Killer da stadio: la morte di
Antonio De Falchi
Giugno 1989: prima di Milan-Roma
un gruppo deviato del tifo milanista
aggredisce e uccide il diciannovenne
tifoso giallorosso Antonio De Falchi.
Ecco ricostruita la vicenda (quasi
dimenticata) di quella drammatica
giornata.
Un’aggressione brutale, senza
spiegazioni e senza possibilità di fuga.
Per Antonio De Falchi, romanista,
diciannove anni, la morte è arrivata
davanti ad un cancello dello stadio di
San Siro alle dodici meno un quarto di
una domenica qualunque, cinque ore prima
dell’inizio della partita Milan-Roma.
Trenta criminali travestiti da tifosi
gli si sono lanciati contro dopo avere
accertato che si trattava di un
"nemico". L’assassinio è cominciato con
un sorriso e una domanda innocente:
"Scusa, hai una sigaretta ?". Antonio De
Falchi era appena sceso dal tram insieme
ai suoi amici, aveva percorso a piedi i
duecento metri che separano il capolinea
del 24 in piazzale Axum dal cancello
numero 16 dello stadio di San Siro,
quello da cui si imbocca la rampa che
porta alla zona dei popolari riservata
ai tifosi ospiti. A pochi metri dal
cancello si sono visti venire incontro
un ragazzo di circa diciotto anni, una
faccia qualunque, una maglietta chiara,
un paio di jeans. Il ragazzo chiede da
fumare, Antonio però intuisce la
trappola e cerca di rispondere
nascondendo l’accento romano. L’altro ci
riprova: "Sai che ora è ?", e Antonio:
"Mancano cinque minuti a mezzogiorno".
Ma stavolta la parlata romanesca gli
esce netta, inconfondibile; è la sua
condanna a morte. Il ragazzino in jeans
ha avuto la conferma
di trovarsi di
fronte, ad un "nemico", si volta
all’indietro e fa un gesto. Dalle spalle
di una costruzione in cemento, una
specie di bunker circolare che fa parte
del cantiere per il terzo anello dello
stadio, spuntano almeno trenta persone:
sono tutti giovani, alcuni giovanissimi.
Si lanciano verso i quattro ragazzi che
cercano di fuggire. Mancano più di
quattro ore e mezza all’inizio di
Milan-Roma e intorno al "Meazza" il
servizio d’ordine è ancora esiguo: una
trentina di poliziotti guidati da un
funzionario, che hanno il compito più
che altro di bloccare i portoghesi e di
evitare che durante la mattinata mazze e
coltelli vengano fatti passare
attraverso la cancellata. Così i primi
attimi dell’aggressione, quelli
decisivi, si svolgono senza che nessuno
possa intervenire. I quattro romanisti
in fuga vengono quasi raggiunti; gli
inseguitori cercano di placcarli a
sgambetti. Tre riescono a restare in
piedi, Antonio cade e gli sono subito
addosso in dieci. Lo prendevano a pugni
e calci, sono soprattutto due di loro a
picchiare di più. Antonio è diventato
viola ma loro non si fermano. Il
pestaggio dura meno di mezzo minuto, poi
i dieci picchiatori, si riuniscono al
resto del gruppo che cerca invano di
acchiappare anche gli amici di Antonio.
Solo a questo punto interviene la
polizia e, mentre una parte degli agenti
cerca di bloccare gli aggressori, si
prestano i primi soccorsi ad Antonio.
Sul momento le condizioni del ragazzo
non sembrano gravi: si alza in piedi da
sé, sembra stordito ma non ferito e
riesce persino a scambiare qualche
parola con i poliziotti. Invece,
all’improvviso, perde colore; diventa
cianotico e crolla a terra; un agente
cerca di fargli la respirazione bocca a
bocca, poi un massaggio cardiaco ma non
c’è nulla da fare, Antonio De Falchi è
entrato in coma. In pochi minuti arriva
un’ambulanza, l’ospedale San Carlo è
vicinissimo: ma quello che i medici del
pronto soccorso si vedono consegnare è
un corpo ormai privo di vita. Il ragazzo
è morto anche se il suo corpo non
presenta ferite né lividi. L’autopsia
successivamente dirà che De Falchi,
colpito sì con pugni e calci ma senza
subire nessuna grave lesione, è morto
d’infarto, favorito da una lieve
malformazione ad una delle coronarie.
Più semplicemente si può dire che
Antonio è morto di paura, sopraffatto
dal terrore nel vedersi accerchiato da
quelle teste rasate e dai giubbotti da
aviatore, ragazzi come lui ma capaci
solo di insultare e di picchiare.
L’esito dell’inchiesta porterà ad un
solo verdetto e a tante polemiche. La
quarta sezione della Corte d’Assise
condanna solo Luca Bonalda, 20 anni,
magro, cui neanche i capelli rasati
riescono a dargli l’aria del duro. Era
stato riconosciuto dagli amici di De
Falchi e dai poliziotti. Il pubblico
ministero Pietro Forno aveva chiesto la
condanna a otto anni di reclusione. Ne
ha avuti sette, pagherà un anticipo sui
danni di 50 milioni, ma la Corte, come
aveva chiesto il Pm, concederà il
beneficio della remissione in libertà. A
Bonalda, insomma, solo poche ore di
carcere, per poi tornare a casa e
riprendere il suo lavoro di fattorino.
Saranno assolti per insufficienza di
prove gli altri due imputati. Anche per
loro l’accusa aveva chiesto otto anni.
Ma nessun testimone li aveva notati nel
gruppo dei responsabili dell’agguato.
Uno si chiama Daniele Formaggia, 29
anni, postino, leader del Gruppo
Brasato, una formazione che tifa nella
curva Sud, tra le Brigate rossonere e la
Fossa dei leoni. L’altro è Antonio
Lamiranda, 21 anni, studente di
giurisprudenza, figlio di un farmacista.
Una sentenza così favorevole che farà
impallidire la madre di Antonio De
Falchi. Suo figlio, diciannove anni, era
morto domenica 4 giugno dopo l’agguato
degli ultras milanisti. "E’ questa è la
giustizia ? E’ uno schifo", dice la
signora Esperia, vestita di nero. "A me
questa sentenza non sta bene. Loro
dovevano pagare, anche se nessuno mi può
riportare il povero Antonio".
Fonte:
Storiedicalcio.altervista.org
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