovesse condividere questo momento con altri morti. Sull’altare un derby religioso: l’arcivescovo di Catania e monsignor Paolo Romeo che il 10 febbraio si insedierà come arcivescovo di Palermo. Ci sarà anche Amato, ministro dell’Interno. Di notte risuonano le parole di Gristina: "Cercare di vincere il male che è in noi e attorno a noi". Sant' Agata, aiuto.

5 febbraio 2007

Fonte: La Repubblica

© Fotografie: Ilgiornale.it

Bisognerebbe portare Marisa Raciti nelle scuole

di Candido Cannavò

Nella scia della tragedia di Catania, c’è un agghiacciante corteo di minorenni. Delinquenti a 15 anni: per povertà, incultura, per odori di mafia in famiglia o semplicemente perché questo mondo sgangherato ha procurato loro il gusto dell’odio senza bersagli, contro tutti. Filippo Raciti, padre di famiglia, poliziotto dal cuore buono, li guardava con sgomento. Tornando a casa diceva alla moglie: "Sai Marisa, hanno l’età di nostra figlia". Forse l’età stessa di Fabiana aveva anche l’omicida che gli ha spappolato il fegato. Era uno o forse erano due, al peggio non c’è fine. Sulla scena italiana si è affacciata una donna siciliana che non urla, non si lascia andare alle scene strazianti che danno teatralità antica al dolore della gente del Sud. No, Marisa è una vedova che trasforma il suo lutto nella fierezza di essere stata moglie di un grande uomo. E capisce che la tragedia di una folle serata catanese non è soltanto sua: appartiene a una città che ha perso la rotta della legalità, a una generazione che ha smarrito il senso del vivere. "Stanno arrestando tanti minorenni - dice - e io soffro perché, come mi diceva Filippo, hanno l’età di mia figlia. Penso al dolore delle loro famiglie". Credo che il volto, la dignità e le parole di questa signora abbiano più efficacia di prediche, convegni, dibattuti e nebulose omelie. Bisognerebbe portare Marisa nelle scuole perché spieghi dal vivo cos' è la vita, la legge, cos' è un poliziotto che rischia la vita, e talvolta la perde, per il bene collettivo. La ministro Giovanna Melandri, in quella sorta di tribunale di Norimberga che ha annunciato in tv le terribili pene del decretone anti-violenza, ha trovato spazio anche per il problema educativo. C’è la proposta di introdurre nella scuola l’ora di cultura sportiva. Un’illuminazione in ritardo di almeno mezzo secolo. Dopo tanto tempo sprecato, oggi bisognerebbe istruire non solo i ragazzi, ma anche i genitori. Siamo dinanzi a un’incultura di seconda o terza generazione. Da ascoltatore mattutino della radio, ho captato ieri un’intervista di Gigi Agnolin sulle scuole calcio. Lui diceva: "L’educazione sportiva noi la insegniamo". Poi è intervenuta una signora: "Io ho ritirato mio figlio per disperazione. Non tolleravo certe mamme che sbraitavano contro l’arbitro, l’allenatore, gli avversari". Così molti ragazzi si perdono. E non si sa dove vanno a finire. Ma sì, portate nelle scuole la signora Marisa.

9 febbraio 2007

Fonte: La Gazzetta dello Sport

© Fotografia:

Rosaria Schifani: "Incontrerò Marisa Raciti"

di Francesco Caruso

La vedova dell’agente ucciso nell’attentato a Falcone: "Mi sento molto vicina alla famiglia dell’ispettore di Catania".

L’assassinio di Filippo Raciti, il dolore accorato e dignitoso della moglie Marisa hanno riaperto una cicatrice dura da rimarginare, un capitolo angoscioso della vita di Rosaria Costa, la vedova dell’agente di polizia Vito Schifani morto nella strage di Capaci nel quale persero la vita anche Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli altri agenti della scorta. Era il maggio del 1992. Pochi mesi dopo toccò al magistrato Paolo Borsellino. Ma nella memoria di tutt' Italia è rimasto indelebile il ricordo dell’accorato appello di Rosaria Schifani ai funerali di Stato. Un grido di dolore, non compassionevole nei confronti degli assassini del marito, ai quali quella ragazza spaurita era pronta a concedere il suo perdono purché s' inginocchiassero per chiedere scusa. VIA DA PALERMO - Le parole della vedova Raciti hanno fatto riaffacciare nella mente di molti quel pianto senza conforto di 15 anni fa. Donne diverse ma ugualmente struggenti. La vita ha indurito la scorza ma non il cuore di questa palermitana che oggi è coetanea guarda caso dell’altra siciliana, Marisa Raciti. Da molto tempo ormai ha lasciato la sua terra, forse per rimarginare le ferite: "Ci torno una volta l’anno, ma non per Natale, per me le feste non esistono più, le ho cancellate dal mio calendario. Persino dal Giappone son venuti a cercarmi. Ma io credo che tutte le morti siano uguali, tutti i dolori strazianti e bisognevoli di conforto e cure. Una volta venne a trovarmi la moglie di un poliziotto della stradale rimasto anche lui vittima durante il suo lavoro e mi chiese come mai lei era rimasta sola, nell’indifferenza di tutti. Domande a cui non seppi dare risposte". VICINANZA - Rosaria ha seguito in tv i funerali di Filippo Raciti, ucciso allo stadio Cibali di Catania il 2 febbraio, e si è commossa, ha pianto e si è immedesimata nella sua coetanea Marisa: "Ho patito insieme a lei. Mi sento molto vicina a quella famiglia. Fra qualche tempo vorrei mettermi in contatto con la signora Raciti perché so quanto sia utile in questi frangenti sentire il calore e la solidarietà del nostro prossimo, soprattutto quando il tempo tende a ricacciare tutto nel dimenticatoio. Dopo qualche tempo ci si ritrova soli, come è stato nel mio caso. Ed è a quel punto che bisogna cominciare a fare i conti con un’altra realtà. Con un altro modo di vivere. Spero che non li abbandonino. La signora Raciti mi sembra comunque una donna matura e forte, sono fiduciosa che riuscirà a venirne fuori con coraggio". LIBRI - Rosaria ha anche scritto un paio di libri insieme a Felice Cavallaro, il primo "Vi perdono ma inginocchiatevi" è stato forse l’elaborazione del suo lutto: "È stato soprattutto un modo per cercare di raccontare la mia Sicilia. Purtroppo però credo che sia cambiato poco. Ma la mia speranza è immutata, il mio auspicio è lo stesso: continuo a confidare nel cambiamento, in una trasformazione delle coscienze degli uomini".

16 febbraio 2007

Fonte: La Gazzetta dello Sport

© Fotografia: Livesicilia.it

Hanno ucciso mio marito dovrei usare i carri armati ?

di Massimo Norrito

Signora Raciti, domenica sarà in tribuna al "Massimino". Ha chiesto e ottenuto che venga osservato un minuto di raccoglimento in memoria di suo marito.

"Credo sia una forma di rispetto. Di memoria e di civiltà proprio nel giorno in cui lo stadio di Catania riapre dopo la morte di mio marito. Un giusto riconoscimento per chi ha dato la vita. Un minuto di silenzio non è nulla nel contesto di una partita, ma per la mia famiglia e per il ricordo di mio marito significa tanto".

Per Catania sarà un giorno di festa. Lei come lo vivrà ? "Nel dolore, come questi ultimi sette mesi. Per la città sarà un momento di gioia, ma è giusto che sia ricordato anche quel che è successo. Perché non accada più".

Perché ha deciso di andare nello stadio in cui suo marito ha trovato la morte ? "Devo farlo. Voglio vedere con i miei occhi se è cambiato qualcosa".

Ma questa voglia di cambiare l’ha vista nel mondo del calcio ? "Sarà la tifoseria con il suo comportamento a rispondere, anche se dopo il calcio dell’allenatore del Catania i segnali mi sembrano diversi".

Di quel calcio hanno parlato in tanti, lei come lo giudica ? "Come si fa a rispondere con un gesto violento a un insulto ? A me hanno rubato la vita di mio marito. Cosa avrei dovuto fare ? Sarei dovuta andare in giro con un carro armato e uccidere tutti quanti ?".

Invece lei come ha deciso di rispondere ? "A tanta inciviltà bisogna rispondere con la civiltà, la saggezza e il dialogo. Io non cerco vendette".

Baldini ha detto di avere sbagliato proprio perché è l’allenatore del Catania. "Ha sbagliato in quanto allenatore e basta. In più c’è l’aggravante che di Catania è stata data un’immagine distorta in tutto il mondo. Per colpa di alcuni balordi si è dimenticata la gente perbene e civile di questa città. Si è dimenticato che tra questi c’era anche mio marito. Che Filippo era catanese".

Come giudica le misure anti violenza prese subito dopo la morte di suo marito ? "Mi fanno considerare l’Italia un paese da terzo mondo. In un paese civile è inammissibile un tale grado di repressione per garantire la sicurezza. Sono il sintomo d’ignoranza e inciviltà. La costituzione garantisce i diritti di tutti i cittadini. Non solo degli abbonati. Questi diritti non sono stati garantiti a mio marito e a chi indossa la divisa".

Domenica con chi andrà allo stadio ? "Riporterò al "Massimino" mio suocero che è un appassionato di calcio. Io invece questo sport non lo seguivo. È un mondo nel quale sono stata coinvolta nel modo peggiore possibile".

Porterà anche i suoi figli ? "No. È già un trauma per me e mio suocero. Mio figlio l’8 settembre compirà gli anni. Sarà il primo compleanno senza suo padre. Diventerà adolescente e poi uomo senza avere il padre al fianco. Per cosa poi ? Suo padre è morto per niente e non si può morire per niente. Non è giusto".

29 agosto 2007

Fonte: La Repubblica

© Fotografia: Lasicilia.it

Raciti: "Quelle magliette oltraggio a mio padre,

non ce la faccio più, vado via dall'Italia"

di Giorgia Mosca

Parla la figlia dell'agente ucciso a Catania nel 2007: "In questi giorni ho pianto a dirotto, per me si è riaperta una ferita profonda".

CATANIA - "SPERO solamente che la tua morte spinga la società a cambiare, perché tu sei un eroe". Di Fabiana Raciti tanti ricordano queste parole commosse dedicate al papà Filippo nel Duomo di Catania sette anni fa, il giorno dei funerali dell'ispettore ucciso durante gli scontri del derby Catania-Palermo. Allora Fabiana aveva 15 anni e voleva smettere di mangiare, di bere. Ma è andata avanti. Oggi tutto ricomincia. L'oltraggio e il dolore. Piange ripensando a quella maglietta con la scritta "Speziale libero": "Sono indignata, sotto shock. Voglio andar via dall'Italia. Ho sopportato troppo in questo Paese".

Fabiana, che cosa ha pensato dell'Italia in questi giorni ? "Da figlia è terribile leggere su una maglietta il nome di chi ha ucciso tuo padre. Me lo hanno tolto quando avevo appena quindici anni. Le magliette sono l'ultimo sfregio: uno sfregio a un grande uomo, un grande padre, un grande marito. Questo è uno schiaffo morale alla mia famiglia, quelle magliette vogliono difendere un assassino e offendere chi crede nella giustizia. Non lo posso tollerare, ho pianto molto in questi giorni, si è riaperta una ferita profonda. Ho pensato anche a questo ragazzo, Ciro, alla sua famiglia, all'ennesima tragedia in nome di una partita. Perché io ho voglia di libertà, desiderio di felicità e soprattutto di sicurezza, ma tutto questo l'Italia non me lo permette più. Qui tutto peggiora di giorno in giorno e non vorrei far crescere i miei figli in un ambiente del genere: sogno un posto dove le regole vengano rispettate".

Quelle magliette sono un'umiliazione alla memoria di suo padre. Come ha vissuto quel che è successo l'altra sera fuori e dentro l'Olimpico ? "Gli spari prima della finale di Coppa Italia mi hanno fatto pensare ad un altro poliziotto vittima di una partita di calcio. Io non dimentico mio padre, naturalmente, e mai lo dimenticherò ma avevo messo da parte quelle emozioni insopportabili. L'altra sera il dolore è tornato come allora: non riesci a scacciare i fantasmi. Non ho dormito, non ce l'ho fatta. I ricordi sono riaffiorati, tutti in una volta, tutti insieme, fino a farmi disperare. Perché i ricordi, purtroppo, sono tanti. I dolori per la mia famiglia non sono finiti quella sera allo stadio Massimino, ma sono continuati per anni. Abbiamo subito di tutto".

A cosa si riferisce ? "C'è stato, ed evidentemente c'è ancora, un accanimento nei confronti della mia famiglia che non riesco a spiegarmi. Quando papà è morto io andavo al liceo e ho ricevuto intimidazioni tremende: dei ragazzini del gruppo Acab scrissero davanti alla mia classe "Raciti al rogo". E all'Università di Catania purtroppo non è stato diverso: un gruppo di ultrà mi ha preso a pugni la macchina. Mi sono sentita sola. Noi non siamo certo colpevoli di niente, abbiamo solo subito un dramma che non auguro a nessuno. E siamo stati doppiamente torturati".

Sono passati sette anni dall'omicidio ma sembra che per voi il tempo si sia fermato. "Sì, è da quella sera del 2 febbraio che continuo a chiedermi "perché ?". Ero davanti alla tv, in cucina: volevo vedere mio padre, sapevo che era lì e speravo che lo inquadrassero, e invece ho scoperto che era morto. Non provavo rabbia, ero incredula e nella testa avevo solo quel disperato "perché". Si può morire per una partita di calcio ? Si può uccidere per una partita di calcio ? Io sono cresciuta senza un papà, non vado più allo stadio e vedo mio fratello orfano come me. La mia famiglia è stata distrutta e io sono cresciuta prima del tempo".

Com'è cambiata la vita da quel giorno ? "Non ho più pensato a divertirmi, anche se avevo quindici anni, ma solo a stare vicino a mia madre e a mio fratello, perché avevano bisogno di me. Le feste, i concerti, i momenti di svago con gli amici non avevano più lo stesso significato e la mia infanzia è svanita così nel nulla, per una partita di calcio. Poi il tempo mi ha aiutato, mi ha dato forza e mi ha trasmesso la voglia di cambiare le cose. Ho pensato che era importante dare dei messaggi belli ai più piccoli, che a volte non si rendono conto di quello che fanno. Lo sport dovrebbe trasmettere sentimenti di gioia non di violenza".

Cosa direbbe agli ultrà che vanno in giro con la maglietta "Speziale libero" ? "Non ho niente da dire, davvero. Offendere è sintomo di rabbia e io non provo rabbia ma solo indignazione. Li guarderei in silenzio perché non meritano nemmeno di sentire la mia voce. Penso che lo Stato dovrebbe educare i suoi cittadini come fa un buon padre di famiglia con i propri figli, ma questo non avviene. Lo sport è allegria, valori, passione positiva. Ma spesso le cose non vengono vissute così. Purtroppo i ragazzi trovano nello sport uno sfogo alle proprie frustrazioni, ai propri fallimenti interiori, alla repressione che pensano di subire. Forse succede perché non hanno famiglie veramente forti che li sostengono. Quelle magliette sono una sconfitta anche per gli onesti, dovremmo ribellarci tutti e non soccombere stando in silenzio. L'arma più efficace è la parola, mai la mano violenta".

7 maggio 2014

Fonte: Repubblica.it

© Fotografia: Laspia.it

Il caso Speziale a tredici anni dalla morte di Filippo Raciti

di Domenico Rocca

Ricorre oggi l'anniversario di una tragedia dai tratti oscuri.

Nella fredda serata del 2 febbraio 2007 va in scena allo Stadio Massimino l’infuocato derby di Serie A tra Catania e Palermo, catalogate dalla questura alla voce partite ad alto rischio. Durante gli scontri avvenuti nel post-partita all’esterno dell’impianto perde la vita l’Ispettore di Polizia Filippo Raciti. Secondo la ricostruzione dei fatti, riportata dalla tesi della procura, è il diciassettenne Antonino Speziale che, utilizzando un sopra-lavello a mo’ d’ariete, uccide il funzionario di Polizia in servizio. La vicenda, però, già nelle ore successive, inizia a suscitare qualche perplessità, specie riguardo alle dinamiche. Dubbi legittimi che nel corso dell’iter processuale si moltiplicano, attorniando la vicenda di testimonianze ritrattate, giudizi capovolti e molta disinformazione da parte dei mass media. Il caso è tutt’altro che chiaro. Lo scrittore Simone Nastasi ne parla accuratamente nel libro Il caso Speziale. L’autore, attraverso lo studio degli atti processuali, evidenzia le molte incongruenze giungendo, in fine, alla postulazione di una domanda fondamentale: Verità giudiziaria e verità storica possono coincidere ? Tra le anomalie del caso, la più eclatante sembra proprio quella legata alle dinamiche dell’incidente. È proprio un collega di Raciti, Salvatore Lazzaro, in un primo accertamento, a dichiarare che il poliziotto, muovendosi in retromarcia nei concitati momenti degli scontri fuori dallo Stadio, sente un brusco colpo nella parte retrostante del veicolo e vide l’Ispettore recarsi le mani al capo dolorante. Per l’accusa è il giovane Speziale, insieme al complice Daniele Micale, ad aver preterintenzionalmente sferrato il colpo che stroncherà la vita, due ore dopo in ospedale, a Filippo Raciti. Nella successiva perizia richiesta dal GIP Alessandra Chierego al RIS di Parma, però, emerge come il trauma riportato nello sviluppo dell’incidente da parte dell’agente non risulti idoneo con la tesi del sotto-lavello. La tesi della difesa apre quindi ad un’ipotesi amica, che vedrebbe l’agente vittima di un tragico e fatale errore. Se non fosse che poco dopo lo stesso Salvatore Lazzaro, dinnanzi alla Magistratura si allontanerà dalla versione riportata ai suoi colleghi, allungando un processo durato sino al Novembre 2012, quando la cassazione si pronuncerà definitivamente nei confronti di Speziale e Micale condannandoli rispettivamente a 9 e 11 anni.

Paradossalmente, a Micale vengono inflitti 2 anni di reclusione in più di quello che, sempre secondo l’accusa, è l’esecutore materiale dell’omicidio. Qualche mese fa è apparso all’esterno dello stadio Renzo Barbera di Palermo uno striscione di vicinanza nei confronti di Antonino Speziale. Sono seguiti una serie di piccoli manifesti attaccati alle vie del centro storico di Palermo, da parte del centro sociale Anomalia, che invitavano gli interessati a partecipare ad un dibattito dal titolo storia di un’ingiusta detenzione. In entrambi i casi le forze dell’ordine, guidate dalla Digos, hanno rimosso il vario materiale ed ostacolato notevolmente le iniziative organizzate. Non è facile, quindi, comprendere questo atteggiamento da parte delle autorità - nonché delle istituzioni - nel reprimere totalmente ogni tentativo, da parte della sfera civile, di intraprendere un’analisi critica ed oggettiva nei confronti della vicenda. Sarà forse per questo che, quando si tratta il caso Speziale, in molti giornalisti subentra quasi il timore di esprimere apertamente le contraddizioni e le criticità di un iter giudiziario complesso e travagliato. "I giornalisti che si sono voluti occupare di questo caso sono stati trattati da "eretici". Come se appunto questo caso non andasse trattato per principio. Ma basta leggersi le carte del processo per capire che gli elementi di discussione ci sono eccome" (Simone Nastasi). Il mondo ultras si è sin da subito interessato alla vicenda, garantendo supporto ed evidenziando in più occasioni - attraverso eventi, pubblicazioni e manifestazioni - una totale vicinanza alle sorti di Antonino, nonché il desiderio di fare chiarezza sull’episodio. Secondo il parere del prima citato, Simone Nastasi: "Il fatto che a interessarsi del caso sia stato soltanto il cosiddetto "mondo ultras" ha ridotto la vicenda a una posizione di parte. Gli ultras - continua Nastasi - si sono limitati a dare risalto ad elementi che mettevano in discussione la sentenza, che la stampa non ha voluto prendere nella giusta considerazione. E mi riferisco ai passaggi della vicenda che invece sarebbero dovuti essere raccontati per dovere di cronaca. Le difficoltà sono arrivate proprio dal carattere mediatico assunto dal processo. Una costante nella storia giudiziaria del nostro Paese, un difetto che andrebbe corretto nella tutela delle persone coinvolte. Ritengo, a mio modesto avviso, che delle vicende giudiziarie, quando sono ancora in corso, bisognerebbe parlarne con maggiore equilibrio". Il caso Speziale non è ovviamente paragonabile a quello di Aldrovandi, di Sandri, di Cucchi, e per una semplice ragione: mentre queste sono vittime, uccise dalle forze dell’ordine, quello è stato l’omicida di una delle forze dell’ordine presenti quella sera al Massimino. E se le oscurità rimangono tantissime, al momento non possiamo che affidarci alla conferma della cassazione.

2 febbraio 2020

Fonte: Rivistacontrasti.it

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