Privacy Policy Cookie Policy
Reduci Heysel L
www.saladellamemoriaheysel.it   Sala della Memoria Heysel   Museo Virtuale Multimediale
Testimonianze Reduci Heysel (L)
   Reduci Heysel     Testimonianze     Audio-Video     Fotografie     Stampa e Web     Interviste   

ITALO LAI

QUEL TRAGICO GIORNO... Il racconto di Italo Lai

di Tommaso Mitraglia

LANUSEI - Ventinove Maggio 1985, Bruxelles, stadio dell’Heysel. Si gioca la partita LIVERPOOL-JUVENTUS, finale di Coppa dei Campioni. Ma più come un incontro di calcio è un massacro al termine del quale si conteranno 39 morti, quasi tutti italiani. Le televisioni di mezzo mondo trasmettono immagini di inaudita violenza, che con lo sport hanno nulla a che fare. Quel tragico giorno tra il pubblico ci sono anche due tifosi ogliastrini, Italo Lai di Lanusei e Salvatore Ferli di Tortoli, che sperano di divertirsi assistendo alle prodezze della Vecchia Signora e invece si trovano a rischiare la propria vita contro i terribili hooligans inglesi. A 17 anni di distanza i ricordi sono sempre nitidi e la paura non è ancora passata. Italo Lai che ora ha 46 anni e di professione fa il macellaio, si considera un sopravvissuto. "Avevamo il biglietto per le Tribune dice frugando nella memoria, e invece allo stadio ci dissero che non c’era più posto e che dovevamo andare in curva, settore Z, proprio dove si trovavano i tifosi del Liverpool. Noi italiani potevamo essere al massimo duemila, tra cui, anche anziani, donne e bambini, mentre gli inglesi erano più del doppio e tutti giovani.  A separarci c’era una rete metallica alta appena un metro". I due ogliastrini si resero conto subito che si trattava di una trappola, e che stava per succedere qualcosa di brutto. I segnali erano evidenti, ma le autorità belghe li sottovalutarono. "Tre ore prima del fischio d’inizio, gli inglesi avevano fatto a pezzi i sedili in cemento ricavandone dei sassi. Molti avevano bastoni e coltelli e ci attaccarono con l’intenzione di uccidere.  Io e il mio amico insieme ad un suo cugino di Milano ci trovammo coinvolti negli scontri. Salvatore fu colpito e rischiò di perdere i sensi. Anche io avevo la camicia piena di sangue. L’unica salvezza era saltare il muro e scendere in campo. Cosi facemmo, anche se la parte laterale del muro crollò. E in campo la polizia invece di proteggerci ci respingeva a manganellate. "Malconci e spaventati, i due ogliastrini riuscirono però a mettersi in salvo in Tribuna.  "Ma il cugino si era perso e temevamo che fosse morto. A fine partita esaminavamo i cadaveri uno per uno sollevando i teli che li coprivano. Per fortuna non c’era, dunque era vivo. Più tardi infatti lo ritrovammo. Venne l’esercito con i carri armati e ci scortò all’aeroporto. "Che insegnamento trarre da una esperienza così tragica ? Italo Lai  non ha dubbi: "io sono e resterò sempre tifoso della Juve, ma allo stadio non sono più tornato. I miei figli tutti juventini, mi chiedono di portarli ma io mi rifiuto. Le partite le guardiamo alla TV, non si può rischiare di morire per assistere ad un incontro di calcio. Anche perché oggi la situazione non è affatto migliorata". Difficile dopo quello che ha passato dargli torto. (Fonte: La Nuova Sardegna Sassari)

17 agosto 2017

Fonte: Comitato Per Non Dimenticare Heysel Reggio Emilia

A-Z

PASQUALE LARA

Quel tragico 29 maggio

Nel 1985, per la terza volta consecutiva, dopo quelle di Atene e Basilea, la Juventus conquistò il diritto a disputare una finale europea. Il 29 maggio com’ è tristemente noto, allo stadio HEYSEL di BRUXELLES, contro il Liverpool, si svolse l’atto conclusivo della Coppa dei Campioni. Come nei precedenti, anche quell’anno riuscimmo ad organizzare un piccolo gruppo familiare formato, nell’occasione, da cinque persone, per seguire dal vivo la squadra nella sua avventura sportiva. Raggiungemmo in auto la capitale belga la sera prima della partita, e la mattina seguente, come sempre in questi casi, fu dedicata alla visita della città. Per la verità, gli incontri del tutto pacifici con gruppi di tifosi inglesi, in nessun modo lasciavano presagire il tragico epilogo di quella giornata. Dopo un’attesa divenuta sempre più spasmodica, giunse finalmente il momento di avviarci allo stadio, che decidemmo di raggiungere in taxi. Una leggera inquietudine che, si insinuò in noi, per le parole del tassista che raccontavano di devastazioni ad opera dei supporters inglesi in diversi punti della città, trovò conferma e si accrebbe una volta giunti nei pressi del campo. Infatti, sulle grandi aiuole antistanti l’HEYSEL, era srotolato un disgustoso tappeto di maglie rosse, che dormivano o impunemente bivaccavano, in stato di evidente ubriachezza, tra montagne di bottiglie e lattine. Ancora oggi, mi chiedo perché chi doveva, nulla ha fatto per impedire tali comportamenti a quegli animali senza controllo. Dopo diverse scene raccapriccianti, che per un momento ci fecero pensare di rinunciare e tornarcene in albergo, ci avviammo verso l’ingresso del nostro settore contraddistinto dalla lettera ZETA, e divenuto poi tristemente famoso. Fummo attorniati da un gruppo d’ invasati che, cantilenando, con voce lamentosa ed impastata: Liverpool - Liverpool, si accostavano, provocatoriamente, sempre di più. Senza reagire, seppur faticosamente, riuscimmo ad entrare, e ci ritrovammo in una struttura fatiscente e priva di qualsiasi elementare sistema di sicurezza, che solo la folle sciaguratezza dell’UEFA poteva destinare a un incontro tanto importante. La presenza però di spettatori costituita essenzialmente da italiani residenti in Belgio o da gruppi familiari come il nostro, ci fece riacquistare in breve una relativa serenità. Ricordo come se fosse oggi, tre ragazze vestite rispettivamente solo di BIANCO, ROSSO e VERDE, e rivedo il familiarizzare di mio nipote, con un ragazzino coetaneo, che come lui viveva la trepida attesa di vedere all’opera i propri beniamini. Mancava ancora qualche ora all’inizio, e sembrava che tutto volgesse per il meglio. All’improvviso però l’atmosfera cambia. Urla, simili a quelle di bestie inferocite, precedono l’ingresso degli hooligans, che, dopo aver forzato il varco d’ingresso, invadono il settore Y adiacente al nostro. Indemoniati e tirando di tutto avanzano verso di noi, che istintivamente e irrazionalmente, arretriamo sempre di più verso il muro di chiusura del settore. Il lancio d’ oggetti diviene sempre più fitto, e noi sempre più pressati e spaventati. Una persona a me vicina viene colpita, e il suo sangue mi ricopre gli occhiali e parte del viso. Resto incastrato e non riesco a muovermi. La spinta al pari della paura diventa sempre maggiore. Alle grida selvagge di chi attacca si sovrappongono le implorazioni di aiuto, di noi che arretriamo. Un gruppo di spettatori tenta disperatamente di aprire una via di fuga, cercando di abbattere la rete che divide il settore dal campo. Viene, però brutalmente respinto dalle manganellate dei soli tre poliziotti, messi colpevolmente a presidiare l’intera curva. Impazzite dal terrore, alcune persone, nel tentativo di salvarsi si lanciano dal muro, contro cui oramai siamo irrimediabilmente schiacciati. Pianti, disperazione, urla, urla e ancora urla. Poi il PANICO ! Crolla il muro e cade la rete, l’effetto è simile a quello del vapore che schizza da una valvola di sicurezza. Veniamo di colpo catapultati in avanti. Non sono più padrone delle mie gambe, e letteralmente sollevato in aria, ma per fortuna senza cadere, passo sopra un groviglio di corpi da cui emergono braccia protese in una tragica richiesta di aiuto. Mi ritrovo come altri a correre sul terreno di gioco. Quando le forze dell’ordine intervengono per fermare la furia selvaggia degli inglesi, è oramai TROPPO TARDI. Momenti di altissima tensione accompagnano il tentativo d’invasione della curva opposta, occupata dai club bianconeri. Fortunatamente i poliziotti, in questo caso in numero sufficiente, riescono a fronteggiare la situazione, che rischia di trasformarsi in un ulteriore massacro. Purtroppo però dei miei congiunti non ho tracce. Un agente vedendo il sangue sul mio viso, vuole farmi trasferire in ospedale, e pur nella concitazione, riesco a spiegargli che non è il mio sangue.  Attraverso gli spogliatoi, e mi ritrovo all’esterno, in un’atmosfera allucinante, dove comincia la seconda parte del dramma. CAOS TOTALE. Persone come impazzite corrono piangendo. Sirene, grida concitate, autoblindo, militari in assetto antisommossa, mezzi di soccorso, polizia a cavallo, C’è tutto quel che però SERVIVA PRIMA ! Il quadro è a dir poco agghiacciante. Sulla strada, una fila di corpi ormai senza vita, accanto a cumuli di scarpe e borse. In ordine sparso molti feriti, cui si tenta di dare i primi soccorsi, tra questi per fortuna, ritrovo subito, due del mio gruppo, appena prima che vengano trasferiti sulle ambulanze. Mancano all’appello però mio fratello e mio nipote dodicenne. Sono, costretto a guardare tra i cadaveri, con il timore sempre crescente di un drammatico ritrovamento. Uomini, bambini, donne. Ho negli occhi i visi orribilmente congestionati, di una ragazza senza vita, completamente vestita di BIANCO (una delle tre che rappresentavano i colori della nostra bandiera) e di un ragazzino, con intorno al collo il filo spinato, che lo ha irrimediabilmente strangolato, e che solo qualche minuto prima discuteva di Scirea e Platini con mio nipote. Rivedo un uomo accasciato sul figlio, che singhiozzando, si chiede perché non è toccato a lui. La mia ricerca, in questo sconvolgente contesto, risulta vana e incompleta, in quanto, dopo poco vengo allontanato, poiché si devono spostare le salme nelle tende militari, prontamente approntate, e che sempre in questi casi sono simbolo di tragedia.

I taxi e i mezzi pubblici sono stati nel frattempo requisiti, così mi trovo a vagare senza alcun tipo di riferimento per posti sconosciuti e per un tempo che pare interminabile. Ponendomi in maniera ossessiva sempre la stessa domanda: PERCHE’, PERCHE’, PERCHE’. Quando lo sconforto sembra aver preso definitivamente il sopravvento, il destino mi fa incontrare un agente d’origine italiana, che comprendendo il mio dramma, mi fa condurre presso l’ ospedale dove hanno trasportato i primi feriti. Nella sala d’attesa scorgo, subito mio fratello, che si trova lì perché dopo aver ricondotto in albergo il figlio, ha intrapreso le mie stesse ricerche. Lascio a Voi immaginare cosa siano stati quei momenti, io ricordo solo che i medici furono costretti in qualche modo a sedarmi. Per una serie di fortunate circostanze, il nostro gruppo riesce a riunirsi completamente solo intorno alle 23. Trascorsero infatti diverse ore tra il ritrovamento della quarta persona che, rintracciammo quasi subito, e il momento in cui avvenne un altro piccolo miracolo fra i tanti di cui beneficiammo in quel giorno maledetto. Altra immagine vivida, inserita nel contesto di una grande tragedia, perché di ritorno in albergo dopo un’infruttuosa e angosciante ricerca in tutti gli ospedali. Insieme al nostro taxi, ne giunse un altro da cui, incredibilmente, vedemmo scendere a fatica, un uomo con il volto stravolto e tumefatto e con intorno ai piedi delle buste di plastica al posto delle scarpe, perse irrimediabilmente e per fortuna solo quelle, all’ HEYSEL. L’ultimo nostro congiunto mancante all’appello. Finalmente eravamo di nuovo tutti insieme. Solo in quel momento comunicammo a casa di far parte dell’elenco dei fortunati, seppur con il bilancio di due feriti, che ebbero comunque strascichi di mesi, ma che avevano rifiutato il ricovero, per riunirsi subito con noi e essere curati successivamente in Italia. Ancora oggi, tutti i particolari di quei tragici avvenimenti sono vivi nella mia mente, e anche se a cinque anni di distanza ho fatto ritorno in uno stadio, Vi assicuro che niente è come prima. Quando poi i miei ragazzi si organizzano per assistere ad una partita della loro JUVE, devo confessarvi che solo il loro ritorno, mi fa ritrovare la completa tranquillità. Potevo indubbiamente anche con parole importanti, commemorare in altro modo la tragedia dell’HEYSEL. Ho, ritenuto però più opportuno, il tentativo anche con inevitabili riferimenti personali, di cui mi scuso, di rivivere con Voi le terribili emozioni di venticinque anni fa. Una maniera a mio avviso più giusta di tenere doverosamente vivo il ricordo di quelle 39 vittime, causate principalmente dalla criminale superficialità dell’ UEFA e dalla colpevole negligenza delle autorità Belghe. Tutti conoscevano le caratteristiche di chi fuori dei propri confini può essere controllato solo come fa un domatore con le bestie. In conclusione vorrei, solo per un momento, affrontare l’argomento che tanti dibattiti ha provocato e che ancora oggi talvolta è riproposto. Se cioè sia stato giusto tenere quella coppa. Posso assicurarvi che per chi ha vissuto quei momenti terribili, tale argomento è completamente privo di qualsiasi rilevanza. Personalmente lascio questa polemica a chi vuole approfittare, anche di quei morti, per mettere in cattiva luce la nostra JUVENTUS. Questi signori insieme con quelli che nulla fecero per evitare una simile catastrofe, ritengo abbiano il dovere di porre più di una domanda alla propria coscienza.

30 maggio 2010

Fonte: Juvenews.net

A-Z

 

PIERO LASTELLA

La testimonianza di un tifoso coratino

A 25 anni dalla tragedia dello stadio Heysel

di Vincenzo Pastore

E’ ormai passata una generazione da quel maledetto 29 Maggio 1985. Bruxelles, stadio Heysel, finale di Coppa dei Campioni, Juventus e Liverpool si contendono il massimo trofeo continentale. Quello che succederà prima della partita è tristemente noto: 39 persone morte, in gran parte tifosi della Juventus. Quando il calcio, e lo sport in generale, si trasformano in tragedia. Un triste rituale al quale assistiamo inermi da troppi decenni e che ha conosciuto una delle pagine più drammatiche esattamente venticinque anni fa. E’ ormai passata una generazione da quel maledetto 29 Maggio 1985. Bruxelles, stadio Heysel, finale di Coppa dei Campioni, Juventus e Liverpool si contendono il massimo trofeo continentale. Mentre gli inglesi hanno già messo nel loro carniere quattro vittorie in quella manifestazione, per la Juventus quella Coppa è diventata una vera e propria ossessione. E’ il tassello mancante di un palmares ormai completo in tutte le competizioni: due finali disputate fino a quel momento entrambe perse, con l’Ajax nel 1973 e con l’Amburgo ad Atene nel 1983. Una squadra ormai arrivata all’apice del suo ciclo strepitoso di vittorie, con Trapattoni in panchina. E’ la Juve di Platini e Boniek, Scirea e Tardelli, Cabrini e Paolo Rossi. Quello che succederà prima della partita è tristemente noto: 39 persone morte, in gran parte tifosi della Juventus. Pochi sanno però che quella sera a Bruxelles c’erano anche due coratini: il compianto Franco Ventura e Piero Lastella, storico custode del palazzetto dello sport di Corato. Ed è stato proprio Piero a parlarci di quella sera, con l’emozione ancora padrona del suo racconto. "Sono sempre stato un grande tifoso della Juve - esordisce Piero Lastella. Sono stato tante volte allo stadio Comunale di Torino, lì ho visto la mia prima partita della Juve contro l’Inter a sedici anni. Poi sono andato a Basilea, nel 1984, finale di Coppa delle Coppe contro il Porto. L’anno prima ad Atene, nella sfortunata finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo. Era una squadra fortissima, ma non riusciva a vincere la Coppa più importante. Ecco perché decisi di andare a Bruxelles nel 1985. Era un viaggio organizzato, mi costò in totale 450.000 lire". Piero poi passa al racconto di quella giornata. "Atterrai a Bruxelles nel pomeriggio del 29 Maggio, in aereo avevo trovato altri tifosi bianconeri. Verso le 18 arrivammo allo stadio e incontrai Franco Ventura. Cercai di entrare in tribuna centrale con Franco, ma non potetti farlo perché avevo il biglietto nel settore Z. Mi diressi allora verso quel settore dello stadio e iniziai a notare alcune cose strane. L’ingresso era strettissimo, i tifosi inglesi, ubriachi, ci accoglievano con lanci di bottiglie, lattine di birra. Si sentiva nell’aria che qualcosa sarebbe successo da un momento all’altro. Gli incidenti iniziarono quando le squadre entrarono in campo: i tifosi del Liverpool continuavano a lanciarci tutto ciò che raccoglievano da terra. Le protezioni per separare il nostro settore da quello inglese erano ridottissime, e gli hooligans riuscivano facilmente a scavalcarle. Chiamai la polizia, ma ci rassicurarono". La calca era sempre più pressante, la situazione precipitò velocemente. "Dopo circa dieci minuti - continua Lastella - successe il finimondo. Allora scavalcai la rete metallica che separava gli spalti dal campo: la mia salvezza fu che inizialmente mi trovai in posizione più elevata rispetto agli altri tifosi. C’era tuttavia una ragazza che mi chiedeva aiuto. Tornai indietro ma dopo qualche minuto crollò il muro. Riuscimmo in ogni modo a salvarci mentre arrivavano i primi soccorsi. Eravamo venuti per assistere a una partita, ci ritrovammo in una guerra. Assieme ad altre persone ci recammo in infermeria per medicarci. Poi in sala stampa, lì seguimmo la partita da un televisore. Si sapeva che c’erano stati dei morti, io stesso ne vidi molti coperti da un telo; la mia unica preoccupazione era tornare in Italia". Un aspetto drammatico vissuto in quegli attimi fu l’impossibilità di avvisare i propri cari per tranquillizzarli. "Fu esattamente così - conferma Piero - in Belgio non riuscii a mettermi in contatto con la mia famiglia. Nel dopogara, all’esterno dello stadio, proseguirono gli incidenti con i tifosi inglesi. Dopo tante traversie prendemmo il pullman verso mezzanotte che ci accompagnò in Francia, per evitare che venissimo ancora a contatto con quelli del Liverpool. Tornai finalmente in Italia alle ore 11 del 30 Maggio e chiamai subito la mia famiglia. Credo comunque che la decisione di giocare la partita sia stata quella più giusta. In questo modo sono state salvate tante altre vite". Un tragedia che dopo tanti anni resta fermamente impressa nella sua mente. "Non vedo con piacere le immagini di quel giorno - conclude Piero Lastella. Anzi, cerco sempre di evitarle, come qualche settimana fa con "La storia siamo noi" su Raidue. Certo qualcosa è cambiato in me dopo quella partita ma resto tuttora innamorato della Juventus".

31 maggio 2010

Fonte: Coratolive.it

A-Z

DOMENICO LAZZARETTO

Io, testimone della mattanza dell'Heysel

29 maggio 1985. Vent'anni fa esatti. Ero lì come tantissimi altri, juventini e non, a Bruxelles per prendere parte a una grande festa di sport: la finalissima della Coppa di Campioni. Sono ritornato letteralmente sconvolto dall'orrore e confesso che per qualche tempo mi sono quasi sentito in colpa per non aver fatto nulla perché la tragedia dell'Heysel potesse essere evitata. Per lungo tempo mi sono ronzate le urla di disperazione che giungevano da quella maledetta "curva Z" dello stadio Heysel, dove il terrore aveva spinto decine e decine di persone a cercare salvezza calpestando chiunque incontrassero nella disperata fuga, ostacolate da una sparuta presenza di impotenti poliziotti belgi. Ad inseguirli un'orda di barbari, gli hooligans, eccitati dall'odio e in preda all'alcol: chi lanciava bottiglie, chi brandiva spranghe di ferro, chi scagliava mattoni e sassi. Immagini indelebili. Un fuggi fuggi che ha tramutato la festa in un eccidio senza precedenti in uno stadio obsoleto della civile Europa. Una mattanza che ho ancora negli occhi, incapace di esprimere, allora come adesso, la mia mortificazione di sportivo che per molto tempo si è rifiutato di entrare in uno stadio: un blocco psicologico che con il trascorrere del tempo sono riuscito a superare pungolato dal mio lavoro. Nella tragedia dell'Heysel si gioca la partita come nulla fosse. E mentre Boniek cade in area e Platini realizza il rigore, la radio annuncia i primi nomi dei morti.  Ad angoscia si aggiunge angoscia, perché due di loro, Amedeo Spolaore e Mario Ronchi, sono di Bassano. Sono rimasti schiacciati dalle transenne in cemento che facevano da base alle reti di recinzione travolte nel momento della grande fuga. Tanti i bassanesi che ricordano pezzi di quella giornata irreale. La testimonianza del pasticcere Danilo Tassotti dà la misura del dramma: "Guardando scioccato fra tanta confusione, tra urla di disperazione dei feriti e le invocazioni dei moltissimi alla ricerca di un amico o di un proprio caro, il mio sguardo s'imbatté su Mario Ronchi. L'ho immediatamente riconosciuto dal maglione a rombi colorati. Quando l'ho visto adagiato su quella transenna, mi sono precipitato a soccorrerlo: respirava ancora. Ma quando stavo per liberargli la faccia dal pullover un poliziotto, dopo avermi gridato "via, via", mi assestò una manganellata alla nuca. Persi i sensi e quando mi ripresi la barella di Mario era sparita".

29 maggio 2005

Fonte: Il Quotidiano del NordEst

A-Z


FILIPPO LAZZERONI

Perché io sono stato fortunato

Quel 29 maggio ero nell'altra curva, settore M-N-O, quale premio della promozione dalla quarta alla quinta ginnasio. Mio padre mi portò a Bruxelles. La situazione fu tale che solo dopo la partita, fuori dallo stadio, apprendemmo che c'era un morto, poi dieci, poi venti... Poi la cruda realtà. Ma, almeno per noi, fu una cosa che sapemmo dopo, a partita finita. Dopo che avevamo pianto e ci eravamo abbracciati per il gol di Platini. Ho sempre sostenuto, e continuo a sostenere, che quella Coppa, per quanto portata a casa in una notte luttuosa, deve essere conservata dalla nostra società come il cimelio più prezioso, perché conseguito nella notte in cui tanti suoi tifosi, che inseguivano un sogno, hanno trovato un'inaspettata e tragica morte. E tutti coloro che dicono "quella coppa non vale niente", cancellando sia l'impresa sportiva, che rimane, che il sacrificio di tante persone, lo fanno perché ci odiano, e neanche la morte riesce a lenire l'odio per i nostri colori. Anzi, talvolta ci ostentano Coppe vinte grazie ad una provvidenziale nebbia e senza le squadre inglesi che, quegli anni, dettavano legge. Quindi, mi fa piacere che tu proponga che quella Coppa debba, a imperitura memoria, essere conservata a sé...

23 febbraio 2009

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z


LEOPOLDO LELIO

Io, un sopravvissuto dell'Heysel

Mio figlio credeva fossi morto 

di Fernando Pellerano

Il corpo è disteso esanime sulla pista d'atletica. Immobile, senza scarpe, coi vestiti stracciati, calpestato da altri spettatori. "Ecco, quello sono io, apparentemente senza vita, uscito neppure adesso so come da quell'inferno". Leopoldo Lelio, ex funzionario di banca a Bologna, ora in pensione, grande tifoso juventino, al seguito della Signora in mille trasferte, fin dagli anni '60, racconta la più indelebile. E' un sopravvissuto dell'Heysel, vent' anni fa: stasera, quando in tv scatterà Liverpool-Juve, non potrà non ripensarci. La sua storia parte da quella tragica foto a colori, pubblicata su uno speciale di Epoca". E non è una storia "solitaria", perché accanto a lui, in ginocchio nella foto, con una maglia numero dieci della Juve c'è un ragazzino di 14 anni: suo figlio Vittorio, compagno di tante trasferte. Gli accarezza la testa, forse pensa "papà è morto". Più in là grida concitate, lamenti, urla. Momenti tremendi, la follia inglese si è appena scatenata nel settore Z del patetico stadio di Bruxelles. Poco dopo la conta dei morti: 39. Momenti che non si possono dimenticare. "Invece, le dirò, a quella serata non ci pensavo più. Me l'avete fatta tornare in mente voi, cercandomi. Così ho ritirato fuori gli articoli e i ritagli d'allora". E con loro ricordi vividi, trasparenti, pieni di rabbia, ma anche di sollievo. "Al momento del sorteggio, io invece ci ho ripensato subito", racconta Vittorio, testimone di una vicenda più grande di lui. "Sì, quando ho ritrovato mio padre là disteso ho pensato fosse morto". Non lo era. Intorno a loro c'erano tifosi con lo sguardo perso. Fra questi un ragazzo inglese, con i baffi e la maglia dei Reds. Sarà lui, insieme a un suo connazionale, a risvegliare papà Leopoldo. "Per fortuna non sono tutti ubriaconi impazziti. Una volta vista la foto sul giornale, riconosciuto il ragazzo, scrissi al sindaco di Liverpool per chiedergli di rintracciarlo. Lui mi ringraziò e mi mise in contatto con Jeff Conrad. Volevo invitarlo in Italia per una vacanza, l'avrei portato a Messina, la mia città, la mia terra. Stavo organizzando una colletta, come riconoscimento sincero, visto che se la passava male, ma per un motivo o per l'altro non siamo riusciti a rivederci e dopo tante lettere ci siamo persi". I due Lelio non agirono in giudizio. "M'arrivò a casa un questionario dell'associazione dei familiari delle vittime: lo compilai, lo rispedii, ma non seppi più nulla". Solo gratitudine per quel ragazzo inglese e ancora tanta rabbia per l'inefficienza della polizia belga e per l'idiozia dei tifosi britannici. "Settore Z, già. Erano gli unici biglietti disponibili. Già all'entrata, due ore prima, c'era ressa. Iniziai a preoccuparmi quando vidi la rete di recinzione fra le tifoserie: ridicola, sembrava quella di un pollaio. Con mio figlio mi piazzai al centro della curva, poi ci fu il lancio di pietre, di bottiglie e infine lo sfondamento. Presi per mano Vittorio e scappammo, non verso il muro, ma giù in fondo alla curva. Vidi pugni, coltellate, una ragazza sgozzata con una bottiglia rotta che chiedeva pietà. Polizia ? Quattro gendarmi a cavallo, inermi. In fondo alla curva la rete cedette, feci in tempo a mollare Vittorio che riuscì a scavalcare la folla e si ritrovò in campo, io invece svenni nella bolgia e mi risvegliai 30 metri più in là: non so come ci arrivai. Ero vivo e con me mio figlio. Andai a farmi medicare sotto la tribuna, ma non volevano farmi entrare con Vittorio, assurdo. Me ne scappai in tribuna centrale e lì vedemmo la partita". Nessuno poteva uscire, si doveva giocare e assistere. "Fu strano, certo, ma non c'era alternativa. Ogni tanto ci abbracciavamo, per rassicurarci. Mi diede fastidio l'esultanza di Platini". Intanto la moglie a casa, raggiunta da telefonate di amici e parenti, rassicurava tutti: "Li ho visti in tv, stanno bene". Sì, ma erano immagini registrate. "Poi la chiamammo alle due di notte: va tutto bene". In realtà l'odissea continuò dopo la partita. "Perdemmo l'autobus, un camper di teatini ci riportò in città, riconobbi l'albergo per caso, il direttore non voleva darci da mangiare, era tardi. Chiamai l'ambasciatore, il figlio di Saragat, ci portarono delle noccioline, come a delle scimmie. Belgio, Inghilterra. I migliori, con tutti i nostri difetti, siamo noi". Tornati a Bologna, subito al Rizzoli: 30 giorni di convalescenza. "Ero giallo, conseguenza di quel soffocamento, con una gamba cartonata. E Vittorio ? Niente di niente. "Ma per 5 anni non sono più tornato allo stadio. Ora sì, ma per il mio Messina, lontano dalla ressa e vicino alla polizia. La Juve la vedo in tv. Da piccolo tifavo Torino, poi ci fu Superga e passai all'altra squadra della città". E un'altra finale di Champions ? "Eravamo stati anche ad Atene (0-1 con l'Amburgo), bella gita, brutta partita. Istanbul mi piacerebbe, non ci sono mai stato, ma non contro una squadra inglese, mai più. Sarebbe bella una rivincita col Milan. Ecco, allora forse ci andrei".

5 aprile 2005

Fonte: La Repubblica

A-Z

VITTORIO LELIO

Ex dell'Anteo ritrova in tv il tifoso inglese

che soccorse suo padre nel disastro dell'Heysel

Vittorio Lelio, messinese, ha lavorato all'Anteo di Molinella per 10 anni. Il 2 gennaio scorso è andato in televisione, ospite del programma "Il dono" condotto da Paola Perego su Raiuno, per incontrare il tifoso del Liverpool che l'aiutò a ritrovare il padre dopo il disastro dello Stadio Heysel. Vittorio aveva 16 anni quel 29 maggio del 1985. Era arrivato a Bruxelles insieme al padre, Leopoldo, che gli aveva regalato il biglietto della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool per premiarlo della bella promozione ottenuta a scuola. Quando si scatena la furia degli hooligans inglesi i due si perdono di vista. Vittorio ritrova il padre più tardi, riverso a terra. Lo crede morto, ma è solo ferito. In suo aiuto interviene il tifoso del Liverpool, Jeff Conrad, che presta a Leopoldo i primi soccorsi e poi sparisce tra la folla. Anni dopo, Vittorio Lelio si imbatte per caso in una foto del settimanale Epoca in cui si vede lui in ginocchio che piange accanto al padre ferito (foto in alto). Da qui il desiderio di ritrovare lo sconosciuto che l'aveva aiutato in quei momenti drammatici. I tre protagonisti di questa bella storia, si sono rivisti trent'anni dopo nel salotto tv di Paola Perego (foto sotto: da sinistra, Leopoldo, Jeff e Vittorio). I doni che si sono scambiati nello stile della trasmissione sono la maglietta a strisce bianconere, con il numero 10 di Platini, che Vittorio indossava quel giorno e la sciarpa del Liverpool con la scritta You'll never walk alone (Non camminerete mai soli), che Jeff a sua volta ha regalato a Vittorio. (r.z.)

7 gennaio 2016

Fonte: Duecaffe.it

A-Z

ANDREA LEONETTI

Il triste ricordo dell'Heysel

In questi giorni tante sono state le manifestazioni in ricordo delle vittime dell'Heysel. Dalla marcia di Torino, che ha visto sfilare al fianco dei gruppi organizzati migliaia e migliaia di tifosi, al ricordo organizzato davanti all'ex settore Z dal gruppo Bruxelles Bianconera, dal torneo di calcio organizzato dai ragazzi dello Juventus Club Meda sino alla partita della nazionale contro il Messico. Ma anche noi a 25 anni dalla terribile tragedia che vide perdere la vita a 39 tifosi bianconeri, vogliamo attraverso un racconto del nostro socio Andrea Leonetti, ricordare quella terribile esperienza vissuta dal vivo da lui con altri 3 soci del ns. club, tra i quali anche Francesco Nicolamarino.

Nella vita di ognuno, vi sono date particolari che suscitano particolari ricordi o emozioni. Nella mia vita mai potrò dimenticarne fra tante altre una: 29 maggio 1985. A distanza di 25 anni, oggi, mi viene chiesto di rievocare gli avvenimenti che sono legati a quel giorno che tutto il mondo ricorda come il giorno della strage dell'Heysel. Ci provo, pur nella consapevolezza che vivere quella situazione è ben altra cosa che raccontarla e che pertanto tanti particolari, tante sensazioni, tante emozioni e tanta paura non potranno mai essere descritti. Inquadriamo innanzi tutto il periodo storico. La Juventus, la nostra Juventus, vinceva in Italia con estrema facilità, sotto la sapiente guida del presidentissimo Boniperti, con Blanc ha in comune solo l'iniziale del cognome e forse qualcosina del nome - (otto scudetti vinti negli ultimi tredici campionati), ma faticava a raggiungere l'ambita e agognata COPPA dei CAMPIONI. In quegli anni la competizione si disputava in partite secche di andata e ritorno sin dai turni iniziali e la competizione era riservata ai soli vincitori del campionato nazionale di provenienza. In molte occasioni, la Juventus ha sfiorato il traguardo, una volta mancandolo in maniera quasi scontata, battuta in finale dall'Ajax a Belgrado (0-1) e un'altra volta, sempre con il medesimo risultato due anni prima di quel 29 maggio 1985 ad Atene, battuta in maniera sorprendente dall'Amburgo, squadra nettamente inferiore a quella Juve stellare che giocava con campioni del calibro di Zoff, Scirea, Platini, Boniek, Tardelli, Bettega, Paolo Rossi, Gentile e Cabrini. Quell'anno (1985) con una squadra senz'altro meno forte (alcuni giocatori erano ormai al crepuscolo, altri non c'erano più e furono sostituiti dai vari Favero, Prandelli e Briaschi) avevamo nuovamente raggiunto il traguardo della finale. Nel gennaio dello stesso anno, affrontiamo e battiamo in gara unica, a Torino, il Liverpool aggiudicandoci la Supercoppa europea (presenti anche in quella gara con tantissima neve, spalata tra gli altri, proprio da alcuni ragazzi del ns. club di Andria). Quella vittoria ci fece ritenere che fosse assolutamente possibile battere nuovamente in finale il Liverpool. Arriviamo alla finale dopo aver eliminato il Tampere, il Grasshoppers, lo Sparta Praga e il Bordeaux. Allora la sede della finale veniva stabilita solo un paio di mesi prima. Il raggiungimento della finale fa scattare l'immediata caccia al biglietto per la partita di Bruxelles, stadio Heysel. Da qualche anno, sempre con Francesco Nicolamarino presidente, avevamo aperto lo Juventus Club Andria, con difficoltà enormi dovute oltre che al mantenimento della sede, anche al fatto di avere difficoltà a mantenere una normale vita associativa, che in assenza delle televisioni attuali (Sky, Mediaset ecc.), si concentrava solo sull'organizzazione di trasferte di particolare interesse o richiamo o per la loro vicinanza (Bari, Lecce, Napoli Avellino, Ascoli). Naturalmente, il nostro club, giovane e senza agganci importanti non riuscì ad accaparrarsi alcun biglietto per la partita di finale. Coinvolgendo decine e decine di persone, più o meno importanti, avevamo aperto tanti canali nella speranza che qualcuno di questi ci rispondesse in maniera positiva e ci procurasse i tanto ambiti tagliandi, senza badare al prezzo degli stessi. Tramite un'agenzia di viaggi milanese, che gestiva il pacchetto biglietto-viaggio per la partita riuscimmo ad accaparraci al costo dell'intero pacchetto, con un ulteriore sovrapprezzo, nr. 4 biglietti di curva. Era fatta ! Si partiva. In quattro, come i biglietti: Francesco Nicolamarino, Sabino Chieppa, Sabino Troia e il sottoscritto Andrea Leonetti. La macchina, una FIAT RITMO (una Signora macchina dell'epoca), ci fu prestata da un altro tifoso juventino, amico di Sabino Chieppa. Programma di viaggio: partenza la sera del 27 maggio, lunedì. Arrivo a Milano e ritiro dei biglietti nella mattinata di martedì, con proseguimento del viaggio fino a Bruxelles. Cena e pernotto nella capitale belga fino alla partita. Dopo la gara, avevamo previsto di trasferirci a Lille (un centinaio di chilometri) dove miei parenti ci avrebbero ospitato per la notte, per poi ritornare da trionfatori in patria. Il giorno prima della partenza, avviene forse qualcosa che ci salva la vita ! Tramite un rappresentante dell'allora Ariston (sponsor della Juventus) che avevamo tempo prima contattato abbiamo la disponibilità di 4 biglietti (di nuovo 4, sembra incredibile !) di tribuna. Acquistai, pagandoli profumatamente anche questi 4 biglietti e partimmo con la convinzione di rivenderli per poterci pagare anche le spese del viaggio (al mercato nero i biglietti avevano prezzi incredibili). Il viaggio procede bene e senza intoppi. Raggiungiamo nella prima mattinata Milano dove ritiriamo dall' agenzia i 4 biglietti di CURVA Z. Sui biglietti era disegnato lo stadio con il contrassegno dei vari settori. A quel punto constatiamo che questi biglietti di CURVA Z non sono nel settore di curva riservato alla tifoseria juventina, bensì dalla parte opposta, insieme ai tifosi inglesi. Questo episodio, provoca in noi una divisione. Io e Sabino Chieppa, ritenevamo a questo punto più conveniente vendere i biglietti della curva e assistere alla partita in tribuna (era l'opposta rispetto a quella centrale). Francesco e l'altro Sabino invece prediligevano la soluzione inversa per poter, a loro dire, esporre in maniera più visibile lo striscione "Juventus Club Andria" che come sempre portavamo al seguito. La discussione sulla questione fu alquanto vivace e in quel mentre nessun accordo fra di noi fu raggiunto. Da Milano a Bruxelles la strada era occupata da innumerevoli pullman e auto che, con in bella mostra i colori bianconeri e in maniera alquanto festosa e chiassosa si dirigevano verso la capitale belga. Alle stazioni di servizio incontravamo centinaia di tifosi bianconeri e in questo clima di festa raggiungemmo Bruxelles e il nostro albergo. Dopo esserci rinfrescati, ci dirigiamo in centro per cenare ed eventualmente vendere i biglietti in soprannumero, senza ancora aver deciso quali. Lì abbiamo il primo sentore che non sarebbe stato tutto rose e fiori. Infatti nelle vie del centro cittadino, i cosiddetti hooligan inglesi, sotto i fumi dell'alcool, avevano iniziato a distruggere le vetrine dei negozi e in più parti della città erano segnalate cariche della polizia. Incontriamo nei pressi di un grande albergo del centro cittadino il compianto Gianni Brera, che a dire il vero, anche lui in evidente stato di allegria da vino, consigliava ai tifosi juventini di allontanarsi in quanto i disordini provocati dalla tifoseria inglese avrebbero potuto degenerare in qualcosa di più serio. Questa situazione rafforzò in noi la convinzione di cedere i biglietti della curva Z e assistere alla partita in tribuna. Seppur a malincuore e con non poco disappunto da parte di qualcuno, raggiungemmo l'accordo. Ma i biglietti a chi e dove li vendiamo ? Decidiamo di rimandare il tutto alla mattina seguente, con la non tanto celata volontà da parte degli "irriducibili della curva" di ridiscutere la questione e valutarla anche dal punto di vista economico. Torniamo in albergo dove avviene, a mio parere, il secondo intervento soprannaturale. Sullo stesso piano dove avevamo le nostre due camere, incrociamo 4 (di nuovo 4, incredibile !) giovani tifosi inglesi che in lingua madre ci chiesero se avessimo i biglietti della partita e se conoscessimo dove avrebbero potuto acquistarli. Immediatamente gli offriamo i nostri 4 biglietti in eccedenza, con Francesco che si gioca la sua ultima carta: offre agli stessi la possibilità di scegliere se preferivano la curva o la tribuna. Ci chiesero il costo e sentita la nostra richiesta ci dissero di non esser interessati all'acquisto. Con una perfetta operazione di bagarinaggio all'incontrario, vendiamo i biglietti al prezzo da loro stabilito. Avevano scelto i biglietti di CURVA Z. La mattina seguente, lasciamo l'albergo per dirigerci in centro, quando ancora in prossimità dell'albergo, veniamo fermati da una Mercedes targata Bari, con a bordo i famigliari del giocatore juventino Nicola Caricola che ci chiedono dove fosse un hotel di Bruxelles. Non sappiamo rispondere, ma capiamo subito che quello doveva essere l'hotel dove alloggiava la squadra. Seguiamo la macchina che effettivamente ci porta all'albergo sede del ritiro della Juventus. Arriviamo proprio mentre il pullman della squadra rientrava in albergo dopo un sopralluogo allo stadio Heysel. Non essendoci ressa, ma pochi tifosi, in quanto il luogo del ritiro non era stato reso noto, entriamo facilmente nella hall dell'albergo e tutti noi possiamo tranquillamente avvinarci e farci fotografare con molti giocatori della Juve (Boniek, Tardelli, Scirea, Briaschi, Favero, Brio), oltre che parlare con Edoardo Agnelli e Giampiero Boniperti che nel sentire che giungevamo dal barese, si mostrò molto premuroso e ci raccomandò di fare molta attenzione al viaggio di ritorno. Dopo questa inaspettata e bellissima esperienza, decidiamo di dirigerci verso lo stadio. A partire dal famoso Atomium con le migliaia di tifosi si cantava e si festeggiava l'evento. Le due tifoserie erano mischiate tra loro senza che si registrassero incidenti. Molte le foto che abbiamo condiviso con i tifosi del Liverpool, con i quali in un bar, abbiamo insieme brindato con boccali di birra. Nulla lasciava presagire al peggio e dei famosi hooligans nessuna traccia. Dai giornali sapevamo che i cancelli dello stadio sarebbero stati aperti alle 17.00 e con la premura di piazzare il nostro striscione in bella mostra con largo anticipo ci dirigiamo verso il cancello d'ingresso. Qui scopriamo che lo stadio che ospitava la finale della Coppa dei Campioni, fra le due tifoserie, forse più numerose d'Europa, era recintato da un muretto ad altezza di circa 2 metri senza alcuna altra protezione e che il servizio d'ordine era gestito da alcune decine di poliziotti alcuni dei quali con cane. All'apertura del cancello veniamo accuratamente perquisiti e con nostra somma sorpresa veniamo bollati sulla mano con un timbro che ci avrebbe consentito l’ingresso e l'uscita dallo stadio tutte le volte che lo avessimo ritenuto opportuno. Appena entrati nello stadio, vecchio e malandato, mentre fissiamo il nostro striscione in un punto centralissimo della tribuna, sicuramente ripreso dalle telecamere durante la gara, scopriamo che i tifosi all'interno dello stadio ricevevano di tutto dall'esterno in quanto bastava appoggiare sul muretto esterno dello stadio qualsiasi cosa affinché dall'interno la stessa potesse essere facilmente recuperata. Sperimentando subito, la possibilità di riuscire e rientrare dallo stadio, facciamo un giro intorno allo stesso dove incontriamo una troupe della Rai che sta facendo un servizio e scopriamo che i tifosi inglesi facevano entrare nello stadio dai muretti decine e decine di casse di bottiglie di vetro di birra nera (altamente alcolica).

Incredibile ! Rientrati nello stadio scopriamo che il famoso settore Z della curva inglese è uno spicchio laterale della curva stessa interamente riservato alla tifoseria juventina senza nessuna divisione con il restante settore riservato agli inglesi e la cosa accresce nuovamente il rimpianto di qualcuno convinto che sarebbe stato meglio seguire la partita in curva. Per ingannare l'attesa gli organizzatori fanno scendere in campo due squadre di bambini che indossano le maglie di Juventus e Liverpool. Nel mentre il sole che si avvia al tramonto si pone esattamente alle spalle della curva inglese, impedendo di fatto di vedere con chiarezza quel settore dello stadio. Ha inizio la partita dei bambini e le due tifoserie sembrano entrare già in clima partita. Naturalmente sale il tifo ciascuno verso la propria squadra di bambini. Inizia dal settore inglese verso lo spicchio di settore riservato agli italiani (curva Z), un fitto e nutrito lancio di bottiglie di vetro vuote (prima contenevano la birra che ora era saldamente assorbita dai corpi dei tifosi inglesi ormai completamente sbronzi). Questa situazione fa sì che la folla che gremiva la curva Z cominciasse a ripararsi ammassandosi verso la parte bassa della curva stessa. L’enorme pressione che si creò, generò da lì a poco il crollo del muretto di recinzione fra la curva e il terreno di gioco consentendo al gran numero di tifosi assiepati e ammassati all'angolo della curva di mettersi in salvo invadendo il terreno di gioco. Questo fiume di persone che correva all'impazzata nel campo, dirigendosi verso la curva opposta gremita di tifosi juventini, diede subito l'impressione che qualcosa di grave stesse accadendo. Quel sole basso all'orizzonte impediva a chiunque di avere nitidezza di quel che stava accadendo e soprattutto impediva di vedere le decine di persone che sotto il muretto crollato erano rimaste a terra chi già morto, chi in stato di incoscienza, privo di sensi. Verso la tribuna occupata da noi, si avvicinarono persone grondanti sangue dai volti impietriti dal dolore e dal terrore, che spiccicando frasi incomplete cercavano di comunicare le dimensioni della tragedia che si stava compiendo. In campo si riversarono anche i tifosi juventini stipati nella curva a loro assegnata. Anche fra questi, vi erano personaggi alquanto esagitati e armati con strumenti di offesa incredibili. Mi rimarrà sempre impresso, indelebile, il ricordo del rumore provocato dalla roteazione di un'arma, che poi ho scoperto si chiamasse mazzafrusto a una testa, formata da una palla di ferro ornata di brocchi conici ed acuminati. Arma in dotazione ai cavalieri medioevali. Nel settore di tribuna da noi occupato, ove vi era anche una buona parte di tifosi inglesi alquanto contenuti, vi furono due tentativi di invasione da parte delle curve confinanti occupate rispettivamente dalle due tifoserie. Se la struttura di divisione avesse ceduto, la tribuna sarebbe diventata teatro dello scontro corpo a corpo tra le due tifoserie. Dappertutto vi era la sensazione che era in atto la caccia all'uomo.

Tifosi juventini che cercavano di entrare in contatto con la tifoseria inglese nell'intento di vendicare quanto era successo, che per fortuna, non era stato interamente percepito nella portata e nelle dimensioni della gravità. Ricordo con nitidezza che le pulsazioni del mio cuore arrivarono alle stelle, la paura mi aveva immobilizzato, il mio sguardo era diventato assente e guardavo con terrore ad una scena che tuttora vivo nella mia mente come se avvenisse ancora davanti ai miei occhi. Un cane, tenuto da uno dei pochissimi poliziotti presenti in campo, era in preda, lui per primo, alla paura e abbaiando in maniera convulsa tirava il poliziotto non verso la gente che aveva invaso il campo, bensì dalla parte opposta, come se volesse scappare, mettersi in salvo. Il ritorno alla realtà lo diede Francesco, quando suggerì di togliere e mettere a più riprese lo striscione Juventus Club Andria, nella speranza che tale azione, ripresa dalle telecamere, potesse rappresentare motivo di tranquillità verso i nostri parenti che senz'altro, davanti alla televisione stavano vivendo con preoccupazione ed ansia il momento. Comunque nessuno, in quello stadio, aveva saputo che vi erano già 38 morti. Cominciammo a realizzare l'idea che fosse necessario cercare di comunicare, in qualche modo, alle nostre famiglie che eravamo in salvo. Allora non esistevano i cellulari. Nella stranezza totale ed inusuale di quello stadio, ricordo che avevo notato sulla sommità della tribuna una cabina telefonica con un telefono a monete. Cercai disperatamente di raggiungere quella postazione, ma mi resi conto che non si riusciva a chiamare in quanto non si riusciva nemmeno a prendere la linea. Tra di noi cominciammo a discutere sul da farsi. Anche lì ci dividemmo, in quanto tra di noi vi era in alcuni il desiderio di scappare e mettersi in salvo prima che la situazione degenerasse ulteriormente, in altri vi era comunque il desiderio di temporeggiare perché lo speaker dello stadio continuava ad invitare gli spettatori a rientrare sugli spalti per poter consentire un regolare svolgimento della partita. In maniera non unanime prevalse l'idea di andare via, anche se temevamo che all'esterno dello stadio potessero verificarsi scontri ancor più violenti, atteso ormai la completa assenza di ogni servizio d'ordine. Decidemmo comunque di cercare di comunicare innanzi tutto con le nostre famiglie. Uscendo in maniera indisturbata dallo stadio e avviandoci verso un piazzale antistante lo stesso ove, nella nostra idea contavamo di trovare apparecchio telefonici, ci siamo imbattuti in uno spettacolo terrificante. Quell'enorme piazza, era stata allestita e trasformata in un campo profughi. Decine e decine di corpi giacevano a terra. Erano state montate tende da campo con l'intento di creare dei punti di primo soccorso. Una fila enorme di taxi era stata fatta convogliare verso la piazza e ciascun taxi caricava a bordo una persona, ferita, svenuta, morta e partiva verso uno dei tanti ospedali. In quel contesto anche chi era sopravvissuto e stava bene cercava di conoscere dove fosse stato portato il padre, il figlio, l'amico o la persona cara che era rimasta ferita negli incidenti. Era una tragedia ! Uno spettacolo indescrivibile. L'organizzazione fino ad allora completamente assente diede prova di efficienza nel momento più delicato. L'allestimento dell'ospedale da campo, il servizio di ambulanza organizzato con i taxi, le decine di operatori sanitari che confluivano in maniera volontaria verso lo stadio per prestare i soccorsi del caso, l'arrivo dell'esercito con intere carovane di blindati e mezzi pesanti diedero l'idea della gravità di quanto era accaduto. Per fortuna riuscirono comunque a far disputare la partita in maniera che la stessa potesse sopire e calmare i bollenti spiriti e consentire una adeguata organizzazione di un servizio di sicurezza intorno allo stadio e all'interno dello stesso. A posteriori abbiamo capito che anche il famoso giro di campo con la coppa serviva solo ed esclusivamente a consentire un veloce deflusso dei tifosi inglesi dallo stadio ed evitare quindi lo scontro fisico. Decidiamo di raggiungere la nostra auto e dirigerci verso Lille, dai miei familiari. Alla radio ascoltiamo le notizie in lingua italiana e dopo circa 40 chilometri ci fermiamo alla prima grande stazione di servizio sulla strada Bruxelles-Lille per poter telefonare a casa. Anche lì ci rendiamo conto che non siamo soli. Altre decine di persone sono in fila davanti alle cabine telefoniche. Molti di costoro si trovavano casualmente su quella strada, senza che la stessa fosse la strada giusta per il ritorno. Erano semplicemente scappati. Si erano messi in salvo. Lì incontriamo un notaio barese che era venuto allo stadio con un suo compaesano e ci racconta che entrambi erano in curva Z e che erano rimasti schiacciati come polli dalla folla che tentava di mettersi in salvo. Non aveva più notizie del suo amico, "Benito Pistolato". Lo confortiamo e gli diamo coraggio. Il giorno dopo avremmo letto sui giornali il nome di costui tra le vittime dell'Heysel !!!. Riusciamo finalmente a comunicare con casa. Tranquillizziamo i famigliari e giungiamo in tarda serata dai miei parenti a Lille dove vediamo nel silenzio generale il secondo tempo della partita in televisione. Nessuna gioia, nessuna esultanza. Solo dolore e dispiacere. Alla televisione francese assistiamo ai servizi giornalistici che trasmettono immagini di una crudeltà inaudita che in Italia nessuno ha mai visto, per fortuna. Andiamo a letto, e la mattina seguente ripartiamo verso casa. Per strada, la stessa carovana dell'andata, questa volta silenziosa, con i pullman che sul retro avevano incollate le prime pagine dei quotidiani: "STRAGE A BRUXELLES - MORTI MOLTI TIFOSI - UNA MONTAGNA DI MORTI - UNA STRAGE - UNA CARNEFICINA - TERRIFICANTE - LA COPPA MALEDETTA. Era il 30 maggio, il giorno del mio compleanno. Compivo 25 anni. Ci fermiamo a Lugano e mangiamo una pizza. Non vi era comunque nulla da festeggiare !!! Oggi dopo 25 anni ho rievocato, forse per la prima volta in maniera dettagliata quei momenti e quella situazione. Mi piace concludere questo mio ricordo con una preghiera che il 29 maggio di quest'anno da più parti si è levata al cielo. La trascrivo: Un ultima preghiera, mia dama, prima della sera. un bacio ai fratelli dispersi nel Belgio, quella sera, di venticinque anni fa. anch'io c'ero! rimboccali meglio, perché non sentano più freddo sotto il manto delle nostre bandiere !!!

7 giugno 2010

Fonte: Juventusclubandria.it

A-Z

BRUNO LIMIDO

"Vidi quei cadaveri all’Heysel. Non ho vinto nessuna Coppa"

Bruno Limido, ex giocatore della Juventus, ci racconta quel maledetto 29 maggio 1985

di Francesco Caielli

VARESE - Bruno Limido, varesino venuto su nel settore giovanile biancorosso, nella stagione 1984/85 si era guadagnato la possibilità di fare il grande salto. La chiamata della Juventus, la maglia bianconera. C’era anche lui, quella sera maledetta: in campo, negli spogliatoi, a viverla in prima persona e oggi a raccontarla. "Sono passati trent’anni ma il dolore non è passato, non se n’è andato. È stata una cosa troppo grande, una tragedia inaccettabile. Uomini, donne e bambini erano partiti per vedere una partita di pallone e sono tornati a casa in una bara". Regalai i miei biglietti - Limido ci regala il punto di vista del giocatore, di quello che ha vissuto il dramma con un occhio diverso. "Già il giorno prima avevamo avuto un assaggio del clima che c’era in città. Eravamo andati in centro per fare una passeggiata, e i tifosi del Liverpool ci hanno sfasciato il pullman a sassate. Siamo dovuti scappare". Poi, la sera della partita. "Siamo arrivati allo stadio un paio d’ore prima della partita: attorno all’Heysel c’erano gruppi di inglesi ubriachi, ma nulla di più. Usciti sul campo abbiamo visto che le tribune erano già piene zeppe, compreso il famigerato settore Z. E pensate, io avevo in tasca due biglietti per mio fratello, che poi è rimasto bloccato e non è riuscito ad arrivare. Non sapevo che farne, e li ho dati a due di Tradate che conoscevo. Loro avevano i biglietti per il settore Z che era già pieno, io gli ho dato i miei di tribuna. Mi ringraziano ancora oggi". Il dramma. "Eravamo negli spogliatoi e abbiamo capito che qualcosa non andava. Arrivava gente con la testa spaccata, sanguinante, che parlava di morti. Allora io e alcuni miei compagni ci siamo vestiti e siamo tornati in pullman. Mentre raggiungevo l’uscita, lungo il corridoio, sono passato sotto il settore Z e ho visto i morti con i miei occhi. Alcuni coperti da un lenzuolo, altri no. Siamo saliti sul pullman, macché giocare. Poi però è arrivato il capo della polizia belga che ci ha obbligato a tornare negli spogliatoi: "Ci sono trentanove morti, ma se non giocate ce ne saranno tremila". Perché i nostri tifosi erano inferociti, volevano vendicarsi. Ci hanno obbligato a giocare e lo abbiamo fatto". Quella partita. "Non c’è stata nessuna partita, nessuno di noi ha festeggiato a parte quel giro di campo che ci è servito per buttar fuori la rabbia e la tensione. Nessun festeggiamento, nessuno ha detto una parola dagli spogliatoi fino al rientro a Torino. Qualcuno ha scritto che abbiamo festeggiato la coppa, non è vero. Il giorno dopo sono andato all’aeroporto di Linate insieme a Scirea per accogliere alcuni dei morti. Di fianco a chi aveva perso un figlio, un padre, un marito". Per Limido, non c’è stata nessuna Coppa. "Io come calciatore non ho vinto nessuna Coppa dei Campioni, non lo dico mai quando me lo chiedono. Io ho vinto un campionato di serie B e basta". Su La Provincia di Varese di venerdì 29 maggio due pagine speciali con approfondimenti e ricordi dei protagonisti di quel giorno. Di chi è partito dalla nostra provincia per vivere un sogno e si è ritrovato in un incubo.

29 maggio 2015

Fonte: Laprovinciadivarese.it

A-Z

... BRUNO LIMIDO ...
  

Il grande ex Bruno Limido "Dall’Heysel al Franco Ossola"

di Filippo Brusa

... (Omissis Testo articolo) Il 1985 è stato anche l’anno dell’Heysel: lei era alla Juventus e ha visto con i suoi occhi l’assurda strage di Bruxelles nella finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool. Che cosa si porta ancora dentro di quella triste serata ?

"Quando ci sono 39 morti per una partita di pallone resti segnato a vita e ti porterai dentro per sempre un’amarezza sconfinata. Potrei parlare per settimane di quella sera maledetta che ho vissuto in prima persona. I miei occhi non volevano credere a quello che stavano vedendo da vicino: nello stadio c’erano corpi senza vita di tifosi, che il giorno prima erano partiti in pullman pieni di entusiasmo magari coi loro bambini. Sarebbero però tornati indietro in una cassa da morto. Avevamo assaggiato quel clima surreale anche alla vigilia, quando eravamo usciti per visitare Bruxelles: fummo costretti a tornare subito in albergo con il pullman massacrato dalle sassate lanciate dagli hooligans. Fu giusto giocare la finale ? Ci obbligarono a farlo. Credo che se non avessimo giocato la partita i morti sarebbero stati almeno dieci volte di più. L’esercito era arrivato durante la partita e già all’intervallo lo stadio era circondando dai carri armati. E fu giusto festeggiare la coppa ? Alzare la coppa e portarla in trionfo davanti ai nostri tifosi fu una reazione istintiva dopo una serata surreale, ricca di tensione. Rientrammo subito in albergo e un’ora dopo eravamo già in aereo verso l’Italia. Non è vero che festeggiammo per tutta la notte"... (Omissis Testo articolo)

16 Ottobre 2014

Fonte: Laprovinciadivarese.it

A-Z

LIVIO

LETTERA DEL TIFOSO Livio: "Heysel, io c'ero"

Buongiorno, ho letto tante cose e visto qualche ricostruzione in questi giorni, sull'Heysel. Io c'ero, avevo 22 anni, ero là con due amici, ma nella curva opposta. In realtà fu un colpo di fortuna, io avevo il biglietto della curva Z, poi loro trovarono i biglietti nell'altra e lo presero anche per me, per stare insieme. Vi potrei raccontare tante cose, ma un paio sono molto rilevanti. Non ho mai visto nessuno organizzare un evento in modo così incompetente come fecero i belgi e in uno stadio così fatiscente (anche se allora molti stadi erano vecchi, però questo era per la finale !!). Tutti sapevano che gli inglesi erano pericolosi, sfasciavano l'Europa da anni, potrei raccontarvi cosa fecero a Torino nella curva della Juve nel 1980 durante Inghilterra-Belgio, eppure di polizia non ce n'era dentro lo stadio. Noi, semplici spettatori, non abbiamo saputo dei morti fino a che non siamo usciti. Forse gli Ultrà della Juve sapevano, eravamo nella stessa curva, ma molti di noi non sapevano. Morire per una partita di calcio è tutto l'opposto di quello che dovrebbe significare questo sport. E' stato terribile e penso sia una ferita che molte famiglie si portino ancora dietro, anche se spero che siano riuscite in qualche modo a trovare serenità. Saluti, Livio.

1 giugno 2015

Fonte: Tuttojuve.com

A-Z

GIOVANNI LOBERA

Ex postino di Mondovì

''Ho assistito alla tragedia dell'Heysel ma non ho smesso di andare allo stadio"

"Siamo arrivati allo stadio a mezzogiorno. Fuori i tifosi inglesi erano già ubriachi e i poliziotti ci hanno proibito di imboccare una strada per evitare il contatto. Grazie a Dio mi son trovato nella curva ''giusta'', ma da lontano ho visto bene la prima carica dei tifosi inglesi contro gli italiani. Una scena terribile. Allucinante: centinaia di persone schiacciate, decine di corpi cadevano dal muretto. Non lo dimenticherò mai". Giovanni Lobera, 72 anni, ex postino di Mondovì, ha vissuto la tragedia dell'Heysel, lo stadio di Bruxelles dove mercoledì 29 maggio 1985 si disputò finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool: 39 tifosi morti (30 italiani) (N.D.R. 32). Ieri mattina, accompagnato dalla figlia Cristina, sedeva sorridente sugli spalti di Chiusa Pesio, per vedere la seduta di allenamento bianconera. Ricorda ancora: "Scirea e Cabrini erano venuti sotto la nostra curva a chiedere di stare calmi. Sono tornato al pullman, al sicuro. Non ho visto la partita, non immaginavo che si sarebbe giocata. E non si doveva giocare". Ma Lobera non ha smesso di andare allo stadio e c'era anche lui, il 22 maggio 1996 a Roma, alla finale di Champions Juventus-Ajax: "Vittoria ai rigori, ma pulita e meritata. All'Heysel non voglio ripensare. Oggi mi godo la nuova squadra. Gli acquisti estivi ? Bene Pirlo e Vucinic, ma non ci siamo ancora. Il nuovo stadio ? Bello, ma gli ultras ci sono sempre. Non so se sia veramente a misura delle famiglie. Serve un cambio radicale nella cultura dello sport".

6 agosto 2011

Fonte: La Stampa

A-Z


MINETTO LOCATELLI

"Io, sopravvissuto"

di Roberto Belingheri

Minetto Locatelli di Villa d'Almè era nella curva Z: "Non so come, ma sono vivo. Aspettai un amico con l'angoscia che fosse morto. Da allora impossibile tornare allo stadio".

Si rigira il quadretto tra le mani, e probabilmente non sa se amarlo, o odiarlo. Perché quel quadretto contiene un biglietto, e quel biglietto è l’11 settembre della sua vita. Minetto Locatelli, 68 anni di Villa d'Almè, dipendente della Regione Lombardia in pensione da una manciata di mesi, è un superstite dell'Heysel. Trent'anni fa come oggi era lì, nel maledetto stadio di Bruxelles che ospitò la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Non solo era lì: era nel settore Z, il famigerato. La tomba di 39 tifosi, 32 italiani. Schiacciati dall'"onda", così la chiama lui, degli hooligans, schiacciati dalla foga di scappare, schiacciati dal crollo del muro. Trent'anni dopo legge sul sito dell'Eco il racconto di Fiorenzo Peloso, offline da lunedì, e si decide a togliere dal tavolino il quadretto col biglietto e a bussare alla porta del giornale. "Vi racconto, se volete. Ma non riesco a scrivere, mi emoziono troppo". Minetto racconta con calma, con parole misurate. Ma è come se fosse ieri. Ricorda dettagli che sono sintomi, più che immagini: è tutto lì, scolpito, indelebile. Una ferita che non si rimargina, e non è retorica. L'Heysel è un bivio: c'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quella sera. "Io amavo il calcio, andavo sempre all’ Atalanta e con un amico conoscevamo il papà di Cabrini. Così pochi giorni prima della finale ci dice che se avessimo voluto saremmo potuti andare a Bruxelles, stare con la squadra in hotel la sera prima e in caso di vittoria partecipare alla festa della notte seguente. Aveva due biglietti di questa curva Z, non me ne feci un problema e forzai un amico perché venisse con me. E partimmo". Fin lì, c'erano tutti gli ingredienti perché la finale fosse uno di quei fatti che vedi anche per dire "io c'ero". "Arrivata la sera come promesso andammo nell'hotel della Juve. Parlai due tre minuti con Scirea, ovviamente con Cabrini, con Platini, con Boniek, con Tacconi che sembrava il più allegrone. Ricordo in un angolino, riservatissimo, anche Boniperti". Nulla che lasciasse presagire una piega tanto negativa dei fatti. "Fu la mattina dopo che cominciammo a vedere, già verso le 10, tifosi inglesi ubriachi che spaccavano bottiglie vuote contro le vetrine. La sera, arrivati vicini allo stadio, la situazione era pessima. Gli inglesi erano tutti ubriachi e portavano dentro intere casse di birra. Una volta entrati, dopo pochi minuti proposi al mio amico di uscire, perché sentivo che si metteva male. Al cancello un poliziotto mi puntò il manganello al petto: uscire era vietato. Così ci posizionammo vicini a un cancello verde, pronti a scappare. C'era un rumore di fondo che sento ancora adesso, come una mandria di cavalli che batte gli zoccoli". L'onda. Minetto parla dell'onda, a quel punto. Sono gli inglesi che avanzano, sfondano, travolgono. "Una cosa di cinque, sei secondi che travolge tutto e tutti. Io mi sono ritrovato sulla cima di una rete metallica alta tre metri, coi pantaloni stracciati, e non sapevo come fossi finito lì. Riuscì a scendere, scappai fuori. Cerano feriti ovunque, e la polizia che manganellava tutti perché rientrassero. Già allora ero volontario della Croce Rossa, provai a chiedere a due ragazzette che sembravano addette al soccorso qualcosa per curare i feriti: avevano solo salviettine umidificate che nemmeno volevano darmi. Provai a chiedere del ghiaccio a un camioncino che vendeva bibite: niente. Fu a quel punto che mi arrivò una bastonata sulla spalla, da dietro. E l'istinto di conservazione prese il sopravvento. Scappai, correndo più forte che potevo. Passava un tram e salì al volo. Poi con un taxi in hotel, lontano da tutto". Minetto racconta, gesticola, nei suoi occhi sembrano scorrere le strade di Bruxelles. "Ma non sapevo più niente del mio amico. Aveva due bambini piccoli, lo avevo convinto io a venire e alla tv belga parlavano di cento, centoventi morti. Mi sentivo morire. Chiamai casa, avvisai di non chiamare casa sua perché non sapevo se fosse vivo o morto. Spensi la tv. Scesi in strada, per aspettarlo seduto sul marciapiede. Dopo tre ore, le più lunghe della mia vita, arrivò un taxi e da quella macchina scese lui, con la testa fasciata. Ci siamo abbracciati per dieci minuti. Lui non era morto, e io mi sentivo rinato". Minetto non si vergogna delle sue lacrime, quelle di trent'anni fa come di quelle di oggi che affiorano mentre racconta. Sorride dicendo che quell’amico "è passato al ciclismo e anche oggi è al Giro". Sorride perché forzandolo in quella trasferta non l'ha consegnato alla morte dell'Heysel. Ma poi racconta il dramma del "dopo", che nonostante la vita salvata presenta ogni giorno il conto dell'Heysel. "Non ho più potuto prendere il treno o un bus, andare al cinema. Accompagnavo mio figlio alle trasferte della sua squadra in auto, seguendo il pullman. Vado con mia moglie al cinema e dopo dieci minuti la aspetto fuori. Dove c'è gente, io comincio a tremare. La mia mente sa che non è pericolo al cinema, ma è la stessa mente che mi obbliga a scappare". E lo stesso vale per il calcio. Nel 2012, dopo 27 anni di digiuno, Minetto ci riprova. "Col ritorno dell'Atalanta in serie A, volevo tornare e vincere questa paura. Ho fatto l'abbonamento in tribuna Creberg. Al primo gol dell'Atalanta, tutti in piedi esultando. Io lì, seduto, fermo e tremante. Quel rumore mi sembrava quello dell’Heysel, quella folla mi sembrava quella dell'Heysel. E sono scappato via in mezzo a tutta quella gioia". Nemmeno il momento più bello del calcio, la gioia di un gol, poteva rimettere insieme i cocci di quel che l’inferno del calcio aveva distrutto. Quasi anni prima.

29 maggio 2015

Fonte: L’ Eco di Bergamo

A-Z

ADAMO LORENZETTI e SIMONA CIACCI

Durante la trasmissione di Siena Tv del 17.04.2019, "Storie da raccontare", a cura di Roberto Rosa, la testimonianza di 2 tifosi senesi, Adamo Lorenzetti e Simona Ciacci, presenti nel settore Z dello Stadio Heysel di Bruxelles il 29.05.1985.

A-Z

ROBERTO LOSURDO

La strage dell’Heysel, tra "pescecani" e "mammasantissima"

Roberto Losurdo era già intervenuto su questo blog. Lo aveva fatto raccontando di quando conobbe l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che lo difese anni prima di essere ucciso per ordine di Michele Sindona. Nel 1985, poi, Losurdo si trovò allo stadio Heysel dove il 29 maggio 1985 si doveva disputare - e così è stato - la finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool. E finì in tragedia. Oggi, a trent’anni di distanza, ricorda i fatti che lo condussero lì e cosa visse in Belgio. Sono granata da sempre, come tutti i masochisti. Quasi tutti i bimbetti, nel 1949, tifavano Torino. La Juve, manco esisteva o quasi. Poi il sogno finì a Superga. Nel 1983, la Juve ad Atene, perse la finale della Coppa dei campioni (così si chiamava allora). Mi colpì non tanto la sconfitta, quanto il fatto che ben 5 mila tifosi bianconeri rimasero fuori dallo stadio in quanto sprovvisti di biglietto. Così, quando all’inizio del 1985, si cominciò a riparlare di una possibile finale della Juve a Bruxelles, serpeggiò quel "fiuto" dell’affare già utilizzato in altre occasioni. La mia amica Antonella Squillaci, responsabile dell’Ufficio Turistico Belga a Milano, mi consigliò di contattare la Signora Puttaert, direttrice dell’Ufficio Turistico di Bruxelles alla Grand Place. In risposta alla mia balbettante lettera in francese, giunse una risposta in perfetto italiano. La signora in questione era in pratica nativa della Svizzera francese con marito italiano. Risposta interlocutoria con invito ad andare a trovarla qualora mi fossi trovato da quelle parti. Nel marzo 1985, a Parigi, con un gruppo di turisti "abbandonati" a una guida locale, eccomi a Bruxelles per incontrare questa affascinante bionda che mi scambia per bianconero ironizzando sull’ottimismo degli italiani per una probabile finale ancora molto lontana. Nella pausa pranzo, scopriamo di avere delle conoscenze comuni, familiarizziamo e, una volta rientrati in ufficio, parte la telefonata al presidente della federazione calcio belga il quale mi riceve di lì a poco. Tutto come in un film, il presidente chiama il responsabile dell’evento il quale prende nota del tutto rivolgendomi poi la fatidica domanda: "Combien de billets vous voulez ?" Non sono pronto alla domanda e balbetto: 500 ? Nessun problema, qualora la Juve fosse andata in finale, un telegramma per riconfermare il tutto La Juve, in extremis, ottiene la finale. Da un anno, collaboravo con un’agenzia (Angolo di Vacanza, via Ricordi, direttrice Emma Tabacco, una "grande" nel campo dei viaggi). È titubante, ma comincia a crederci. Si decide per il viaggio in bus (ne opzioniamo 11), 3 giorni con un pernottamento. Ma dove ? I "pescecani" hanno bloccato tutti i posti hotel disponibili. Opto per tutto il Nord della Francia da Lille a Tourcoing e così via, poco più di 100 chilometri da Bruxelles. Parto dunque per Lille, prendo gli accordi con tutti gli hotel, vado a Bruxelles a incontrare colei che risulterà determinante durante la fase tragica: Monique Pansaert, giunonica, simpatica e disponibile fiamminga di Anversa. Ha soggiornato per qualche anno a Milano con la famiglia, parla un buon italiano e accetta di farmi da assistente. La base operativa sarà il Jolly Hotel, vi sarà un pullman di riserva che raccoglierà gli eventuali "dispersi" dopo la sicura vittoria della Juventus. Simpatica parentesi: c’erano stati degli attentati contro la comunità ebraica qualche giorno prima. Usciamo dall’hotel. Tanta polizia e nessuna auto. Anzi, ce n’è una. Gli artificieri stanno armeggiando. È l’auto di Monique. Un allarme bomba rivelatasi infondato ed ecco il risultato. La tv ci riprende. Il marito di Monique vede tutto dal piccolo schermo. Non so cosa avrà pensato. Il 24 aprile, la Juve perde 0-2 a Bordeaux, ma conquista ugualmente la finale (andata 3-0). Nella notte, partono tutti i telegrammi di riconferma. Il ritiro dei biglietti, è fissato per il 2 maggio direttamente presso lo stadio dell’Heysel. Il 1° Maggio, mi imbarco per raggiungere la capitale belga. Una fila davanti a me, viaggiano i "pescecani", i "mammasantissima" di queste manifestazioni. Una imprecazione: "Se un c. come Losurdo ha i biglietti, perché a noi li rifiutano ?". Sorrido sornione, ci siamo salutati poco prima, mi conoscono di vista, ma non associano il mio nome. Per loro sono un "nessuno" che bazzica negli ambienti dei viaggi, probabilmente uno "scroccone" talvolta presente nel corso delle numerose manifestazioni turistiche che abbondano. Monique, viene a prendermi in hotel e raggiungiamo l’Heysel. Mentre in auto ci avviciniamo allo stadio, c’è già una colonna lunga oltre 2 chilometri di persone in fila per accaparrarsi i biglietti. Non immagino che quei tagliandi, destinati ai tifosi locali, finiranno in gran parte nelle mani di centinaia di italiani, tra cui i 39 predestinati alla morte. I "pescecani" compreranno quei biglietti da bagarini. Ne compreranno tanti ancora, tanti falsi. La scena "tragicomica" avviene nella sala di attesa dello stadio. Siamo puntuali alle 9. Ma loro sono già lì in attesa da tempo. Consegno il biglietto da visita alla reception: "Monsieur Losurdo, entrez". Dopo 20 minuti, esco con 500 biglietti di ingresso, settore N, quello (insieme a M e O) dedicati agli italiani, ossia dalla parte opposta del famigerato settore Z in cui non doveva trovarsi nessun italiano. Il biglietto dei popolari costava 9 mila lire. Il 29 maggio, che le cose potevano mettersi male, lo si poteva intuire nel corso della giornata. Temperatura vicino ai 30 gradi, inglesi seminudi che giocavano al pallone con le porte improvvisate composte da montagne di lattine di birra, vuote. La metro per raggiungere lo stadio mostrava segni vandalici con finestre rotte ed escrementi. Avevo già assistito i nostri ed ero ritornato in hotel per ripartire poco dopo per lo stadio. Ero provvisto di un "pass". Mi dirigo verso la tribuna numerata che confina con il settore Z. È già in atto un fuggi fuggi. Qualcuno ha il viso insanguinato. La "mattanza" si era già consumata. Un poliziotto via radio urla "il y a beaucoup de morts". Cerco di mettere il naso nell’interno, ma vengo respinto non senza aver sbirciato e visto gente distesa per terra, immobile la polizia a cavallo. Mi dirigo nel settore N a vedere cosa succede ai nostri. Hanno visto i disordini ma non ne hanno capito la gravità, non sanno dei morti. Il resto è cosa nota. L’incontro si gioca, la Juve vince. Do disposizione agli accompagnatori di ogni singolo bus di partire immediatamente subito dopo la fine dell’incontro. A Milano, Emma Tabacco si porta in ufficio a ricevere centinaia di telefonate che dirotta in Belgio a Monique. La trovo affranta con 2 telefoni che non smettono di squillare. Mi dice di portami al comando dei pompieri che funge da centrale operativa. Nessuno parla italiano. Sulle pareti, fogli "uni" con scritte a mano riportanti i nomi dei morti e quelli dei feriti che man mano giungono dagli ospedali. Sono subissati di telefonate. Mi accolgono bene, mi dirottano molte telefonate. Genitori, mogli, figli che dall’Italia e non solo (una telefonata giunge dall’Australia) chiedono di un loro congiunto. Debbo velocemente fare il giro e leggere i nomi. Per fortuna, non devo comunicare nessun morto, solo qualche ferito. Rientro in hotel all’alba. Monique è altrettanto distrutta. Ci abbracciamo. Il pullman di scorta è parcheggiato lì vicino. Lo autorizzo a ripartire. Non me la sento di fare un viaggio così lungo. In aeroporto ci sono tutti. Gianni Brera parla con un euforico Cabrini. Hanno vinto la coppa. Sorrisi da parte di altri calciatori. Non vedo ombra sui loro volti. Che tristezza. I voli sono completi. Attendo fino al tardo pomeriggio per un primo posto disponibile. Seguo il calcio, ma mai più ho più voluto occuparmi di organizzazione di simili viaggi.

26 maggio 2015

Fonte: Antonella.beccaria.org

A-Z


MATTEO LUCII

 "Io, sopravvissuto alla strage dell"Heysel"

Racconto di un mugellano…

di Matteo Felli

Ricorreva ieri (mercoledì 29 maggio), il 28esimo anniversario della strage dello stadio "Heysel" di Bruxelles, dove persero la vita 39 persone di cui 32 italiane. Il tempo non ha né cancellato il dolore, né il ricordo, di una notte che doveva essere di festa e invece si trasformò in una carneficina. Juventus - Liverpool, la finale di Coppa Campioni del 1985. La sfida fra la "Vecchia Signora" alla ricerca del primo titolo nella massima competizione dopo tante finali perse e i famigerati "Reds" capaci di vincere in pochi anni ben quattro edizioni e fare incetta di trofei. Esodo in massa dei tifosi italiani verso la capitale belga. Perché non si poteva mancare all’appuntamento con la storia. E fra loro c’erano tanti Mugellani. Uno di questi era Matteo Lucii, a cui fu assegnato un biglietto nel settore Z, quello che diventerà la tomba di 39 persone. "Avevo 17 anni, spiega Matteo. L’eccitazione per la finale di Coppa Campioni era immensa. Mi ritrovai da solo su questo pullman, ma durante il lungo viaggio feci conoscenza di tanti ragazzi. Fra questi un ragazzo di Pistoia (ritrovato su facebook da poco tempo), che sarà determinante nel salvarmi la vita all’interno dello stadio". Una sorta di gita spensierata verso una finale attesa da tempo. Ma una volta arrivato a Bruxelles Matteo iniziò a capire che la festa ben presto avrebbe lasciato spazio ad altro. "Tutti eravamo a conoscenza delle "turbolenze" dei tifosi del Liverpool. I famigerati "Hooligans" che già in passato si erano resi autori di atti vandalici e teppistici. Ma non credevo che sarebbero potuti arrivare a tanto. Già quando arrivammo in città la situazione sembrava ormai in mano ai tifosi inglesi, che picchiavano gente alle fermate degli autobus, spaccavano vetrine e soprattutto riuscivano a far entrare dentro lo stadio, spranghe bastoni e casse di birra a quantità industriale. Già dall’esterno lo stadio appariva logoro e fatiscente. Ma dentro era peggio. C’erano pezzi di legno ovunque. Le gradinate erano formate da "Sanpietrini" già spaccati o che potevi spaccare con un semplice pestone. Per non parlare delle reti di recinzione, autentiche reti da pollaio. Insomma il luogo ideale per una carneficina". Uno stadio obsoleto e non idoneo per contenere 30 mila persone, un servizio d’ordine non altezza e 10 mila inglesi ubriachi pronti a "caricare" i tifosi italiani. "Entrammo dentro lo stadio due ore prima del match. Eravamo nella curva opposta a quella della Juventus. La particolarità di questa curva era che per metà era occupata dagli inglesi e l’altra metà doveva essere destinata ad un pubblico neutrale. E invece le agenzie di viaggio avevano venduto i biglietti anche i tifosi della Juventus. Nel mezzo la famosa rete da pollaio e 4 poliziotti che ben presto si dileguarono. Io volevo stare lontano dai tifosi del Liverpool e invece questo ragazzo di Pistoia mi disse: "Matteo non ti preoccupare sono esperto di arti marziali non aver paura. Ti difendo io". Fu la mia salvezza, continua Lucii. Perché se fossi andato verso il famoso muretto, che poi crollò, molto probabilmente sarei morto anche io. Verso le 19 gli inglesi ormai in preda dell’alcol iniziano prima a lanciare oggetti verso di noi e infine iniziano a caricare, spazzando via la rete di divisione. Fu l’inizio della fine". L’inizio della fine per davvero, visto che gran parte del pubblico juventino e neutrale si riversò chi verso l’unica uscita (una porta di un metro per un metro che dava sulla pista d’atletica) e chi verso il muretto del settore Z che sotto la pressione di 5 mila persone impaurite, implose di colpo facendo precipitare nel vuoto tantissime persone. Molti morirono così. Altri morirono schiacciati nella calca, soffocati sotto centinaia di persone. "Ho rischiato anche io quella fine. Al momento in cui gli inglesi sfondarono la rete mi ritrovai in terra con tantissime persone sopra di me. Rimasi per oltre venti minuti in quella posizione. Riuscivo a malapena ad alzare la testa e l’unica cosa che vedevo era il tabellone dello stadio, posta sopra l’altra curva. Ad un certo punto mi resi conto che stavo male che non respiravo più. Pensai di essere arrivato al capolinea. Feci appello a tutte le forze che mi erano rimaste e provai ad alzarmi nonostante il peso delle altre persone sopra. Alla fine ci sono riuscito". Scosso da quanto successo, Matteo, come prima cosa pensò bene di uscire dallo stadio e cercare un telefono per avvisare a casa. "Il mio primo pensiero fu quello, perché avevo perso pure la percezione del tempo. E invece quando io telefonai a casa erano le 19.40. Il collegamento con la Rai sarebbe iniziato soltanto cinque minuti dopo. Meglio così.

La mia famiglia non si rendeva conto di quello che stavo raccontando. Capirono ben presto appena accesero la Tv. Così come fece tutta l’Italia. Non voglio immaginare l’angoscia di chi stava davanti alla Tv e aveva familiari o amici allo stadio". Matteo scappò dallo stadio e nello shock forse non si era reso conto della gravità dell’accaduto. Se ne rese conto due ore dopo quando salito sul pullman che lo aveva portato a Bruxelles, accese la tv portatile e dalla voce di Bruno Pizzul sentì il telecronista Rai annunciare il numero dei morti. "Non credevo a quello che stavo sentendo. La partita fu giocata per motivi di ordine pubblico e forse fu la cosa più giusta. Almeno evitarono alle due tifoserie di darsi battaglia fuori dallo stadio. In questo modo dettero tempo all’esercito di intervenire e iniziare a far defluire gli inglesi fuori dallo stadio. Io non ho più rivisto quella partita. Ma quella coppa non la sento certo mia. Ha sbagliato la Juventus. Non dovevano né alzarla quella coppa, né tantomeno portarla in Italia. Quella fu una partita giocata per evitare ancora più morti". Ma il dolore più grande di Matteo Lucii, così come quello dei tifosi juventini è stato quello di vedere sia da parte della vecchia dirigenza bianconera, sia da parte della popolazione belga, come una sorta di rifiuto verso quello che era successo. "E’ stato ancora peggio vedere che qualcuno e qualcosa, volesse cancellare quello che era successo all'Heysel. Voler abbuiare tutto. Insomma far finta che quel giorno non fosse mai esistito. Questo mi ha fatto molto male. Non mi è piaciuto il comportamento della dirigenza della Juventus, né quello del Belgio. (Nel 1990 fu il Milan la prima squadra italiana a tornare in quello stadio dopo la tragedia, per un quarto di finale di Coppa Campioni. Prima dell’inizio della gara, il capitano Franco Baresi depositò un mazzo di fiori sotto il tragico settore Z. I tifosi belgi lo riempirono di fischi e offese, ndr). Ma questo comunque non mi ha impedito di tornare allo stadio. Adesso tutte le volte che torno allo stadio evito di mettermi vicino ai muretti o alle balaustre. Purtroppo quella sera mi ha insegnato qualcosa". Ha insegnato qualcosa a tutti. Anche se c’è voluto il sangue e la morte di 39 persone.

30 maggio 2013

Fonte: Okmugello.it

A-Z


NICOLA LUIGINI

Parla un testimone dell’Heysel: "In quell’inferno la polizia

poi si accanì contro i tifosi Juve invece di contenere gli inglesi".

Bianconeri Live (Tribuna.com) ha intervistato in esclusiva Nicola Luigini, tifoso Juventino di Modena, che ai tempi della tragedia compiva 26 anni. Di seguito il suo racconto in prima persona dell’incubo consumatosi in quella notte di follia.

Cosa ti portava all’Heysel per quella finale di Champions ?

"C’era una Juve forte, speravamo di vincere la Champions League. Eravamo andati anche a seguire le semifinali, ci credevamo…".

Che cosa è successo quel giorno ?

"Già nel pomeriggio del giorno precedente la finale c’erano stati un po’ di tafferugli, molte attività erano rimaste chiuse. Il giorno del match però sembrava tutto tranquillo, i pullman ci portarono allo stadio, una lunga coda all’ingresso, ma nulla di che. C’era un settore per i tifosi italiani, uno per gli inglesi. Poi si diffuse la voce che i posti in cui si consumò la tragedia non dovevano essere venduti agli inglesi. La divisoria era una rete da giardino, persino un bambino avrebbe potuto tirarla giù. Appena entrati sulle gradinate ci rendemmo conto dello stato di fatiscenza in cui versava lo stadio, una situazione che non poteva essere considerata normale nemmeno per gli standard di quegli anni. Il pomeriggio iniziò con una partitella fra settori giovanili in vista della grande finale. Già in quelle ore però si vedevano strani movimenti sul lato della tifoseria inglese e mancava un vero e proprio cordone di polizia in quella zona: gli uomini in divisa che c’erano visibilmente non erano in numero sufficiente per monitorare la situazione. Quando accadde l’irreparabile, i tifosi inglesi si riversarono nella zona in cui sedevano tifosi misti che cercavano di proteggersi. Si vedevano corpi cadere… Nel frattempo gli ultras della Juve a loro volta erano riusciti a varcare le barriere e a riversarsi in campo in cerca di una via di fuga. Molti di noi andarono dalla polizia che stava a presidiare il settore Juve per dire di andare a dare manforte ai colleghi poliziotti che non riuscivano a presidiare la situazione nel settore inglese. In tutta risposta la polizia caricò i tifosi della Juve. Vidi gente uscire in barella e a braccia, ma mai avrei immaginato che ci fossero stati dei morti. Solo dopo mi resi conti di quanto fosse grave la situazione".

È stato giusto giocare ugualmente quella partita ?

"So che molti non saranno d’accordo con quello che sto per dire, ma io credo di sì. Le persone all’interno dello stadio non si erano rese conto della gravità dell’accaduto, e in un certo senso questo fu un bene. Tenendo conto dell’inefficienza totale delle misure di sicurezza, se la gente fosse uscita e avesse scoperto che c’erano stati dei morti, sarebbe scoppiata una guerriglia e i morti avrebbero potuto essere molti di più. Le violenze si erano estese anche lontano dallo stadio: io e i miei amici fummo aggrediti dai tifosi inglesi al rientro in albergo. Erano sotto l’effetto di alcol, noi riuscimmo a difenderci, ma eravamo sopraffatti dalla tristezza. Festeggiammo la vittoria con poca voglia di farlo, solo tempo dopo ci rendemmo conto che quel rigore non esisteva e quella giornata, che doveva essere di festa, non aveva più alcun valore. Non ci facevano nemmeno più entrare ai ristoranti perché la gente credeva che la colpa fosse degli italiani: c’era una confusione generale".

Come fu il rientro ?

"Ci fermammo un giorno in più per aspettare i feriti dimessi dagli ospedali, in quell’occasione sentii racconti orrendi da parte delle vittime rispetto a quello che avevano subito. Per me nulla fu più lo stesso: non andai più in trasferta, non seguii più la squadra allo stesso modo. Avrei molte altre cose da raccontare, ricordi da condividere che si confondono nella testa, ma forse può già bastare questo".

Un grazie di cuore a Nicola Luigini da parte della redazione per la disponibilità e la gentilezza dimostrati in occasione dell’intervista.

31 maggio 2019

Fonte: Tribuna.com

A-Z

MAURO LUSETTI

Heysel - Finale Juventus Liverpool 29 maggio 1985

Ricordo di Claudio Zavaroni

di Mauro Lusetti

Ancora oggi mi sento un miracolato in quanto in quegli attimi pensavo veramente di non riuscire a portare a casa la pelle. Partii alla volta dell'Heysel assieme a Franco un amico di Reggio Emilia con un viaggio in pullman organizzato dall'agenzia Planetario. Eravamo in una cinquantina ed ovviamente tutti carichi per assistere ad una storica finale, come purtroppo si è rivelata ma per motivi non certo calcistici... Anche mio fratello Paolo decise di partire assieme ad altri amici con un viaggio organizzato dal Juventus club di S. Martino in Rio (RE). Io non sapevo in che settore dello stadio lui fosse stato assegnato come neppure lui sapeva del mio, né tantomeno i nostri genitori. Ci ritrovammo ai cancelli di ingresso dello stadio qualche ora prima dell'apertura; Settore Z. La temperatura era tiepidina ma con il calare della sera si fece sentire una fresca arietta. Avevamo con noi un giubbino di jeans, una felpa e poco altro. Ad un'oretta dall' inizio della gara o forse meno gli spettatori del nostro settore furono presi di mira dal lancio di pietre da parte dei tifosi Inglesi che intendevano recuperare più spazio nel loro settore garantendo una libera entrata ad altri tifosi senza biglietto. Volavano anche bottiglie e casse di birra. Lo stadio si sgretolava facilmente facilitando gli inglesi che potevano così trovarsi a disposizione una infinita quantità di pietre da poter scagliare. Da parte nostra nessuna reazione ma solo la volontà di fuggire da questo assalto. La fuga purtroppo si è fermata davanti alle transenne sulle gradinate e sul muro laterale di recinzione dello stadio. La folla venne pressata a tal punto che il respiro veniva a mancare. Il servizio di sicurezza (peraltro scarso e mal organizzato) rimase inerte e indifferente anche di fronte alla volontà della gente di poter entrare nel terreno di gioco per allentare la pressione che si era creata. In quei terribili momenti ed in pochi secondi ho ripercorso tutta la mia breve vita di allora quasi 19enne che aveva rinunciato alla gita della classe per risparmiare i soldi e poter andare ad assistere alla finale. Ero vicino al muro, la pressione era immensa, il respiro mancava. Vidi persone che riuscirono a scavalcarlo e mettersi in salvo. Ad un tratto la pressione si fece meno pesante e riuscii (non so ancora come) a salire sul muro. Aiutai altre persone a fare lo stesso e mi misi in salvo. Sentii grida che arrivavano dalla parte inferiore del muro laterale. Centinaia di persone che correvano, calpestando altre persone cercando di mettersi in salvo. Sirene di ambulanze, medici ed assistenti che trascinavano i corpi fuori dallo stadio come sacchi di immondizia. Non c'era organizzazione nonostante si sapesse da tempo il possibile pericolo dei famosi hooligans inglesi. Non c'era polizia, non c'era assistenza, nulla di nulla. Si seppe più tardi che in Italia qualcuno pianse sulla bara di un altro tifoso e che gli oggetti personali furono portati via dai cadaveri. I miei primi pensieri in quegli attimi andarono a mio fratello che era presente allo stadio ed ai miei genitori che erano sicuramente davanti alla TV, inermi spettatori di quel macello. Non si era ancora nell'era dei telefonini e chiamare a casa in quegli attimi fu impossibile. Tornata la "calma" rientrai nello stadio dalla parte superiore della gradinata settore Z: una sensazione di vuoto totale. Migliaia di vestiti, scarpe, effetti personali lasciati sulle gradinate dalla gente che all'impazzata cercava di mettersi in salvo. Io rimasi in maglietta e giubbino di jeans, persi le scarpe così come anche altri effetti personali. Sulla gradinata (ancora non so come) vidi uno stivale di mio fratello. Lo raccolsi stringendolo a me. Era proprio il suo. Dove sarà Paolo ? Vagai per la gradinata, scesi verso la recinzione del terreno di gioco e vidi mio fratello assieme ad altri amici. Ci abbracciammo, un attimo che durò un'eternità. Non si poteva restare su quella maledetta gradinata del settore Z. Gli organizzatori dei vari Operators si indaffaravano per radunare le persone appartenenti ai loro gruppi. E Franco ? Lo rividi fuori dallo stadio di fianco alla tribuna assieme ad altri ragazzi del nostro gruppo. Ci fecero radunare sotto la tribuna centrale. Dissero che non era sicuro stare fuori dallo stadio per timore dei tifosi inglesi. E la partita ? Giocano ? Non giocano ? Che importava ? Tutto si è fermato nel momento del crollo del muro e della morte dei nostri amici. Il tempo si è fermato in quel preciso istante nella mia memoria. Assistemmo alla partita nella parte inferiore della tribuna centrale. Si vedeva bene la gradinata del settore Z. Era vuota, odore di morte dappertutto. Ma la mia memoria, ferma, non ricorda un attimo di quella partita, solo alcuni lampi, alcuni flash. Si percepiva solo l’insulso odio degli hooligan, l’avanzare degli inglesi che lanciano per aria gli effetti personali dei tifosi esanimi. Uno sfregio alla persona e alla sua dignità. Al termine della partita ci ritrovammo tutti sul pullman. Tutti tranne uno, Claudio Zavaroni. Dov'è Claudio ?? Ci si affannava a chiedersi chi lo aveva visto, se era nell'elenco dei morti o feriti. Niente, nessuna conferma o smentita. Avremmo dovuto andare a dormire in un hotel fuori dal Belgio. Tutti, di comune accordo decidemmo che non era il caso e girammo nei vari ospedali della città alla ricerca di notizie che riguardavano Claudio. Passammo tutta la notte in pullman senza avere notizie certe di Claudio. Al mattino fu possibile, tramite (non ricordo bene) il Consolato o l'Ambasciata poter telefonare ad i nostri cari in Italia e comunicare che per fortuna stavamo bene e che saremmo ripartiti la mattina stessa alla volta dell'Italia, senza Claudio purtroppo. Le notizie che ci giungevano erano frammentarie. Chi diceva che Claudio era rientrato con altri amici, chi ci diceva che era ferito, altri alla fine (purtroppo a ragione) morto; non volevamo credere. Non ho mai più rivisto le immagini della partita. Non voglio commentare se era giusto o non giusto giocare quella partita. Qualsiasi decisione fosse stata presa era quella sbagliata. Non importava ormai più niente a quelli del settore Z. Voglio comunque rivolgere una critica alla squadra. Non si gioisce, non si fanno giri di campo con la coppa quando sei a conoscenza della tragedia che si era compiuta. E dire che si era in un calcio milionario sì, ma non ancora miliardario come quello degli anni 90 dove tutto va bene pur di far muovere il circo e il denaro. Non c'erano ancora i grossi interessi degli sponsor e delle TV ma si volle giocare e soprattutto esultare. La coppa, come ha giustamente scritto qualcuno, doveva essere lanciata verso la tribuna, verso i dirigenti dell’Uefa che hanno voluto quello stadio e quella vergognosa organizzazione. Tutto ciò avvenne anche a causa della totale inadeguatezza dello stadio Heysel e della mancanza di un seppur minimo servizio di sicurezza, ma come cita il testo sul biglietto...

L'organizzatore declina tutta la responsabilità di eventuali incidenti, di qualsiasi natura essi siano, che potrebbero accadere prima e durante la manifestazione sportiva per il quale il biglietto è stato acquistato. Accettando questo biglietto, il titolare rinuncia a tutti i ricorsi per responsabilità contro l'organizzatore. Ricordando quella terribile serata, spero di aver dato un contributo alla memoria dell'amico Claudio Zavaroni. Non ci conoscevamo ma era un amico, in ogni caso un amico. Qualcuno una volta scrisse: "Nessuna persona è morta finché vive nel cuore di chi resta". Al contrario, tutti hanno voluto dimenticare la tragedia e i suoi morti: l’UEFA, il Belgio, la città di Bruxelles, la polizia. Come se nulla fosse successo. Hanno addirittura cancellato lo stadio, ricostruendolo e cambiandogli nome, nella speranza di eliminare anche il ricordo di quella tragica sera.

29 Maggio 2010

Fonte: Vivishanghai.com

A-Z

www.saladellamemoriaheysel.it  Domenico Laudadio  ©  Copyrights  22.02.2009  (All rights reserved)