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Telespettatori Heysel B
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Testimonianze Telespettatori Heysel (B)
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GIOVANNA BACCI

"La porti un bacione a Firenze"

Riceviamo e pubblichiamo una toccante testimonianza di affetto per la Memoria dei nostri cari, inviataci ieri dalla sensibilissima signora Giovanna da Firenze.

Mi chiamo Giovanna, ormai ho 58 anni e anche quest’anno ho celebrato il mio, molto intimo, giorno della memoria. Avete ragione: la memoria è importante. Vi scrivo soltanto per farvi sapere che molte, moltissime persone, anche quelle improbabili come me, ricordano quella notte e ciò che è accaduto. Magari, così come ho fatto io, lo ricordano in silenzio, senza dirvelo perché pensano che sia insignificante. Ma ricordiamo. E vi ringraziamo perché continuate a ricordare. Andate avanti ! Il vostro lavoro, il vostro dolore, la vostra dedizione è importante per tutti. Vi lascio la mia testimonianza. Forse inutile, ma per me è solo un pensiero posato su quelle 39 tombe.

L’anniversario. Mia sorella Daniela è morta a 26 anni il 29 Maggio del 1984. Una morte improvvisa, assurdamente causata da una cisti che ha rotto l’arteria femorale. Una manciata di minuti e tutto era finito per sempre. Esattamente un anno dopo, sulla mia bella Firenze cade lentamente un tramonto dolce che ha i colori dell’estate. Ceniamo prestissimo, in silenzio. Io ho vent’anni ma da quando è morta Daniela vivo la vita come attraverso un velo. La mia allegria, la mia energia, esistono a momenti, per il resto è una commedia tragica dove fingo emozioni che non riconosco. Ho iniziato l’Università, ai nuovi amici non dico nulla perché sono imbarazzata dall’imbarazzo che provoca il dolore dell’Altro. Lo risparmio a tutti. È difficile sopravvivere a chi amiamo. È duro chiedersi perché non io. È duro consolare e non chiedere consolazione. Capisci che ogni respiro di tuo padre, di tua madre, è solo perché tu sei ancora viva. Non puoi più sbagliare, non più. Dopo cena, mia madre va a dormire. In realtà si chiude in camera per poter piangere da sola. La sento singhiozzare. Non posso lasciare mio padre da solo… C’è Juve-Liverpool, per fortuna. La Coppa. Io e lui siamo da sempre tifosi Viola, abbonati da quando ho memoria. Dacché son grande però, lui va in tribuna, io in curva Fiesole: tutte le volte che il tempo è brutto gli auguro per scherzo che piova "a vento", così un pochino si bagnano anche loro. Quell’anno sopporto anche la neve, perché il gioco del pallone è il più bello del mondo. Ci credo davvero, è una passione bellissima, quasi forte come l’Amore. Quella sera mio padre è terreo. Come me, come la mamma, si fa forza schiantato da un dolore che sopportiamo a stento e che, "quella" sera, sembra più acuto. Ma c’è Juve-Liverpool, la speranza è che forse riusciamo a non pensare per un paio d’ore. Sono grata di questa opportunità; riesco persino a immaginare che sarà bello vedergliela perdere anche questa volta. Mio padre no, lui è davvero uno sportivo: se gioca una squadra italiana spera sempre che vinca. Se invece non vince va bene lo stesso, per lui avrà sempre vinto la Migliore. Accendiamo la tv, lui sulla sua poltrona, io su quella "del popolo", cioè l’altra. La voce di Pizzul, rassicurante. Per fortuna ci sono cose che non cambiano mai. Le prime immagini. "Maremma quanta gente…". "Sì, ma, boh, che stadio… Ci si lamenta del Franchi…".

All’inizio non capiamo. Ascoltiamo poco il commento, più che altro cerchiamo di parlare tra noi per non stare in silenzio. Nel vedere quel caos, ce la prendiamo subito con gli italiani, le telecamere inquadrano solo loro, chissà che avranno combinato… Poi, ce la prendiamo con la polizia, soprattutto io, che ogni domenica, in curva, ho la sensazione di essere assediata e invece lì, a una finale di Coppa, vedo tre gatti in divisa. Poi, ce la prendiamo con tutti. "Insomma, guarda che casino… "Ovvìa, su", per una partita ! Guarda come hanno ridotto lo stadio ! La gente che aspetta… Chissà che sete… Ci saranno bambini… E questi continuano a voler fare a botte… Mah, sempre la stessa storia. Eh, la mamma ha ragione a prenderci per grulli perché la domenica si va allo stadio !". Lentamente tra noi cala il silenzio. Ma lo stesso non vogliamo capire. Un morto è una tragedia, una catastrofe, un morto è Daniela. Alcuni morti, 24 morti, 36 morti dentro uno stadio sono incomprensibili. Iniziamo a chiederci sottovoce se sia il caso di giocare… "È successo qualcosa di grosso, questa volta hanno esagerato, bisogna dare un segnale !". No, non si dovrebbe giocare. Concordiamo. Ma l’Ordine pubblico, la Sicurezza… Mio padre è sempre stato un uomo di buon senso. Le immagini continuano a scorrerci davanti agli occhi. Il babbo ora è immobile, impietrito, ed io non oso nemmeno guardarlo. Siamo sprofondati dentro le nostre poltrone. Muti e attoniti. Inizia la partita. Dobbiamo guardarla, siamo entrambi senza alcuna forza di reagire, non abbiamo il coraggio di dire all’altro che ne abbiamo abbastanza, perché è "quella" sera… Va bene, va bene tutto, pur di non parlare ancora di Daniela. Guardiamo, guardiamo. Dopo un po’, invece, cediamo: le lacrime inondano prima il viso di mio padre, poi il mio. Mi alzo, mi rannicchio nella sua poltrona, tra le sue braccia, e piangiamo insieme. Piangiamo per ognuno di quei morti perché abbiamo finalmente capito… Ed ognuno di loro si chiama Daniela, ha il suo viso, i suoi bellissimi capelli ricci e il suo profumo. Ognuno di quei morti diventa nostro, come lei. E tra i singhiozzi la chiamiamo e chiamiamo quelle povere madri, i padri, i fratelli, i figli di quelle persone che non conosciamo. In quei momenti ci sentiamo noi due, la loro famiglia. Sappiamo quanto soffriranno e mentre ci stringiamo l’uno all’altra, come naufraghi, stringiamo tutti loro. Quando ci sembra di non aver più lacrime, spegniamo la tv e, in silenzio, andiamo a letto anche se non dormiremo. Non abbiamo visto il goal, né sentito Pizzul chiedere il permesso di gioire. Non abbiamo visto la Juve alzare la coppa. Non abbiamo visto il giro della vittoria. Ci vorranno giorni per capire davvero, per appena intuire cosa è sommariamente successo. Ci vorranno mesi, anni, per sentire il sapore autentico del disgusto. Mio padre ed io non abbiamo mai più parlato di quella sera. Troppo dolore e persino la vergogna di non aver aiutato l’uno il dolore dell’altra, di essere crollati, di non essere stati forti mentre l’altro cedeva. Ma da allora ho sempre ricordato, insieme a mia sorella, i morti dell’Heysel. Ogni anno, giorno più, giorno meno. Giovanna Bacci

18 giugno 2022

Fonte: Associazionefamiliarivittimeheysel.it

© Fotografia: Giardinaggio.net

NOTA BENE: Autorizzazione alla pubblicazione della lettera in esclusiva su questo dominio web. Resta sottinteso il divieto assoluto alla riproduzione integrale o parziale del testo, così come alla sua diffusione in altri siti e canali social privati del riferimento diretto alla fonte originaria.

A-Z

GIUSEPPE BARRECA

"L'Heysel alla Tv"

Questa è la storia di un bambino. Undici anni e una incontrollabile passione per il calcio e per la Juventus. Una passione smodata che non lo fa pranzare o cenare quando c’è una partita; che rende le sue domeniche spesso cariche d’ansia, d’attesa e poi di una gioia irrefrenabile o di un’enorme tristezza. Un bambino un po’ eccessivo. Per questo il papà spesso cerca di distrarlo, di fargli amare altre cose; ma non ci prova più di tanto, perché è un bambino bravo a scuola. Dunque il papà gli permette di lasciarsi andare mentre guarda in TV o ascolta alla radio le partite della Juventus. E poi questa sera nulla può distogliere il bimbo dalla televisione; il papà lo sa e non dice nulla. Anche a lui piace il calcio. Il bimbo quella sera mangia poco, è molto eccitato: è appena tornato da una gita con la scuola sul fiume Po e non sta più nella pelle, in attesa dell’inizio della partita. È la finale della Coppa dei Campioni, l’unica coppa europea che la Juve non ha ancora vinto, la coppa più prestigiosa, che la squadra insegue da anni, dopo aver perduto ben due finali: con l’Ajax nel 1973 e con l’Amburgo nel 1983. Il bimbo è impaziente di vedere i suoi eroi, con la maglia a strisce bianco-nere, scendere in campo. Perché questa volta è sicuro che vincerà la Juve: quella coppa non può sempre essere stregata. Anche se l’avversario, il Liverpool, è uno squadrone, composto da giocatori fortissimi, esperti. Ma forse un po’ decadenti. Per questo il bimbo, che ha seguito tutta la cavalcata della Juve quell’anno, è fiducioso. A cena il bimbo mangia poco, ha lo stomaco chiuso per l’agitazione. La gita sul fiume Po è già dimenticata, perché ora c’è solo la Juve. La gita è stata bella, con i compagni di scuola non si è parlato d’altro che di calcio, la "Gazzetta" è stata la compagna fedele del giorno. Il bimbo non si ricorda quali luoghi ha visitato, né dove ha pranzato. Ha in testa solo la Juve, stasera, il divertimento, il pallone, l’emozione, il cuore che batte in attesa della partita. Manca poco alla partita, sono quasi le sette e mezza. Il bimbo è impaziente. La Tv trasmette in diretta dallo stadio di Bruxelles, lo stadio Heysel. È il 29 maggio 1985. Il bimbo è seduto sul divano vicino al papà, ma capisce subito che c’è qualcosa che non va. Perché il papà fa commenti strani, quasi preoccupati, mentre guarda le immagini. Pure lui ama il calcio, ma non è juventino, è milanista. Però non commenta la partita, che non è ancora cominciata; dice che sta succedendo qualcosa, qualcosa di brutto. Il bimbo guarda e non capisce, i suoi occhi non sanno ancora distinguere bene il "brutto", soprattutto quando si tratta di una partita di pallone, cioè di qualcosa che per lui è il massimo della bellezza, del divertimento. Eppure in quello stadio belga qualcosa di brutto dev’essere successo davvero. Il telecronista, Pizzul, non racconta la partita (che dovrebbe essere già cominciata), ma parla di incidenti; le immagini della Tv riprendono una curva piena di bandiere bianco-nere. Ma non sventolano affatto; il bimbo vede che i tifosi della Juve corrono, scappano, sembrano delle formiche che fuggono davanti a un gigante. Alcuni scappano verso il campo di gioco, ma ci sono poliziotti a cavallo che li bloccano, li manganellano; altri corrono verso altri tifosi, che però hanno le bandiere rosse, sono quelli del Liverpool: e si picchiano, tanto. Il bimbo non capisce, il papà dice: "che deficienti, che animali, cosa fanno ? Chi li ha fatti incontrare ?". I tifosi delle squadre avversarie non dovrebbero stare lontani in una partita così ? Il bimbo ha letto sulla Gazzetta che tra i tifosi inglesi ce ne sono alcuni molto cattivi, tremendi, chiamati "hooligan"; non sa cosa significa questa parola, però, ora che li vede in azione, capisce che sono tifosi molto bravi a menare le mani, a inseguire i tifosi avversari, a farli scappare. Ma anche gli juventini si danno da fare, sembrano cattivi anche loro. Poi il telecronista dice che la partita non può iniziare: forse è rinviata, forse sospesa perché ci sono tanti feriti, qualcuno anche grave. Feriti gravi ? Allo stadio ? Il bimbo non ci crede. A un certo punto squilla il telefono: sono i nonni dalla Calabria che hanno visto le immagini e chiedono se il bimbo è lì a casa o se magari è andato a Bruxelles a vedere la partita. I nonni ! Che esagerati ! Il papà li tranquillizza. Mentre il bimbo sorride sentendo la telefonata, vede in Tv i giocatori della Juve in campo. Ma non sono lì per giocare: hanno la tuta addosso e parlano con i tifosi. Il bimbo riconosce Platini, Tacconi, Bonini, Scirea: tanti tifosi stanno attorno a loro, li abbracciano, li salutano, ma c’è anche qualcuno che piange, che quasi li prega… Ma non si gioca allora ? Sono le otto e mezzo ormai. Nessuno dice nulla in Tv. Poi, più tardi, il bimbo vede che ci sono tifosi con le bandiere e le sciarpe della Juve che sembrano accatastati l’uno sopra l’altro. Il papà, che è tornato sul divano, è sconvolto, dice che sono aggrappati a un palo di ferro, che saranno centinaia, che presto il muretto che confina con quel palo crollerà. Molti tifosi sono scappati verso quel muro per sfuggire ai tifosi del Liverpool: ma ora sono tutti ammassati, schiacciati. In Tv si vedono alcune facce: c’è chi ha i baffi, chi gli occhiali, i visi sono sconvolti. Si vede un uomo con una giacca blu sospeso nel vuoto: ha le gambe in mezzo alla folla, il corpo sul vuoto, ed è aggrappato disperatamente al palo di ferro… Poi succede che tutti vengono giù, non si capisce bene, il telecronista dice che deve essere crollato il muretto. Si vedono tifosi cadere, altri tifosi correre sopra di loro, scappare, calpestare i corpi, i maglioni, i pantaloni degli altri e fuggire, liberi finalmente, verso il campo, verso la pista d’atletica. Il bimbo si stringe al papà, ha una strana paura. L’emozione per la finale di Coppa dei Campioni è svanita. Ha visto quelle facce, quelle persone schiacciate contro quel muro, poi le ha viste cadere tutte insieme, a centinaia una sopra l’altra. Forse si sono salvate, si sono tolte dalla calca. Non si sa, perché il telecronista non dice nulla, le immagini della Tv inquadrano diversi settori dello stadio. Sono ormai quasi le nove. La Tv continua a dire che ci sono feriti gravi, forse "molto" gravi. Intanto il bimbo vede che ci sono poliziotti a cavallo davanti alla curva degli juventini, quella che è crollata. E poi vede tante ambulanze andare e venire, sembra una "guerra", dice il papà. Poi la notizia attesa: la partita si giocherà, l’UEFA, che organizza la finale, dice che se non si gioca succede il finimondo. E il bimbo ha di nuovo un sussulto d’emozione, perché ora la Juve scende in campo e bisogna tifare, vincere quella coppa. Però non è contento come altre volte, quando vedeva le partite… Alle 21.15 comincia la partita, con un’ora abbondante di ritardo. Il bimbo vede i suoi eroi, recita a memoria la formazione della sua squadra, di quella fortissima Juventus piena di italiani campioni del mondo e di quel poeta del pallone di nome Platini. Il bimbo non pensa ad altro, se non alla partita. Il cuore batte forte. Ma il telecronista non alza la voce quando c’è un’azione pericolosa, né sembra raccontare una partita; il tono della sua voce è monocorde, mesto. Spesso non parla della partita, ma delle notizie che arrivano dallo stadio, dagli ospedali di Bruxelles. Dice che fuori dallo stadio sono state montate alcune tende dove sono curati i feriti più gravi. Poi dice che sente continuamente sirene di ambulanze. Poi dice che forse c’è stato un morto tra i tifosi italiani; il bimbo non ci crede, il papà è sconvolto, nemmeno lui ci crede. Ma perché il papà è così sconvolto ? Non conosciamo nessuno che è andato a Bruxelles. Il bimbo non capisce bene il primo tempo scivola via, zero a zero. Ma il Liverpool è forte, il bimbo freme, ha paura, perché la Juventus soffre, ha rischiato di prendere più volte il gol, non ha attaccato molto. Ci manca pure di perdere anche questa finale ! Inizia il secondo tempo e la Juve sembra più intraprendente. Finalmente i suoi campioni si sono svegliati e Platini comincia a pennellare poesia con i piedi. La partita è combattuta, coinvolgente, ma il telecronista non sembra accorgersene: dice che forse c’è più di un morto, che le autorità belghe non diffondono notizie attendibili, che certe cose non possono succedere in uno stadio. Il bimbo non ascolta più: vede un pallone lanciato da Platini, vede Boniek che corre verso la porta del Liverpool, da solo. Poi però cade: l’arbitro fischia il rigore, non si capisce bene perché, Boniek era fuori area. Ma è rigore. Platini segna, esulta, il bimbo è felice, corre per il salotto di casa pieno di gioia. La partita riprende e quelli del Liverpool sembrano indemoniati: attaccano con forza, vogliono pareggiare, Tacconi para tutto, è il migliore in campo. Alla fine la Juve vince, la Coppa dei Campioni prende la strada di Torino. Il bimbo ha seguito con il cuore in gola il secondo tempo e al fischio finale può liberare la sua gioia. Non sta più nella pelle. Il papà invece ha la faccia triste, ma non dice nulla al bimbo, lo lascia sfogare. Forse, quando sarà più grande, capirà, e lui gli spiegherà la tragedia che si è consumata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. Ma stasera il papà vuole fare sognare suo figlio ancora un po’. Fra qualche tempo gli parlerà dei 39 morti di quella sera.

28 maggio 2010

Fonte: Poesiaescrittura.blogspot.com

A-Z

DOMENICO BECCARIA

Chi inizia e chi finisce

di Domenico Beccaria

Ero a casa, con mio padre e attendevamo di assistere alla finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora, che si disputava allo stadio Heysel di Bruxelles, tra la Juventus e il Liverpool.

Sono passati trentatré anni ma sembra ieri. Le immagini un po' sfocate in bianco e nero che arrivavano dal Belgio e riempivano d’orrore i televisori ed i cuori di tutti gli italiani, non si possono cancellare dalla mente di chi le ha viste. Ero a casa, con mio padre e attendevamo di assistere alla finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora, che si disputava allo stadio Heysel di Bruxelles, tra la Juventus e il Liverpool. Mio padre, granatissimo ma vecchio stampo, aveva lo spirito nazionalista che lo portava a simpatizzare sempre e comunque per il concorrente italiano che disputava il successo allo straniero. Io, altrettanto granata, ma moderno, ero apertamente schierato per i rossi britannici, perché per quanto nazionalista potessi essere, ero disposto a fare eccezione se a rappresentare il tricolore erano loro, gli acerrimi rivali cittadini. Ma quella sera era destino che lo sport passasse in secondo piano rispetto alla tragedia umana che si stava consumando attorno a quel fatiscente impianto, che sarebbe stato indegno anche dei combattimenti tra gladiatori dell'antica Roma, non solo di una finale europea di fine Novecento. Non eravamo preparati a una cosa così. Nessuno lo era. I corpi ammassati uno addosso all'altro, a bramare un soffio d'aria e un centimetro di spazio, che potevano significare la differenza tra la vita e la morte. Qualcuno giaceva esanime a terra, con un amico o un parente che cercava di dargli conforto. Qualcun altro invece era riverso al suolo per sempre, la fragile fiammella che era in lui spenta per sempre. Un padre che piange la figlia è l'immagine che cristallizza tutto questo orrore e lo sintetizza al meglio. Chilometri su chilometri, fatica, sacrificio, ma anche gioia e speranza, travolti da un'insensata carica di bestie ubriache di birra e di sangue. Non voglio stare qui ora a cercare le responsabilità, che appaiono fin troppo chiare agli occhi di chiunque. La storia, anche se non i tribunali, hanno detto a chiare lettere chi e dove ha sbagliato, tanto che da quel giorno si è innescato un lento ma inesorabile processo, che ha portato agli stadi moderni e "sicuri" di oggi. Ma un paio di considerazioni lasciatemele fare. L'unica cosa che ha lasciato più allibiti della tragedia è stato che, alla faccia di tutto e tutti, si sia disputata una partita di calcio e si sia consegnata e, ahimè, da parte di molti, anche festeggiata una coppa. Ordine pubblico, si disse allora e si ripete oggi. Sarà, ma a posteriori si sarebbe potuto, anzi dovuto, dichiarare nulla la finale, non aggiudicando il trofeo e contestualmente devolvere, primo ma doveroso risarcimento, l'intero incasso della serata, biglietti, diritti tv e quant'altro, alle vittime e alle famiglie. La seconda considerazione va all'uso infame e carognesco della tragedia e del dolore, messo in campo in molti stadi italiani, per deridere e offendere gli avversari bianconeri. E noi granata, mettiamoci pure una mano sulla coscienza, la nostra parte l'abbiamo fatta, senza tirarci troppo indietro. Non ci pareva vero, dopo trentasei anni di areoplanini e di cori su Superga, di poterci prendere una rivincita sugli odiati nemici, che per ferirci e offenderci non avevano esitato ad oltraggiare la memoria degli Immortali. E anche di Meroni e Ferrini. Ora toccava a noi, avevamo il coltello dalla parte del manico e la ferita che sanguinava era la loro. Stolti e miopi, non ci siamo resi conto che due cose sbagliate non ne facevano una giusta. Ci sono voluti anni di sedimentazione delle scorie, di metabolizzazione del dolore reciproco, di maturazione umana, per arrivare a capire tutto questo. Non smetterò mai di ringraziare gli amici, sì, amici bianconeri Domenico Laudadio, Francesco Caremani, Beppe Franzo, Iuliana Bodnari, Rossano Garlassi, Nereo Ferlat e Fabrizio Landini e mi scuso per tutti gli altri che non riesco a citare qui, con i quali abbiamo dato inizio e poi proseguito in questo cammino di conoscenza, poi di comprensione e infine di redenzione. Con loro siamo cresciuti insieme, stimolandoci un l'altro a tirare fuori il nostro lato migliore e a diffonderlo a tutti. La mostra "Settanta Angeli in un unico Cielo - Superga ed Heysel tragedie sorelle", realizzata con il mio "Fratellino - Direttore" Giampaolo Muliari in collaborazione col duo Laudadio e Caremani, ha avuto una gestazione tribolata, con mille discussioni se la gente fosse pronta a capire oppure no. Ma bisognava farla, erano in settanta, da lassù, a chiedercelo e con loro c'era tutto il buon senso del mondo, quello cui bisognerebbe attingere a piene mani prima di aprire bocca o muovere le mani. Oggi quella mostra è diventata itinerante e credo che molti passi avanti siano stati fatti da entrambe le parti, ma molti ce ne sono ancora da fare, insieme, e pur mantenendo intatte le rispettive identità e differenze, come la leale competizione agonistica sportiva prevede. Ma li faremo tutti, fino all'ultimo. Perché non conta chi ha avuto la vigliaccheria di iniziare ad offendere, ma chi avrà il coraggio di finirla.

29 maggio 2018

Fonte: Torinoggi.it

A-Z

STEFANO BELLINI

Il "mio" Heysel

La passione è un sentimento straordinario, ti dà sensazioni fortissime ed intense. La passione mi ha regalato molti momenti indimenticabili e tra questi avrei voluto fortemente che fosse stato presente anche QUEL MOMENTO LI’… Quello del 29 Maggio 1985. Quello del grande evento, quello della rivincita, quello della "prima volta", quello della Coppa dei Campioni (…Nome più affascinante dell’attuale Champions League). E invece no. Adesso, a distanza di quasi 24 anni, mi dà grande imbarazzo ricordarmi che, quella sera, l’infinita passione per la mia Juve prese il totale sopravvento sulla ragione. Non capivo cosa stava succedendo, qualche indiscrezione cominciava ad uscire fuori, ma in me cresceva il fastidio (…Sì fastidio… A pensarci adesso mi vergogno…) tipico della festa rovinata. Ho gioito, ho esultato ma con il freno a mano tirato, perché dentro di me avevo una strana sensazione, un senso di tormento. Il giorno dopo la tremenda conferma. Assolutamente stravolto, il primo pensiero fu "non è possibile che tutto ciò sia capitato proprio alla mia Juve", non 2 anni dopo Atene. Non sono stato presente a Bruxelles (...Ah il destino !) ma, grazie ad un episodio casuale accaduto il 29 Maggio 2008, ho avuto la possibilità di sentirmi anch’io partecipe di quella maledetta sera. Collaborando alla preparazione di una puntata speciale televisiva sull’Heysel nel 2008, ho avuto la fortuna di contattare e conoscere il signor Otello Lorentini, padre di Roberto, uno dei 39 Angeli, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime. Appena mi presento e gli spiego il motivo della mia telefonata percepisco subito in lui un sentimento di naturale diffidenza che capirò più tardi. Molto gentile e schietto mi dice che, di questa tragedia, lui ne ha parlato abbastanza e che è tutto scritto in un libro, L’UNICO CHE DICE TUTTA LA VERITA’. (N.D.R. Le verità dell’Heysel. Cronaca di una strage annunciata di Francesco Caremani) Continua dicendomi che in molte trasmissioni televisive si sono dette tante fesserie, pensando più alla forma che alla sostanza delle cose. Lo convinco ugualmente ad intervenire telefonicamente garantendogli che potrà raccontare tranquillamente la sua verità. Lorentini mi chiede solamente a che ora è previsto il suo intervento perché, il giorno della trasmissione, c’è la solenne Messa in ricordo dei defunti. Un brivido intenso percorre la mia schiena. Onore ai defunti. Termina la telefonata ed io penso: dov’è la Juventus in tutto questo ? Lorentini non l’ha mai nominata ed in più mi confessa che il nipote Andrea, figlio di Roberto, è simpatizzante dell’Inter perché la Juve proprio non riesce a tifarla. Credo fermamente che il ricordo dell’Heysel debba vivere sempre in noi tifosi bianconeri e NON e credo che, in primis, debba essere proprio la nostra amata Juventus a ricordarcelo sempre. FORZA JUVE, vinci anche fuori dal campo !

29 maggio 2010

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

LORENZO BENOCCI

Il mio viaggio all'Heysel. Per non dimenticarli

Ci sono quei pochi scalini da salire, una volta arrivati alla penultima fermata della linea 6, quella di colore azzurro. E poi, giunti in cima, lo sguardo va, in modo naturale, dove deve andare. Con un groppo in gola. Con gli occhi che diventano lucidi. Sono all’uscita della metropolitana di Bruxelles, fermata Heysel. A sinistra c’è lo stadio oggi intitolato a Re Baldovino. Sono passati 28 anni e poco più di un mese da quel 29 maggio del 1985. Quella sera la mia Juventus giocava un’altra finale di Coppa dei Campioni dopo soli due anni da quella sfortunata di Atene, dove il più debole e sottovalutato Amburgo ci beffò con il diabolico Magath. Ma ora abbiamo la possibilità di rifarci contro quel Liverpool che l’anno prima aveva trafitto ai rigori la Roma, direttamente a domicilio. Ricordo perfettamente quella serata. Con l’ansia di un bambino torno a casa con mio babbo, dopo essere stato come tutti i mercoledì a scuola di musica. In auto parliamo della partita, e di cos’altro potevamo parlare ? L’ansia pre-partita stava crescendo. Ma dalla radio apprendiamo che qualcosa non è andato come doveva andare e che anche lo svolgimento della partita sarebbe stato in dubbio. Poco dopo, siamo davanti alla tv, a vedere quelle immagini terribili, di guerra più che di sport, senza capire fino in fondo cosa stava accadendo. In quei momenti un altro bambino di quasi undici anni, esattamente della mia età, si trovava allo stadio proprio nel settore maledetto con suo padre. Insomma, un sogno, per lui, poter vedere la Juve che gioca una finale. Ma quel bambino la partita non l’ha mai vista, ed a casa non c’è più tornato. Così come suo babbo ed altri 37 spettatori, di cui 32 tifosi della Juve. I 39 angeli dell’Heysel. Sono passati 28 anni, ma sembra un giorno. Una tragedia che nessuno potrà dimenticare, troppo intensa, troppo assurda, anche perché sarebbe potuta accadere a chiunque. Inutile ricordare i fatti e le responsabilità, le sappiamo. In cuor mio da sempre mi sarebbe piaciuto fare una visita allo stadio maledetto; senza un motivo apparente, solo per toccare quei muri dove si è compiuta una delle più crudeli brutalità della storia recente, non solo dello sport. Solo per riflettere. 39 persone che sono morte mentre aspettavano l’inizio di una partita di calcio. Assurdo. Finalmente sono potuto andare a Bruxelles (per altri motivi), e così il mio viaggio all’Heysel si è compiuto. Chiedo ad un giovane operaio che stava lavorando all’ingresso dello stadio dove fossero la lapide alla memoria e la meridiana che proprio nei giorni scorsi la municipalità di Bruxelles ha deciso di salvare dall’abbattimento dello stadio (e la costruzione di un nuovo impianto nello stesso punto), grazie ad una petizione organizzata da alcuni fantastici tifosi della Juve. L’operaio mi risponde che non lo sapeva. Anche altri due ragazzi che facevano jogging nel perimetro esterno dello stadio non avevano mai saputo che ci fosse la lapide. Mi rendo conto che il Belgio ha voluto dimenticare in fretta questa pagina di vergogna, il nome dello stadio - oggi Re Baldovino - me lo conferma.

 
Lorenzo Benocci Bruxelles 2013

Arrivo finalmente nel lato dell’ingresso principale e sullo sfondo noto la meridiana. Qualche passante mi guarda stranito, pensa a che cosa ci possa fare con il mazzo di fiori gialli che tengo in mano. Mi dirigo dritto verso la meridiana, ci sono le 39 luci - ovviamente di giorno sono spente - ma nemmeno una targhetta a spiegare che cosa significhi questo anonimo monumento. Qualche metro davanti nel muro dello stadio la famosa lapide, con i nomi dei 39 angeli caduti quel 29 maggio, inaugurata nel ventennale della tragedia dal borgomastro della capitale belga. C’è anche il nome di quel bambino, Andrea Casùla, a cui tante volte ho pensato in questi anni. E ci sono tutti gli altri. Mi metto a riflettere, a ripensare alle immagini di quel giorno viste tante volte, ai giornali che ho conservato ed ogni tanto rispolverato. Mi chiedo perché è potuta succedere una cosa del genere. Perché le forze dell’ordine, l’organizzazione della finale e chiunque potesse evitare questa tragedia non ha fatto niente per evitarla. Mi chiedo se fosse stato utile e giusto giocare quella partita. E se i giocatori bianconeri avessero dovuto alzare quella Coppa al cielo. Mi chiedo perché la Juventus, intesa come società, non ha fatto abbastanza per ricordare i fratelli bianconeri morti all’Heysel. Mi chiedo perché persone "normali", per bene e all’apparenza pacifiche, quando vanno allo stadio e quando parlano di Juve debbano avere questo odio inspiegabile che va oltre lo sport fino a profanare persino la memoria di vittime innocenti. E perché lo sport non debba rimanere tale invece di valicare il confine dell’inciviltà e dell’odio, come nemmeno nelle guerre fatte per motivi più importanti ciò accade ? Indossare una maglia del Liverpool con la scritta "meno" e il numero "39" è una vergogna bella e buona; così come i cori che dopo 28 anni risuonano ancora in alcuni (molti purtroppo) stadi italiani. Ci vuole rispetto qualunque sia il colore calcistico di ognuno. Riesco poi ad entrare dentro lo stadio, e mi orizzonto fino ad arrivare a quello che fu il settore Z. L’emozione è ancora maggiore. Mentre appoggio il mio mazzo di fiori in quella gradinata mi siedo e penso ancora a quelle immagini di sangue e di morte. Guardo il punto dove Zibì Boniek subì il fallo da rigore, la porta dove Michel Platini segnò il gol decisivo dal dischetto. La cabina - anche se oggi trasformata dopo la ristrutturazione dello stadio - dove Scirea lesse la comunicazione che la partita si sarebbe giocata per motivi di sicurezza. Esco e torno davanti alla lapide ed un giovane padre di famiglia, mi passa vicino, gli chiedo se può farmi una foto e parliamo del mio mazzo di fiori. Si ricorda - mi dice - della tragedia dell’Heysel anche se le sue informazioni sono molto incerte e frammentarie. Gli dico che non ho parenti o amici fra quei 39 morti, ma che sono qui "solo" per ricordare quei tanti fratelli bianconeri, che erano ognuno di noi. Insieme ai fiori anche il biglietto che ho portato a nome di tutti gli amici dello Juventus Club Doc Valdorcia -Valdichiana "Beppe Furino": In memoriam - 39 angeli sempre nei nostri cuori". Depongo il mazzo di fiori, è l’ora di ripartire. Dopo qualche passo mi giro indietro, un gruppetto di cinque-sei persone si avvicina a leggere la lapide e il biglietto nei fiori. Ciao Andrea, ciao angeli dell’Heysel, nessuno di noi vi dimenticherà mai. Un ultimo pensiero è per le loro famiglie, ma anche per Andrea Agnelli e per la società: caro presidente, si può fare di più per ricordare l’Heysel, basterebbe davvero poco e con costi irrisori. Un monumento all’esterno dello Stadium, una sezione nel sito ufficiale, o qualunque altra cosa. La Juventus è tornata a vincere, è un modello sportivo e manageriale, lo deve essere anche di umanità. Non dimentichiamoli, mai.        

11 luglio 2013

Fonte: Agenziaimpress.it

A-Z

 

MARCO BIANCALANI

Febbre a 90° e We are the Champions: le ragioni di una passione

di Marco Biancalani

Ricordo ancora tutto di quella sera. Avevo nove anni, un amico con cui giocai a Subbuteo per l’intero pomeriggio emulando la finale, le prime immagini confuse dalla tv, il telefono che iniziò a squillare. Amici, parenti, vicini, persino la mia maestra delle elementari: "Tuo babbo è lì ?". Perché tutti sapevano che in quelle occasioni spesso lui c’era, ma in realtà quella sera aveva solo lo sguardo spento e gli occhi pietrificati davanti a quelle immagini. Ebbe solo la forza di mettermi a letto. "E la partita ?" gli chiesi, innocente. "Non c’è nessuna partita" mi disse, rimboccandomi le coperte, mentre mia mamma continuava a singhiozzare nell’altra stanza. 29 maggio 1985, Bruxelles, l’Heysel. Il mio Heysel, quello di un bambino che aspettava di vincere una Champions League (allora si chiamava ancora Coppa dei Campioni) e che invece toccò con mano per la prima volta la tragedia, il dolore, la morte per un tifo, un’appartenenza, uno schieramento. Nick Hornby nel suo libro cult "Febbre a 90°" dedica all’Heysel un capitolo toccante, in cui oltre alla naturale compassione umana cerca di analizzare quanto avvenuto: i 39 morti avvennero per schiacciamento, non in seguito a ferite di altro tipo. Era una pratica molto rischiosa per provocare schermaglie, molto inglese, che portò anni dopo ad una tragedia ancora più grande come dimensioni di vittime, quella dello stadio Hillsborough di Sheffield nel 1989, anche questa raccontata nel libro. Ci furono 95 morti, più del doppio rispetto all’Heysel. Come racconta Federico Buffa in una delle sue mirabili storie, fu lì che la Thatcher ne ebbe abbastanza: il calcio inglese che vediamo oggi, con stadi ed erbe perfette, nasce dal giro di vite deciso quella sera. A Bruxelles i tifosi inglesi spingevano, quelli italiani si schiacciavano e morivano contro un muro. La colpa ? Certo, degli Hooligans. Ma molto anche della (dis)organizzazione belga, che decise di adibire una curva a entrambe le tifoserie, incoscienti evidentemente anche solo della fama che avevano i tifosi d’Oltremanica al tempo. Un padre con un figlio di 10 anni furono ritrovati insieme, morti abbracciati. Potevo essere io, con mio padre, l’uomo che la domenica non c’era mai perché spesso affrontava lunghi viaggi da Prato a Torino. Io rimanevo dai nonni, mi rifugiavo nei vinili di Aretha Franklin e dei Led Zeppelin mentre tenevo lo sguardo rivolto a "Domenica In", sperando che passassero buoni risultati in sovraimpressione. Poi iniziò a portare allo stadio anche me e da lì è iniziata la passione, quella che Nick Hornby descrive in "Febbre a 90°" partendo dall’idea che "tutti abbiamo una buona ragione per amare ciò che amiamo". Il mio amore per i dischi nasce dall’assenza, la passione per il calcio dalla presenza, dalla prima vera cosa in comune con un genitore troppo grande, troppo impegnato. Da allora abbiamo gioito (molto) ci siamo guardati delusi (meno) commentando i risultati, come Nick Hornby forse avrebbe forse voluto fare con suo padre ma non è mai riuscito. A lui la passione è trasmessa per caso da un genitore che se ne era andato di casa anni prima e che lo porta allo stadio così, per passare un sabato con il figlio che non vede mai, esattamente come andare allo zoo o al cinema. Una squadra vale l’altra, ma Nick diventa tifoso dell’Arsenal e quando il padre si stufa e vuole fare qualcosa di diverso, il ragazzino spiega in maniera chiara (ancora meglio nella divertente trasposizione cinematografica del libro, con protagonista Colin Firth, donne fatevi avanti) come lui non supererà mai quella fase. C’è già troppo dentro, o meglio, come si direbbe di questi tempi, è stato contagiato. Neanch’io in fondo l’ho mai superata, perché questo è davvero un virus da cui non si guarisce. Come dice lo scrittore inglese, "antropologi e sociologi hanno avuto il loro bel da fare col calcio". Ancora mi trovo a 44 anni a vivere questi giorni di fine maggio con tristezza, non solo per l’Heysel, ma anche per tutte le finali di Champions perse dalla mia squadra del cuore: forse avrei dovuto capirlo già quella sera del 1985 che non sarebbe stato facile vincere quella coppa maledetta, neanche in futuro. Ricordo però anche tante (forse troppe) vittorie, alcune insperate come il 5 maggio. Al successo di un campionato inatteso per la sua squadra, Nick Hornby dedica un capitolo memorabile, forse quello focale dell’intero racconto. "Il più grande momento in assoluto", lo intitola, rimarcando come l’emozione di questa gioia inaspettata non abbia pari con nient’altro nella vita. Il motivo ? Tutte le altre situazioni che possono rendere un uomo felice presuppongono un’azione in prima persona, dalla nascita di un figlio al successo sentimentale o lavorativo. In questa no, non si può contribuire con nulla, se non con il proprio tifo. Non sono così assolutista, ma neanche ipocrita al punto di negare che l‘esito di una partita o di una stagione possa influire pesantemente (e momentaneamente, ovvio) sul mio umore. Il calcio è passione, gioia inaspettata, ansia costante ma anche dispiaceri lancinanti. La musica è puro godimento, anche perché quella che non ti piace semplicemente la escludi, non la ascolti. Le canzoni dei Queen che amo per me sono gioia, tutte tranne "We are the champions". Quella… Dipende. Contenuta in un album bellissimo e dal suono grezzo come "News of the World" (era il 1977, altro che glam rock, bisognava fare concorrenza al punk) fu scritta da Freddie Mercury non solo per autocelebrazione, ma pensando al moto popolare del calcio. Questo brano e "We will rock you", pezzo di apertura dell’album, chiudevano i concerti dei Queen e facevano da colonne sonore a tanti eventi sportivi, calcistici in primis. Se alla fine della partita decisiva per l’assegnazione del campionato o di una finale (a maggio) avevi voglia di ascoltarla mentre i tuoi beniamini facevano il giro di campo, allora ti era andata bene, esisteva solo quella canzone, la rimettevi altre mille volte in cassetta nei giorni seguenti. Altrimenti in "News of the World" saltavi direttamente al terzo brano, "Sheer Heart Attack", un bel pezzone rock dalla chitarra martellante che non ti avrebbe costretto a pensare. Oggi il calcio è ancora tifo, ma soprattutto un’industria, la terza del paese per indotto. Attenzione prima di dire che con tutti i problemi che ci sono in Italia, chi se ne frega del calcio. Lo stadio della mia squadra, anche nei giorni non di partita, dà lavoro a quasi mille ragazzi fra steward, inservienti e addetti vari. Diventa un centro per eventi e congressi, altro che i gradini del vecchio Comunale di Torino degli anni ’80 in cui mi sedevo con mio babbo mangiando panini con la frittata. È un calcio diverso da quello che racconta Nick Hornby in "Febbre a 90°", forse più sicuro ma certamente meno genuino, meno passionale. A giugno riparte il campionato. Forse questa è la cosa meno importante fra le tante che sono successe in questi mesi, ma forse la più importante per lanciarci il segnale che potremmo esserne fuori. No, non mi è mancato il calcio, non ho particolare voglia che riprenda, ma so che continuerò a tifare appena ripartirà. E quando a luglio o agosto sarà finita un’altra stagione, deciderò se fare di "We are the champions" la colonna sonora di quel che resta della mia estate, oppure dimenticarla per un po’. Di certo, nell’estate del 1985, nessuno ha avuto voglia di cantarla davvero. Tranne Freddie durante il Live Aid.

31 maggio 2020

Fonte: Scattidallamialibreria.it

A-Z


La mia opinione sull’Heysel

A distanza di trent’anni la tragedia dell’Heysel e le sue 39 vittime, per fortuna non è finita nel dimenticatoio e da allora tante cose sono cambiate in meglio nella gestione delle finali delle coppe di calcio europee, nella speranza che fatti del genere non accadano più. Grande merito della memoria rinnovata va a chi da sempre, parenti delle vittime in primis, ha lottato perché su quell’episodio non calasse il silenzio che in tanti, dalle autorità federali calcistiche europee a quelle governative belghe avrebbero invece auspicato. Ci sono un paio di aspetti sui quali vorrei provare a spostare l’attenzione, perché vedo che nessuno lo fa mai. Si dice: La Juventus non avrebbe dovuto ritirare la coppa "insanguinata". Secondo me è sbagliatissima questa considerazione. Vero che nessuna vittoria sportiva vale anche una sola vita umana, ma è anche vero che i 39 morti, se la Juventus non avesse accettato di ricevere la coppa, sarebbero veramente morti invano. Quella non è la Coppa della Juventus è la Coppa dei 39, i loro nomi vanno ricordati per sempre, al pari delle formazioni delle due squadre in campo. Loro erano andati fin lassù per vedere la Juve sollevare la prima Coppa dei Campioni della sua storia, non sollevarla sarebbe stato veramente togliere loro l’unica, anche se flebile e terrena, ragione di un così tragico epilogo della propria vita. Perché, secondo l’opinione comune, ci sono dei motivi validi per dare la propria vita, fino a morire veramente e altri motivi invece non lo devono essere ? Chi stabilisce la serietà o la futilità di una motivazione ? Oggi non si vive più come 2000, o come 1000, o come 500 anni fa, i valori, i modelli, i riferimenti sono notevolmente cambiati e cambieranno ancora nel futuro. Noi parliamo di loro, che sono morti, da sopravvissuti: da padri-madri-figli-coniuge che hanno perso un loro caro per una motivazione non così alta, come ad esempio un parente di un militare che torna in una bara da una missione di pace all’estero. Anche se non facevano nulla di eroico, li consideriamo degli eroi, e accettiamo pur nello strazio la loro morte come un sacrificio necessario per la crescita dell’umanità. In realtà chi è morto è morto uguale, non mangia-ride-canta-pensa-soffre-gioisce-ecc. più allo stesso modo. Il come muori non ti cambia la morte, sempre morto sei. Al massimo, tragica battuta, ti cambia la vita. Qui l’altra considerazione, che meriterebbe che un autore scrivesse un monologo sul tema, da affidare magari a un attore bravo come Marco Paolini. "Io, morto all’Heysel. Perché nessuno prova a chiedermi la mia di opinione sulla mia morte ? Vero, è una cosa impossibile, ma come voi giornalisti o scrittori di chiara fama fate le interviste ai grandi della storia, morti anche più di duemila anni fa, perché non lo si fa con me ? Perché nessuno ci prova neppure ? Forse perché io potrei dare risposte scomode, forse perché potrei dirvi che anche nel mio nuovo stato di "trapassato" ho gioito della vittoria della mia squadra, che sono contento che i giocatori abbiano fatto il giro dello stadio con la Coppa al cielo, perché io ero andato fin lì per quello, che sarei veramente morto per nulla se a un certo punto alle 21 della sera di quel 29 maggio 1985 tutto si fosse fermato e lo stadio fosse stato fatto defluire e il mio corpo fosse tornato a casa come quello di un normale turista investito da un’auto pirata in terra straniera. Così mi sarei anche sentito in colpa: no… Per colpa della mia morte non hanno giocato, per colpa della mia morte non hanno vinto la coppa… No… Non  avrei potuto fare altro che urlare e tifare per contribuire alla vittoria della mia squadra, ma così, con la mia morte avrei contribuito a non farla vincere, non potrei sopportarlo senza poter far nulla per rimediare, da qui, dall’aldilà. Io sono tornato in una bara dalla "campagna di Bruxelles" della Juve, un’altra cosa certo dalla "campagna di Russia", da dove purtroppo in milioni non sono neppure tornati da morti. Questa è la mia opinione, non so se gli altri 38 la pensano proprio come me. I miei cari mi mancano e sono sicuro di mancare anche io a loro, come è per tutti qui, ma il fato ha voluto questo per noi. Certo, se ciascuno di noi potesse scegliere il proprio destino fino in fondo non ci sarebbero disgrazie e malattie, vivremmo tutti 120 anni alti-biondi-belli-ricchi. Ma a nessuno è dato di scegliere, men che meno a noi, che, sapendolo prima che quella era la nostra ultima serata di vita, magari avremmo chiesto almeno di andarcene dopo la partita, non prima, il biglietto l’avevamo pure già pagato e non ce l’hanno mica rimborsato... Insomma, se qualcuno prima di quella sera mi avesse chiesto: "ma tu daresti la vita perché la Juve possa vincere la sua prima Coppa dei Campioni ?" - non so cosa avrei risposto, e non so cosa avrebbero risposto gli altri 38 amici qui vicino a me. Adesso so che è successo proprio così, io ho dato la mia vita, appoggiato a quel muro, e la Juve ha in bacheca la sua Coppa dei Campioni. Non dimenticate il mio nome, i nostri nomi, non abbiamo fatto nessun gol, ma abbiamo scritto un pezzo di storia di quella sera, nostro malgrado. Non dimenticateci".

15 maggio 2015

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

DINO BOFFARDI

Siate la storia di questa società

Un saluto sincero e un abbraccio a voi. Io sono un ormai trentanovenne non vedente juventino da sempre. Leggo e piango. Come ho pianto appena acquistata l’età della ragione e come ho pianto tutte le volte che sento parlarne. Io all'epoca avevo undici anni. Ricordo che Papà mise sul canale Rai e pensò addirittura si trattasse di una corsa ippica trasmessa al posto della partita. Nella sua ignoranza non immaginava neppure lontanamente credo, che quei cavalli che vide fossero della gendarmeria belga dopo una tragedia simile. Poi capì. Poi capii. Capì mia mamma e i miei zii. Ricordo che il giorno dopo a scuola si fece un tema riguardante i fatti della sera precedente. Tornando a me, al sentimento e al disgusto che quella sera tragica mi ha lasciato vi dirò che non dimenticherò mai di onorare ogni 29 maggio della mia vita con un pensiero a quei trentanove angeli che per una partita non son più tornati a casa. Abbraccio di vero cuore chi ha scritto di incidere i trentanove nomi su quella coppa e concordo sul fatto che solo così avrebbe un valore significativo. Io a Bruxelles non son mai potuto andarci di persona ma il mio cuore ogni 29 maggio è lì. E mi riprometto il prossimo anno di andarci finalmente. Un pensiero fra tutti quelli che ho va ad Andrea Casula, morto insieme a suo papà nella ressa di quella maledetta sera. Cucciolo... Io avevo la tua età allora. Immagino solo con che gioia andasti a vedere la tua Juve. Immagino l'allegria che sicuramente contagiava in modo maggiore chi ti gioiva intorno, sia in viaggio sia allo stadio. Io piccolo mio ogni volta che la Signora vince dedico a te, sia pure in forma indiretta, la vittoria. Ogni vittoria. A te, così come agli altri angeli che con te resteranno sempre nel mio e nel nostro cuore. Io le immagini non le vedrò e non le vidi mai. Ma bastò solo sentire chi riuscì a tornare e raccontare, le persone intervistate, e quella telecronaca asettica per darmi un colpo al cuore che lasciò una cicatrice profonda, sia nel cuore, appunto, che nel mio animo. Che la Juve tutta faccia qualche cosa di più per non dimenticarvi mai e perché voi come noi siate la storia di questa società.

8 giugno 2013

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

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