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SAN SALVADOR 1969
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San Salvador 15.06.1969 "La Guerra del Football"
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La guerra del calcio

di Piero Trellini

C’è un uomo disarmato che vaga per la foresta. E c’è una ragazza seduta in casa, con una pistola. Il primo è un sopravvissuto ed è la fine della storia. Al suo principio si trova invece la seconda, alla quale la vita sfugge. In mezzo si gioca una partita, anzi tre. Non basta, ci sono un paese troppo stretto, uno troppo incolto, una legge che cambia carte ed equilibri. Senza contare tonnellate di banane. E un mondiale all’orizzonte. Ma a uno dei due estremi, forse, si posa una verità fasulla. La ragazza si chiama Amelia Bolaños, ha diciotto anni, è seduta sul divano di casa con gli occhi puntati verso il suo televisore. Sopra un tavolo campeggia immobile un cesto di banane. Dentro lo schermo, invece, disturbati dalle frequenze incerte del bianco e del nero, si stanno muovendo senza tregua ventidue uomini in divisa. Sono i giocatori di El Salvador e Honduras. La storia potrebbe partire da questi ultimi, ma se vogliamo trovare un primo motore immobile dobbiamo iniziare dalle banane. E in particolare da Lorenzo Dow Baker, capitano della goletta Telegraph, l’uomo che nel 1870 - un secolo prima della nostra vicenda - le aveva introdotte negli Stati Uniti: dopo aver acquistato centosessanta caschi in Giamaica, in soli undici giorni era riuscito a venderli a Boston con un profitto del 1000%.

1. United Colors of Bananas - Il nuovo frutto tropicale si era rivelato nutriente ed economico (nel 1913 con venticinque centesimi - equivalenti a poco più di sei dollari - si compravano appena due mele o una dozzina di banane), pertanto spopolò. Fu per questo che nel 1873, per procurare cibo per i loro operai, i magnati della ferrovia Henry Meiggs e Minore C. Keith, zio e nipote, introdussero piantagioni di banane lungo tutta la rete del Costa Rica. Intuito il profitto che avrebbero potuto ottenere, iniziarono ad esportarle negli Stati Uniti sudorientali. Così nacque la Tropical Trading and Transport Company, divenuta poi United Fruit Company e successivamente Chiquita Brands International. L’introduzione della banana cambiò l’economia dei paesi centroamericani. Importarla da questi era più conveniente che coltivarla negli Stati Uniti. Approfittando della loro arretratezza economica e di un vuoto di potere coloniale, le multinazionali americane riuscirono a prendere il controllo di quei piccoli Stati. Alla fine del XIX° secolo, iniziarono a costruire strade, porti e ferrovie in cambio di concessioni sulla terra. Basando l’intera economia dell’America centrale su una monocultura, trasformarono così la banana e quello che c’era dietro (la coltivazione, la raccolta e l’esportazione) nell’arbitro unico della fortuna delle vite locali. La United Fruit tra gli honduregni era conosciuta come El Pulpo ("La Piovra"), perché la sua influenza penetrava nelle viscere della loro vita manipolando talvolta anche la politica nazionale. Negli anni Trenta la società possedeva tre milioni e mezzo di acri di terra in America centrale e nei Caraibi ed era in assoluto il più grande proprietario terriero del Guatemala. Patrimoni che le conferivano un grande potere sui governi dei piccoli paesi. Perché grazie a questi avrebbe favorito solo quelle fazioni che si sarebbero dimostrate pronte ad assecondare i suoi interessi. Le banane dunque dettavano legge. E l’etichetta Banana Republics fu per l’appunto coniata allora (nel 1904 da Williams Sydney Porter all’interno di uno dei racconti del suo libro Kings and Cabbages, "Re e cavoli"). Il 13 dicembre 1960 El Salvador, Honduras, Guatemala e Nicaragua (due anni dopo si aggiunse la Costa Rica), per facilitare il loro sviluppo economico e attrarre capitali industriali, ratificarono il Central American Common Market trasformando le loro terre in un’area di libero scambio. Il progetto permise notevoli progressi nell’espansione commerciale dei paesi coinvolti grazie alla riduzione delle barriere commerciali: tra il 1961 e il 1968 il commercio tra i cinque paesi fu sette volte superiore rispetto al passato.

2. This seal outside means the best inside - Fu grazie al mercato comune centroamericano che il governo statunitense estese ulteriormente il suo regime commerciale privilegiato a tutti e cinque i Paesi, permettendo così alla United Fruit e ad altre multinazionali americane di trovare ampie distese di terre da coltivare, di installarvi grandi piantagioni e di avvalersi di una manodopera a basso costo. Ma quegli investimenti permisero anche ai cinque Stati centroamericani di uscire dalla cronica arretratezza agricola nella quale versavano. Gli investitori, però, scelsero di installare le piantagioni solo dove già era presente un certo grado di sviluppo tecnologico. El Salvador si rivelò il paese più avanzato, l’Honduras il più arretrato. Lo scarto tra i due cambiò tutto: gli investimenti nel primo permisero una crescita economica, questa portò migliori condizioni di vita che quindi provocarono un calo della mortalità e un conseguente aumento della popolazione. L’incremento demografico portò El Salvador a diventare, dopo il Messico, il Paese più popolato dell’America centrale. Ma l’esigua superficie salvadoregna provocò a sua volta una forte disoccupazione. L’economia interna, infatti, si poggiava interamente sull’agricoltura, la coltivazione ruotava quasi esclusivamente attorno alle banane e queste ultime erano in mano alla United Fruit e ad una ristretta classe latifondista (mille grandi proprietari terrieri riuniti sotto l’egida di quattordici famiglie) che affidava le proprie terre ai braccianti locali, i campesiños. Chi era disoccupato, pertanto, non aveva alcuna possibilità di rivolgersi ad altri né di avviare la coltivazione di piccoli appezzamenti di terreno. Il governo salvadoregno, temendo una rivolta contadina che avrebbe seriamente pregiudicato il già precario equilibrio politico-economico interno, decise quindi di rivolgersi al vicino Honduras, sei volte più grande, dove le condizioni erano opposte. Se l’arretratezza agricola era dirompente, le terre incolte invece non mancavano. Così nel 1967 i due Stati firmarono una convenzione bilaterale sull’immigrazione, secondo la quale i cittadini salvadoregni, qualora avessero deciso di espatriare in Honduras, avrebbero goduto di libertà di transito, possibilità di residenza e diritto al lavoro. Oltre trecentomila salvadoregni varcarono il confine e avviarono la coltivazione di terre fino ad allora rimaste inutilizzate. La United Fruit aveva appena iniziato il più grande programma di branding mai intrapreso da un produttore di merci, accompagnato da una dispendiosissima campagna pubblicitaria che includeva l’apposizione di un marchio blu adesivo sulle banane: "This seal outside means the best inside". Nell’anno di quell’accordo bilaterale l’etichetta "Chiquita" (il nome era nato nel 1944 ed era stato registrato come marchio nel 1955) scavalcò l’Atlantico per essere introdotta in Europa. Ai campesiños centroamericani poco importava di tutto questo. I cambiamenti avevano creato ulteriori malcontenti e presto la situazione si ribaltò. Furono i contadini dell’Honduras a chiedere terra. A conti fatti il paese era in mano alla United Fruit e a Oswaldo López Arellano, il dittatore appoggiato dai latifondisti. Il suo governo dipendeva dagli Stati Uniti e lui non avrebbe mai toccato le terre di chi lo sosteneva (multinazionali da una parte e latifondisti dall’altra). Per evitare una sollevazione popolare, dunque, puntò il dito sui più deboli. E così nella primavera del 1969 l’Instituto Nacional Agrario emise un provvedimento che decretava la confisca delle terre e l’espulsione di tutti coloro che avessero nel Paese proprietà terriere senza possedere la natività in terra honduregna. I salvadoregni giunti in Honduras due anni prima furono pertanto privati delle proprie case, dei propri campi, del proprio lavoro e rispediti a El Salvador, dove non avevano più nulla. Il governo salvadoregno, temendo anch’esso una rivoluzione contadina, rifiutò di accoglierli e tentò in ogni modo di convincere il governo honduregno a tornare sulla propria decisione. L’Honduras era consapevole che, contravvenendo agli impegni presi due anni prima con la Convenzione bilaterale sull’immigrazione, stava commettendo un grave illecito internazionale. Ma fu irremovibile. La frontiera, così, divenne bollente. I giornali iniziarono a promuovere campagne d’odio. Le relazioni diplomatiche tra i due Stati, già tese per questioni di sovranità sul golfo di Fonseca (El Salvador non aveva uno sbocco sull’Oceano Atlantico e per la propria fascia costiera sul Pacifico, doveva piegarsi all’Honduras), si fecero critiche. E fu in questo clima che le due nazionali di calcio si trovarono di fronte per un posto ai Mondiali di calcio.

3. La prima partita - I campionati del mondo del 1970 sarebbero stati organizzati per la prima volta dal Messico. In qualità di padrona di casa la sua nazionale era iscritta d’ufficio. L’assenza messicana dai gironi di qualificazione rappresentava una occasione storica per gli altri dodici paesi centroamericani. Questi vennero distribuiti in quattro gironi, da tre squadre ciascuno, dai quali uscirono Honduras, Haiti, El Salvador e Stati Uniti. Le semifinali prevedevano un doppio confronto di andata e ritorno. Se il primo vide fronteggiarsi Haiti e Stati Uniti, il secondo fece incontrare Honduras ed El Salvador. La gara di andata tra Honduras ed El Salvador era in programma domenica 8 giugno 1969 all’Estadio Nacional di Tegucigalpa. La notte precedente centinaia di persone si erano assiepate sotto l’hotel dove alloggiavano i calciatori salvadoregni, cercando di disturbarne il sonno con clacson, pentole e sassi lanciati contro le finestre. Quando l’arbitro peruviano, naturalizzato messicano, Arturo Yamasaki Maldonado posò il pallone sul centro del campo, Amelia, la figlia diciottenne del generale Bolaños, si sedette davanti al televisore nel salotto di casa sua. In quel momento il primo non poteva immaginare che, un anno dopo allo Stadio Azteca di Città del Messico, avrebbe legato per sempre il suo nome alla "Partita del secolo" (Italia-Germania Ovest 4-3). La seconda, invece, non poteva sapere che il suo sarebbe stato associato per sempre alla partita che si apprestava a vedere. Si giocò in un clima teso, senza che nessuna delle due squadre riuscisse a sbloccare il risultato. Lo zero a zero sembrava ormai scontato, ma a un minuto dal fischio finale il difensore Leonard Wells regalò all’Honduras la rete dell’incontro. Fu allora che a El Salvador - come raccontò il reporter polacco Ryszard Kapuściński - Amelia Bolaños aprì il cassetto della scrivania del padre, afferrò la pistola e si sparò un colpo di pistola al cuore: "La giovane - scrisse l’indomani il quotidiano del Salvador El Nacional - non ha retto al dolore di vedere la sua patria messa in ginocchio". Alla ragazza elevata al rango di martire ed eroina nazionale - raccontò Kapuściński - vennero tributati funerali di Stato. Trasmessi in diretta televisiva, vi partecipò l’intera capitale. A seguire quella bara coperta dalla bandiera nazionale il picchetto d’onore dell’esercito, il Presidente della Repubblica, i ministri del governo e gli undici calciatori del Salvador rientrati in patria con un aereo speciale. I salvadoregni erano pronti a vendicarsi nella gara di ritorno a San Salvador una settimana dopo.

Andata - Domenica 8 giugno 1969 - Estadio Nacional, Tegucigalpa

Honduras - El Salvador 1 - 0

Honduras: Varela; Metamoros, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza, Marshall (Mejía), Rosales (García), Cardona; Gómez, Bran. Allenatore: Griffin

El Salvador: Fernández; Rivas, Castro, Vásquez, Mariona; Osorio, Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Barraza (Cabezas, Estrada (Méndez). Allenatore: Carrasco

Arbitro: Yamasaki (Messico)

Marcatori: 89′ Wells

Spettatori: 17.827

4. La seconda partita - Per giocare la gara di ritorno l’Honduras raggiunse il Salvador il più tardi possibile. Gli honduregni arrivarono di venerdì, accolti da un paese inferocito. Sconvolti dal clima d’odio che li circondava preferirono rinunciare all’allenamento per rifugiarsi in albergo. Ma l’Hotel Intercontinental di San Salvador sarebbe diventato la loro prigione. La notte i tifosi salvadoregni presero di mira l’edificio dando luogo ad una fitta sassaiola contro le finestre, che in breve finirono frantumate. L’accompagnatore della nazionale honduregna fu ucciso a sassate dalla folla, non appena lasciò l’hotel. Poco dopo un razzo frantumò il vetro della stanza che Tonín Mendoza, il ventunenne centrocampista e capitano dell’Honduras, divideva con altri tre compagni, e iniziarono a essere lanciate anche bombe artigianali. A quel punto tutti i giocatori iniziarono a temere per le loro vite. La delegazione decise così di rifugiarsi sul tetto. All’alba i giocatori, stremati, si divisero in gruppi di tre e, sotto una pioggia di pietre, riuscirono a eludere la folla nascondendosi nelle case dei residenti honduregni. Nel pomeriggio i giocatori ospiti - come raccontò Kapuściński - "furono portati allo stadio dentro i carri armati della Prima divisione corazzata del Salvador per proteggerli da quella folla che, assetata di vendetta e di sangue, si era ammassata lungo il percorso e sventolava la fotografia dell’eroina nazionale Amelia Bolaños". Vennero fatti scendere solo davanti agli spogliatoi. L’Estadio de la Flor Blanca di San Salvador era circondato dall’esercito e intorno al campo i soldati del corpo scelto della Guardia Nazionale puntavano gli sguardi verso il pubblico con i mitra spianati. L’inno nazionale honduregno fu accolto da bordate di fischi, la bandiera nazionale strappata e i pochi coraggiosi che dall’Honduras si erano recati a San Salvador per sostenere i propri giocatori furono aggrediti e malmenati. Solo intorno allo stadio si contarono due morti, decine di feriti e un centinaio di automobili bruciate. Gli honduregni scesero in campo distrutti, impauriti e desiderosi solo di riportare a casa la pelle. La partita non ebbe storia: i salvadoregni passarono in vantaggio al 27’ su rigore con Martínez, raddoppiarono tre minuti dopo con Acevedo e chiusero la partita al 41′ ancora con Martínez. Di reti potevano farne anche dodici, non sarebbe cambiato nulla. Il regolamento non contemplava il computo del numero di gol segnati. La loro sconfitta venne accolta con gioia dagli honduregni. "Siamo terribilmente fortunati a perdere - disse Mario Griffin, il loro allenatore durante l’intervallo - facciamo questi quarantacinque minuti e torniamocene sani e salvi a casa. Comunque andrà ce la giocheremo in un’altra partita". Senza la differenza reti e con una vittoria per parte il destino delle due squadre sarebbe stato, infatti, deciso da una terza definitiva gara di spareggio in campo neutro.

Ritorno - Domenica 15 giugno 1969 - Estadio de la Flor Blanca, San Salvador

El Salvador - Honduras 3 - 0

El Salvador: Fernández; Rivas, Manzano (Osorio), Vásquez, Mariona; Cabezas, Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Monge, Acevedo. Allenatore: Carrasco

Honduras: Varela; Metamoros, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza, Marshall, Urquia, Cardona; Gómez, Bran. Allenatore: Griffin

Arbitro: Van Rosberg (Antille Olandesi Antille Olandesi)

Marcatori: 27′ rig. Martínez, 30′ Acevedo, 41′ Martínez

Spettatori: 36.470

5. La terza partita - Le squadre si affrontarono venerdì 27 giugno in campo neutro, all’Estadio Azteca di Città del Messico, dinanzi a cinquemila agenti di polizia. La partita fu incerta fino all’ultimo. Segnò Martínez per il Salvador, pareggiò Cardona. Ancora Martínez portò avanti i suoi. E ancora l’Honduras, con Gómez, riportò il risultato in parità. Il 2-2 rimase scolpito fino al novantesimo e si imposero così i supplementari. Finché al 101’ Rodríguez regalò al Salvador la definitiva vittoria. Al fischio finale, ambedue le schiere scatenarono una guerriglia e la sera stessa si sciolsero le relazioni diplomatiche tra i due stati. La guerra era ormai alle porte.

Spareggio - Venerdì 26 giugno 1969 - Estadio Azteca, Città del Messico

El Salvador - Honduras 3 - 2 (d.t.s.)

El Salvador: Fernández (Suarez); Rivas, Manzano, Vásquez, Mariona; Cabezas, Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Monge, Acevedo (Bucaro). Allenatore: Carrasco.

Honduras: Varela; Deras, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza, García, Rosales (Mejía), Cardona (Lagos); Gómez, Bran. Allenatore: Griffin.

Arbitro: Aguilar (Messico)

Marcatori: 10′ Martínez, 19′ Cardona, 29′ Martínez, 50′ Gómez, 101′ Rodríguez

Spettatori: 15.326

6. La guerra del calcio - Da quella sera gli scontri sul ciglio della frontiera si fecero più gravi. Il 14 luglio a El Poy, tra Ocotepeque (Honduras) e San Ignacio (El Salvador), i bollori avversi vennero freddati vicendevolmente con spari da arma da fuoco. A partire da quel momento la battaglia seguì i ritmi drammaturgici di una partita di calcio, con continui ribaltamenti e colpi di scena. Il contrasto tra i due Paesi raggiunse l’apice alle 18.10, quando gli aerei salvadoregni si alzarono in volo sferrando un attacco su Tegucigalpa e su altre otto città honduregne. Contemporaneamente, dodicimila uomini della fanteria salvadoregna iniziarono l’offensiva via terra. Provati dai bombardamenti aerei, gli honduregni tentarono una disperata difesa. In quel momento il reporter polacco Ryszard Kapuściński, inviato di guerra per il quotidiano Polityka e per l’agenzia di stampa Polska Agencja Prasowa (PAP), era l’unico corrispondente a trovarsi in Honduras e poteva anche essere il primo a trasmettere al mondo la notizia dello scoppio di una guerra in America Centrale. Uscì dalla sua camera con il testo di un telegramma, rintracciò il padrone dell’albergo e lo pregò di accompagnarlo a un ufficio postale di Tegucigalpa. In tutto l’Honduras c’era un solo telex e in quel momento lo stava occupando il Presidente della Repubblica. Parlava con l’ambasciata honduregna a Washington per incaricarla di chiedere aiuti armati al governo degli Stati Uniti. A mezzanotte riuscì a collegarsi con la Polonia, la macchina picchiettò il numero "TL 813480 PAP Varsavia":

TEGUCIGALPA (HONDURAS) PAP 14 LUGLIO VIA TROPICAL RADIO RCA OGGI ALLE ORE DICIOTTO È SCOPPIATA LA GUERRA TRA SALVADOR E HONDURAS STOP L’AVIAZIONE DEL SALVADOR HA BOMBARDATO QUATTRO CITTÀ DELL’ HONDURAS STOP CONTEMPORANEAMENTE L’ ESERCITO DEL SALVADOR HA VARCATO LA FRONTIERA DELL’ HONDURAS CERCANDO DI PENETRARE IN PROFONDITÀ NEL PAESE STOP IN RISPOSTA ALL’ ATTACCO DELL’ AGGRESSORE L’ AVIAZIONE HONDUREGNA HA BOMBARDATO I PRINCIPALI OBIETTIVI INDUSTRIALI STRATEGICI DEL SALVADOR E LE FORZE DI TERRA HANNO INIZIATO AZIONI DIFENSIVE.

Al mattino seguente una nuova incursione aerea salvadoregna fece vacillare la difesa honduregna. Alla sera l’occupazione salvadoregna aveva già guadagnato milleseicento chilometri quadrati del suolo honduregno. Quando ormai la guerra sembrava avesse preso la sua piega conclusiva, l’Honduras rispose con una controffensiva aerea che riuscì a distruggere il venti per cento delle riserve nemiche di combustibile. La sorprendente reazione honduregna spostò le sorti della guerra in cielo. E proprio al cielo in quel 16 luglio 1969 era rivolti gli occhi del mondo. Alle 13:32 dalla piattaforma di lancio 39A del Kennedy Space Center da un razzo vettore Saturn V era stato lanciato l’Apollo 11 per condurre per la prima volta l’uomo sulla Luna. Circa un milione di spettatori avevano assistito al lancio affollando le autostrade e le spiagge vicine al sito del Kennedy Space Center. Sul posto erano accorsi tremilacinquecento rappresentanti dei media di cinquantacinque Paesi del pianeta. Il lancio era stato trasmesso in diretta televisiva in trentatré paesi, venticinque milioni di statunitensi lo avevano seguito in televisione. Il resto del mondo aveva le orecchie incollate alle trasmissioni radiofoniche. La mattina del 17 luglio si alzò in volo il resto dell’aviazione salvadoregna agli ordini del capitano Douglas Varela e contemporaneamente decollarono le squadriglie aeree honduregne agli ordini del maggiore Fernando Soto Henríquez. Le due squadriglie si incontrarono a mezzogiorno sui cieli sopra El Amatillo, esattamente sulla linea del confine tra i due Paesi. I salvadoregni iniziarono l’attacco, ma Soto (H) riuscì ad abbattere Varela (ES) riuscendo così a condurre gli aerei honduregni verso l’annientamento della flotta salvadoregna. La morte del capitano produsse uno shock nella forza aerea salvadoregna che, messa alle corde, fu costretta a inviare mercenari e riservisti guidati dai capitani Salvador Cezeña Amaya e Guillermo Reinaldo Cortéz. Soto (H), contravvenendo all’ordine di non sconfinare, entrò nei cieli del Salvador, sopra San José, per inseguire l’aereo di Cezeña (ES). Mitragliato dai colpi del maggiore honduregno, Cezeña (ES), fu costretto a lanciarsi con il paracadute. Per vendicare il compagno, Cortéz (ES) si avventò contro Soto (H). Ma il pilota fu abile a ribaltare la situazione colpendo il comandante salvadoregno. Cortéz (ES) anziché gettarsi con il paracadute preferì portare l’aereo fuori da San José per evitare che precipitasse sulle sue abitazioni. La scelta fu eroica ma fatale e morì schiantandosi sulle campagne fuori città. La mattina del 18 luglio l’aviazione honduregna scatenò un attacco al napalm sopra tre città e più tardi riuscì a respingere i nemici oltre la frontiera. Alle 22.00, l’Organizzazione degli Stati americani impose il cessate il fuoco. In quel momento i bilanci della statunitense United Fruit cantavano: per la prima volta era stata scavalcata la soglia dei quattro miliardi di sterline. Tradotto in banane: quasi due miliardi di chili spediti in tutto il mondo (la società aveva sviluppato in quel 1969 un brevetto per l’imballaggio in atmosfera modificata, capace di mantenere una bassa quantità di ossigeno per arrestare la maturazione delle banane durante il trasporto). Non era dunque il caso di rovinare tutto per cinque giorni di "tafferugli". L’Honduras accettò la proposta, El Salvador la rifiutò. In serata il presidente Sánchez Hernández invitò il popolo salvadoregno ad andare avanti: "Com’è possibile che un uomo possa tranquillamente camminare sulla superficie della Luna, ma non possa, a causa della sua nazionalità, percorrere senza pericolo i marciapiedi dell’Honduras ?". La decisione del Salvador produsse la condanna da parte dell’OSA come Stato aggressore e, più avanti (dal 27 al 29 luglio), una serie di attacchi a sorpresa contro le sue città poste in prossimità della frontiera. Il conflitto a quel punto si arrestò. Finché il 5 agosto le truppe salvadoregne si ritirarono entro i propri confini. La guerra era finita. E con essa la vita di cinquemilasettecento persone.

7. L’uomo che fuggì dal mondo - L’OSA impose all’Honduras la reintegrazione dei salvadoregni ingiustamente espulsi. Alcuni di loro fecero ritorno in Honduras, ma altri non ebbero il coraggio di tornare. Tra questi ci fu un bracciante salvadoregno di nome Salomon Vides. Salomon, che aveva quarant’anni, sentì alla radio gli annunciatori che esortavano gli honduregni a uccidere i salvadoregni. Ed ebbe paura. Talmente tanta da non pensare più nemmeno ai suoi fratelli, a sua moglie e ai suoi quattro figli. Cercò solo la via più rapida per uscire dal Paese, oltre il confine con il Guatemala. Le autorità guatemalteche lo trattennero a Puerto Barrios, vicino al confine. Lo scambiarono per un guerrigliero, gli chiesero cose che non conosceva, volevano sapere dove fossero i suoi compagni. Salomon ebbe timore che lo rimandassero in Honduras ad affrontare una morte certa. Pochi giorni dopo, mentre le guardie erano impegnate a interrogare un altro detenuto, fuggì, verso la zona paludosa che si estendeva nell’entroterra, Machacas Viejo. Non si sentì tranquillo nemmeno lì. Temeva che la gente del posto lo potesse tradire. L’unica idea che aveva nella testa era allontanarsi dal pericolo. Andare dove non sarebbe mai stato trovato. Si diresse così verso l’interno. E lì c’era solo la giungla. Si ritrovò a El Petén, a 500 km a nord del Guatemala. Era una delle aree più isolate del paese, non toccata dall’umanità, ignorata anche dai gruppi di guerriglieri che nella giungla guatemalteca preferivano nascondersi altrove. Solomon non si accorse che era cessato il fuoco, pensò solo che la cosa più saggia fosse quella di allontanarsi dalla guerra. Per alcuni giorni inseguì le scimmie, ma presto si rese conto che un apporto calorico regolare poteva essergli garantito solo se avesse cacciato animali meno agili di lui. Rivolse così la sua attenzione alle piante e alle tartarughe, che abbondavano nelle paludi della giungla. Trovò un paio di occhiali e concentrando i raggi del sole fu in grado di accendere fuochi. Vestito con una tunica di pelle di scimmia, Salomon iniziò a raccogliere le sue razioni quotidiane ogni mattina - cinque piccole tartarughe, cinquanta semi e una radice di palma; mai una banana - accendeva un fuoco, bolliva il cibo, mangiava e poi la notte tentava di riposare. Viveva nel terrore di essere trovato anche mentre stava dormendo. Dai soldati, dai giaguari, dalle zanzare. Pur vivendo fuori dal mondo Salomon si impose il controllo del tempo. Aveva bisogno di sapere quando fosse domenica. Il giorno prima, avrebbe raccolto il doppio delle razioni di cibo per non lavorare nel dì del Signore, come insegna la Bibbia. E tenne il tempo guardando la luna, senza sapere che in quei giorni due uomini ci stavano camminando sopra. Passarono i mesi e mentre Salomon combatteva contro le zanzare il suo Salvador si trovò alle prese con una sanguinosa guerra civile. Lui non ne sapeva nulla. Nemmeno di quella condotta dai ribelli del Frente sandinista de liberación nacional in Nicaragua, o da quelli del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional in Guatemala. Ogni tanto ne vedeva i segni nei cieli. Una volta una pattuglia di aerei volò sopra la sua testa. Poco dopo sentì le bombe esplodere. Udì spesso spari di fucile. Pensava ai soldati invece erano cacciatori. Un giorno uno di loro sorprese Vides. "Amico, cosa stai facendo ?", gli chiese. "Sto cercando piccole tartarughe. Come questa", disse, tirandone fuori una dalla tasca. Fu il suo primo incontro verbale con un essere umano da quando era entrato nella giungla. Non raccontò nulla, ma quando l’uomo si allontanò Vides non poté resistere: "Scusami, che giorno è oggi ?". "Mercoledì", rispose quello. "Di quale data ?". "È il sedici". "Di che mese?". "Maggio". "Oh, pensavo fosse settembre". Salomon si sentì perso. Era fuori di quattro mesi e tre giorni.

Avrebbe dovuto sorprenderlo di più il resto. Era il 1995. Si trovava nella giungla da ventisei anni. Più tardi, era il 1997, Salomon si trovò di fronte una squadra di uomini armati. Terrorizzato pensò che fosse arrivata la sua fine e alzò le mani: "Sono qui, se dovete uccidermi fatelo subito, non ce la faccio più !". "Non siamo militari - risposero gli uomini - stiamo cacciando ma ci siamo persi". Tra i cacciatori iniziò così a spargersi la voce di uno strano uomo che viveva nella giungla. La notizia arrivò a un tassista radioamatore con la passione per la caccia, Rene Donavo. Andò nella foresta per conoscere Salomon. Quando se lo trovò davanti vide un vecchio pallido, basso, seminudo e coperto di foglie. Aveva settantadue anni, gli ultimi trentadue li aveva passati nascosto per scampare a una guerra durata appena un centinaio di ore. Donavo riuscì a stabilire un contatto con lui e prese a cuore la sua storia. Contattò un altro radioamatore salvadoregno, che fece un annuncio su una stazione radio popolare. Un amico della famiglia di Salomon lo ascoltò, e il 15 settembre 2001 la sorella di Vides e due dei suoi sette fratelli sopravvissuti arrivarono in Guatemala. Accompagnati da Donavo e dai lavoratori della Croce Rossa spagnola, camminarono per due ore attraverso l’entroterra paludoso fino a che trovarono Salomon seduto a terra, immobilizzato dai dolori alle gambe. Era ormai uno scheletro ambulante, avvolto in un groviglio di capelli, che viveva come un animale selvatico.  Suo fratello più giovane, Fidel, cinquantotto anni, lo vide lì come quando era un ragazzo che raccoglieva le banane. "È lui", pensò. Salomon non lo riconobbe, finché lui disse: "Sono il tuo fratellino". A quel punto gridò: "Fidel !". E si abbracciarono.  Salomon uscì per sempre dalla giungla e il giorno seguente fu condotto verso El Salvador e la celebrità. Una radio lo aveva fatto fuggire, una radio lo aveva riportato a casa. Si ricongiunse con una parte della famiglia a Garita Palmera, nella provincia salvadoregna di Chalatenango, a circa centoventi km a sud-ovest di San Salvador. Quando se ne era andato, suo figlio Salomon Jr aveva dodici anni, ora era un uomo di quarantaquattro anni. Salomon non ebbe il coraggio di cercare gli altri suoi figli e la moglie che aveva abbandonato lasciandoli in miseria e preferì stare con i suoi fratelli. Quando i cronisti lo andarono a cercare lo trovarono a bere latte freddo e a mangiare fast food, a meravigliarsi dei telefoni cellulari e dei televisori a colori. Gli chiesero a cosa avesse pensato in tutti quegli anni: "A niente in particolare. Mi sentivo libero dalle preoccupazioni: ero solo contento di essere vivo. Non pensavo nemmeno alla mia famiglia, mi sentivo come se fossero tutti morti". Stava imparando a usare i dollari. "Ora tutti vivono in modo così diverso, le case sono fatte in un altro modo, ognuno ha una macchina e guida. È davvero cambiato tutto da quando sono stato qui l’ultima volta". Appena quattro giorni prima che si riunisse con la sua famiglia erano avvenuti gli attacchi terroristici di New York. Lui non ne è stato turbato: "Non credo che questo sarà un problema per me". Gli "altri", d’altronde, erano spariti dalla sua vita trent’anni prima. Li aveva persi con la conquista della Luna, li aveva ritrovati con la distruzione delle Torri gemelle. "Non sono mai stato trattato così bene come ora dalla mia famiglia. Sono totalmente felice".

8. La vera storia di Amelia B. - Ryszard Kapuściński fu praticamente l’unico corrispondente a scrivere ampiamente del conflitto del 1969. Eppure il suo resoconto, racchiuso poi in un saggio uscito nel 1978, contiene imprecisioni ed errori che sono stati ripetuti fino ad oggi all’interno della quasi totalità dei testi dedicati a quella piccola sanguinosa guerra. L’episodio che illuminò maggiormente l’immaginario dei suoi lettori rimase quello legato ad Amelia Bolaños. Così, nel corso del tempo, alcuni reporter sentirono il desiderio di saperne di più sull’identità della giovane suicida. Quarant’anni dopo la guerra ci provò il giornalista tedesco Klaus Ehringfeld, ma non riuscì a trovare notizie che confermassero i fatti raccontati da Kapuściński. Bollò pertanto come una fantasia l’esistenza e quindi la morte di Amelia Bolaños. Fu una goccia nell’oceano: quella stessa estate, in pieno anniversario, la stampa di tutto il mondo ricordò la ragazza suicida, compresi El País e la Gazzetta dello Sport (allora e ora). Rodrigo Arias, periodista di Telemundo ed ex giornalista de La Prensa Gráfica, dedicò due anni della sua vita a trovare quella di Amelia. Intervistò potenziali familiari, giocatori e politici, analizzò gli archivi di tutti e quattro i quotidiani che furono pubblicati a El Salvador in quel periodo ed esaminò, negli uffici comunali di San Salvador, tutti i certificati di morte da giugno ad agosto del 1969. Non riuscì a trovare nulla che riguardasse Amelia Bolaños. Nel 2014 anche Szymon Opryszek e Maria Hawranek, due reporter indipendenti polacchi, si recarono a San Salvador per provare a incontrare qualcuno della famiglia Bolaños. Iniziarono dai materiali raccolti nella biblioteca dell’UCA, l’università di San Salvador, leggendo le vecchie edizioni di El Prensa Grafica e Dario de Hoy del 1969. Scoprirono molte storie sulla partita, ma nessuna informazione sulla morte della giovane donna. Interpellarono poi persone di tutte le età senza trovare qualcuno che potesse confermare l’esistenza della ragazza. Quando passarono a fonti più autorevoli i dubbi si fecero certezze. Fu proprio Rodrigo Arias a confidare loro le sue convinzioni: "Sono giunto alla conclusione che Kapuściński abbia inventato questa storia per vendere meglio il suo libro. Non ho il minimo dubbio al riguardo. Penso che lei non sia mai esistita". Ipotesi confermata dallo storico salvadoregno Carlos Canas-Dinarte: "La storia di Amelia Bolaños è falsa. Non esistono documenti capaci di provare il suo suicidio". "Ai funerali di Amelia Bolanos trasmessi in televisione - scriveva il giornalista polacco - partecipò l’intera capitale. In testa al corteo, il picchetto d’onore dell’esercito con il vessillo. Dietro la bara, coperta dalla bandiera nazionale, il presidente della repubblica e i ministri. Dietro di loro, c’erano gli undici calciatori della squadra nazionale del Salvador tornati la mattina con un aereo speciale…". Opryszek e Hawranek incontrarono allora Salvador Mariona, il settantunenne capitano della squadra nazionale del Salvador nel 1969: "Noi al funerale ? Mai accaduto". In tutto il Salvador nessun giocatore e nessun altro testimone di quel tempo ricorda questo evento. Ma allora la notizia del Nacional ? Kapuścińśki aveva scritto: "La giovane non ha retto al dolore di vedere la sua patria messa in ginocchio" riportò l’indomani il quotidiano del Salvador El Nacional". I due reporter polacchi setacciarono ogni archivio dell’emeroteca universitaria. Non trovarono però un giornale chiamato El Nacional. Chiesero allora a Rodrigo Arias: "Non c’è mai stato un giornale del genere in El Salvador". Il dato venne confermato anche da Ehringfeld. A El Salvador, dunque, durante il periodo in questione non sembra essere morta nessuna persona di nome Amelia Bolaños, non sembra esserci stato alcun funerale di stato e il giornale El Nacional sembra non essere mai esistito. La sensazione a questo punto è quella alla quale ci hanno abituato certi film dai "finali shock" (probabilmente da I soliti sospetti in poi). Quell’effetto straniante che ci fa sentire un po’ presi in giro. Perché ci si accorge di avere assistito alla dimostrazione di un teorema per assurdo: se l’ipotesi è falsa, allora la tesi non vale nulla. Non è sempre così. Oppure non è così per tutti. Secondo il filosofo francese Tristan Garcia creare una finzione non significa mentire, né dire la verità. "Significa cercare di costruire un’altra verità possibile". Artur Domosławski nella sua biografia "Kapuścińśki. Non-fiction" fornisce molti esempi di ambigue descrizioni di Kapuściński. Cita anche un dialogo tra il giornalista e Wojciech Giełżyński. Il secondo chiede al primo: "È lecito se cambio i fatti per ottenere un risultato artistico o giornalistico migliore ?". "Sì, puoi farlo - risponde Kapuściński - puoi incrementare la realtà usando gli elementi che sono effettivamente parte di essa".

9. La storia tradita - La storia è così. Non è mai assoluta. Traduce i fatti in parole. Pertanto già così li tradisce. Per quanto ci si sforzi, non è possibile cogliere la realtà nella sua forma più incontaminata. Nel momento in cui è storia non è più autentica. La purezza si perde già nei singoli disfacimenti del presente. Perché la storia è frutto di un’azione umana.  E l’uomo non può concepire nulla senza l’ausilio dell’immaginazione (ci era arrivato già Tommaso d’Aquino: "Nihil potest homo intelligere sine phantasmate"). Ed essendo la storia stessa invenzione dell’uomo, può essere anche incerta, fallace, parziale, scorretta, lacunosa, forzata, dilatata, ridotta, faziosa, ingigantita, imprecisa. In ogni caso soggettiva (vale anche per il giornalismo: qui lo storico e il giornalista si identificano: l’oggetto delle due rispettive attività è il medesimo e la loro distinzione è solo di tipo temporale. Tra l’altro, riguardo alla Guerra del Calcio, Kapuściński è stato l’uno e l’altro: ha vissuto in prima linea i fatti quando ha scritto i suoi reportage nel 1969 e ha avuto modo di analizzarli a distanza nel 1978, scrivendo il libro, nel momento in cui avrebbe potuto verificare la fondatezza delle sue fonti o rivedere la correttezza delle sue ricostruzioni). Kapuściński era stato il cantore unico di una guerra tra poveri. Un conflitto che sarebbe importato a pochi. Forse abusò di una condizione privilegiata e senza confronti. Forse diede per buone fonti orali non verificate. Forse fu sedotto da una possibilità di potere. Forse nel farlo si avvalse dell’inventiva. Ma per quanto biasimevole fosse stato servirsi del suo espediente (o, nella migliore delle ipotesi, per quanto sia tutto sommato comprensibile essere convinti di raccogliere e riportare particolari ritenuti veritieri ma poi rivelatisi inesatti o infondati) questo ha permesso di forzare la ricettività dei lettori, riuscendo a far penetrare quella guerra, destinata inevitabilmente a essere ignorata, nell’immaginario e quindi permettendo ad essa di essere conosciuta e ricordata. E se ci pensiamo bene, se acconsentiamo ad accettare eccezionalmente entrambe le facce di questa moneta, la storia, pur nella sua nuda innata incompletezza, serve proprio a questo. Se Amelia Bolaños non è esistita la sua falsa esistenza è stata il passe-partout di Kapuściński. Il particolare che ha svelato l’universale. Lo straordinario che ha mostrato un ordinario al quale sicuramente avremmo voltato le spalle. La stessa guerra del football forse non ha fondamento. È stata la storia di una coincidenza, di una decisione sbagliata (quella politica dell’Honduras) nel momento sbagliato (quello dello spareggio calcistico). Due episodi che si sono sovrapposti. Ma che un giornalista ha colto, ha preso, ha confezionato e ha offerto al mondo. Trovando anche un marchio, esattamente come aveva fatto Chiquita con il suo bollino per le banane. E così è stato venduto. Era stata chiamata guerra de legítima defensa o guerra delle cento ore. Ma lui aveva trovato l’etichetta perfetta per poterla offrire al mondo meglio di una banana. La guerra del calcio (Wojna futbolowa, quindi Soccer War). Probabilmente non la inventò nemmeno lui (i giornali la definirono subito così, sia quelli centroamericani che la chiamarono "Guerra futbolistica", sia gli altri, su tutti basti la prima pagina del Pittsburgh Press del 28 giugno 1969 che titolava ""Soccer War" won by El Salvador 3-2"). Ma fu abile a brevettarla. E questa storia senza il packaging di Kapuściński non l’avremmo mai conosciuta. Era la ricetta perfetta. Due squadre, tre partite, un posto nella storia. E una guerra. Mancava una martire.  Per dare un volto a un’emotività collettiva che altrimenti sarebbe stata sbiadita e quindi ignorata. Per venderla al mondo poi mancava un marchio. Quando lo trovò (o lo prelevò) ci cascarono scrittori, ricercatori, giornalisti, testate, voci enciclopediche. Tutti.

10. La natura ambigua della memoria - In fondo è sempre stato così. La fonte scritta più antica in assoluto della battaglia di Maratona è rappresentata dai resoconti di Erodoto. In essi lo storico descrive in modo inesatto le gerarchie militari ateniesi, tratteggia malamente lo schieramento dei due eserciti, dimentica la cavalleria persiana durante la battaglia, ingigantisce la carica greca, ma soprattutto narra in modo inverosimile il tragitto compiuto dal messaggero Filippide verso Sparta. Eppure quella leggendaria corsa, accorciata, riveduta, corretta, confusa e veicolata da Eraclide Pontico, Plutarco, Pausania il Periegeta e Luciano di Samosata, divenne poi quel tragitto mitico Maratona-Atene sul quale Pierre de Coubertin ricalcò la distanza della più nota gara olimpica. Ancora oggi se chiedete a qualcuno da dove viene la maratona o chi è Filippide la risposta è legata a quei quarantadue chilometri e centonovantacinque metri (mai) percorsi dall’emerodromo in questione per dire "Nenikèkamen" (Abbiamo vinto) prima di stramazzare al suolo. Filippide è Amelia Bolaños. Lui sta a Maratona come lei alla Guerra del calcio. Grazie alla forza del loro (falso) episodio ricordiamo entrambi gli eventi. È quello che massivamente si diffonde e non quello che esiste che fa accadere la storia. Secondo Friedrich Wilhelm Nietzsche la verità è ciò che funziona, che serve per vivere, che crea accadimenti storici, che produce effetti sulla realtà. Se per alcuni la risurrezione di Cristo può essere una di quelle che oggi chiamiamo bufale o fake news, è anche vero che da questa è nato il cristianesimo. Quindi il suo stesso effetto storico rende una "notizia che non lo era" ormai vera. È il criterio dell’efficacia che determina la verità. Basta che funzioni, recitava un impeccabile film di Woody Allen (e crea uno splendido cerchio il fatto che lo stesso regista negli anni della guerra del calcio abbia concepito il film Bananas). C’è da dire che il giornalismo narrativo per raccontare storie vere si avvale per sua natura di elementi legati alla finzione. Lo fa per restituire il peso delle emozioni provate dal reporter, le quali, senza scene e dialoghi, difficilmente potranno essere sentite dal lettore allo stesso modo. Per il giornalista messicano Juan Villoro si utilizzano queste tecniche con il fine di "creare un’illusione di vita per collocare il lettore al centro dei fatti".  Tom Wolfe nel suo libro The New Journalism affermava che "L’unità fondamentale del lavoro non è il dato, la singola informazione, ma la scena". La coordinata cruciale diventa così quella temporale. La lunghezza del tempo trascorso sul palco degli eventi può rivelarsi direttamente proporzionale alla possibilità di cogliere i fatti "sulla scena". Secondo Wolfe, un reporter deve restare "per il tempo sufficiente affinché le scene si svolgano davanti ai suoi occhi". Ma "un giornalista che si definisca tale - mette in guardia la giornalista argentina Leila Guerriero - non adatta i fatti a propria convenienza, non crea pezzi di un puzzle solo perché quelli che ha non si incastrano e non scrive le cose come avrebbe voluto che accadessero". Kapuściński quel tempo non lo aveva avuto. Aveva avuto il merito di trovarsi sulla scena ma non aveva trovato nel tempo in cui vi sostò la sua storia. E poi a San Salvador non c’era mai stato. Può essere che Amelia fosse una tipizzazione. La condensazione di una serie di individui autentici e fatti reali nei quali Kapuściński si era realmente imbattuto. Intorno alla sua vicenda, quindi, non si nascondeva una storia vera ma una narrazione verosimile che ha generato un evidente e discutibile paradosso. Per quanto ci rifiutiamo di accettarlo, sforzandoci (compreso chi scrive) di dimostrare il contrario, quella ragazza suicida e quella guerra provocata da una partita ormai esistono e fanno parte di una storia. Questa, però, a mezzo secolo di distanza, può essere finalmente vista da lontano e può quindi dirci molte altre cose. Una di queste è che Kapuściński è entrato a sua volta in una storia più grande di lui. Con il suo racconto è diventato parte di un evento. Non è più la voce di quella vicenda, ma uno dei suoi tanti personaggi. Insieme a comandanti, giocatori, soldati e contadini. E interpreta un ruolo ambiguo e affascinante, uno di quelli che hanno vestito l’Oskar Schindler spielberghiano o il Jay Gatsby fitzgeraldiano, personaggi nei quali la linea che separa l’eroismo dal lato oscuro - come per i campesiños salvadoregni - rimane in bilico tra i due lati del confine.

11. La fine del mercato comune - El Salvador, si aggiudicò poi (ancora dopo uno spareggio, contro Haiti: 2-1, 0-3, 1-0), il fatidico posto ai Mondiali del Messico, dove rimediò tre sconfitte e dieci reti (0-3 con il Belgio, 0-4 con il Messico e 0-2 con l’Urss). I due piloti Soto e Cortéz furono proclamati, in Honduras e a El Salvador, eroi nazionali. Il progetto del libero scambio centroamericano fu abbandonato dopo la "Guerra del calcio" e i progressi dei Paesi coinvolti si fermarono. L’Honduras si ritirò dal CACM all’inizio del 1971 imponendo tariffe agli altri paesi del mercato comune. Le barriere commerciali degli altri stati membri vennero gradualmente ripristinate. A causa dell’instabilità politica, del crescente debito e delle violenze interne il CACM decise di sospendere le sue attività. I rapporti tra i due Paesi rimasero difficili fino alla firma di un trattato di pace avvenuta il 30 ottobre 1980. Un anno dopo le due nazionali conquistarono entrambe la qualificazione a un Campionato del Mondo, quello disputato in Spagna nel 1982. Lì l’Honduras sfiorò l’impresa di arrivare alla seconda fase, il Salvador conquistò invece il peggior primato della storia dei mondiali perdendo 10-1 contro l’Ungheria (il medesimo numero di reti che aveva subito nelle tre partite del 1970). Per quanto si affannarono in un verso o nell’altro entrambe interpretarono il ruolo di comparse. Chi conquistò il mondo fu invece la United Fruit. Cambiò subito (nel 1970) nome in United Brands Company, che divenne poi Chiquita Brands International, Inc., nel 1990, per meglio sfruttare il riconoscimento del marchio. A partire da quell’anno Chiquita iniziò a investire in Costa Rica dove costruì il più grande stabilimento del mondo per la lavorazione delle banane. Più tardi aggiornò il proprio codice di condotta arrivando a firmare uno storico accordo sui diritti del lavoro con i raccoglitori di banane. Grazie alle sue iniziative nell’ambito della protezione ambientale e della responsabilità sociale d’impresa le furono conferiti il "Corporate Conscience Award" e il "Circle of Excellence Award dalla Distribution Business Management Association".

12. Vincitori e vinti - Se comunque Kapuściński era riuscito nel suo intento, ciò era stato possibile anche perché in quei giorni gli occhi del mondo erano rivolti tutti al cielo e nessuno poteva fare caso al piccolo conflitto che stava infiammando quel lembo di terrà che salda le due Americhe. Eppure, in quella folle estate americana del 1969, le Chiquita che avevano accompagnato la guerra erano sui tavoli di tutta l’America. Le aveva in casa Sharon Tate, nella villa al 10050 di Cielo Drive di Los Angeles, prima di essere uccisa dalla setta di Charles Manson il 9 agosto, vennero distribuite tra le migliaia di giovani accorsi sulla collina di Bethel per il Festival di Woodstock, iniziato quattro giorni dopo, e le mangiarono nello spazio - sotto forma di budino disidratato - i tre astronauti della missione Apollo 11. Nei giorni in cui un pugno di raccoglitori di banane si scannavano nel fango per un pezzo di terra, la poltiglia di quel frutto giallo smarcava l’atmosfera per volteggiare intorno alla Luna. Era stata dunque necessaria una guerra per far parlare di due Paesi poveri e disperati come l’Honduras e El Salvador, era stata necessaria una bugia per creare un mito attorno a loro, era stata necessaria la fame per rendere felice un uomo come Vides. Senza la storia (probabilmente) falsa di Amelia Bolaños (forse) non avremmo conosciuto la guerra - detta - del calcio e senza questa non avremmo saputo la storia vera di Salomon Vides. Pertanto una storia presumibilmente falsa ha (verosimilmente) permesso di conoscere una storia sicuramente vera. Alla fine di questi fatti, comunque, il Centroamerica ha perso l’occasione di rinascere. I due Paesi hanno perduto molte vite. Vides, non vivendo la sua, ha perso decenni di storia. Kapuściński, amplificandola, ha perso parte della sua credibilità. A guardare bene la guerra del football, diversamente da quanto può accadere in una partita, l’hanno perduta tutti. Il bollino blu delle banane Chiquita recitava: "L’etichetta fuori garantisce il meglio dentro". Quel meglio era tutto questo.

Honduras - El Salvador  14-18 luglio 1969

HONDURAS Comandante: Oswaldo López Arellano, Soldati: 12.000 (3 battaglioni di fanteria, 6 battaglioni di zona, 1 battaglione di genieri, 2 batterie di obici, 50 piloti, 150 marinai)

EL SALVADOR Comandante: Fidel Sánchez Hernández, Soldati: 20.000 (3 brigate di fanteria, 1 brigata di artiglieria, 1 squadrone di cavalleria motorizzata, 1 compagnia di trasmissioni, 1 compagnia di genieri, 1 compagnia medica, 1 battaglione di addestramento reclute, 25 piloti, 1 squadra di paracadutisti, 400 marinai)

PERDITE:

2.000 soldati e 3.000 civili (Honduras)

100 soldati e 600 civili (El Salvador)

13 luglio 2019

Fonte: Ilpost.it

NDR: Un sentito ringraziamento allo scrittore Piero Trellini
 
 
    ALTRE FONTI :    
GUERRA DEL CALCIO (WIKIPEDIA.ORG)      IL LIBRO (R. KAPUŚCIŃSKI)
El Salvador-Honduras: la prima guerra del calcio      La prima guerra del calcio (Storiedisport.it)
RADIO DJ  "La guerra del football" Carlo Lucarelli (DEE GIALLO)

El Salvador e l'Honduras in guerra per il football ?

Dopo i disordini scoppiati nei due paesi per le gare di qualificazione alla Coppa del Mondo.

(Nostro servizio particolare) San Salvador, 27 giugno. Una nuova crisi è venuta a turbare le agitate acque dell'America Centrale. La repubblica di El Salvador ha rotto le relazioni diplomatiche con il confinante Honduras, accusandolo di "genocidio", ed ha annunciato la sua intenzione di rivolgersi all'Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Il motivo ? Niente di politico, questa volta, la causa sta nei disordini scoppiati nei due paesi in occasione delle partite di qualificazione per la Coppa del Mondo giocate dalle rispettive nazionali. La vicenda è cominciata l'8 giugno, a Tegucigalpa, capitale dell'Honduras. Al termine della gara, vinta dai padroni di casa per 1-0, scoppiarono mischie selvagge fra i tifosi, e quelli di El Salvador accusarono i rivali di averli attaccati a colpi di bastone e di aver lapidato le automobili con la targa "El Salvador". L'Honduras, la settimana successiva, giocò il "ritorno" a San Salvador, rimanendo sconfitto. Gli sportivi locali, naturalmente, resero la pariglia a quelli venuti d'oltreconfine. Ci furono paurose scene di violenza, due persone rimasero uccise, decine ferite. La squadra dell'Honduras riuscì a stento a lasciare la città e tornare in patria. A questo punto la questione investì i governi dei due paesi. L'Honduras ordinò l'espulsione dal suo territorio di 12 mila cittadini di El Salvador trovati senza documenti in regola. Il ministro degli Esteri, Castillo, affermò che avrebbe chiesto alla Commissione per i Diritti Umani presso l'Osa di bollare El Salvador per "violenze contro le donne honduregne, distruzione di veicoli e insulti alla bandiera e all'inno nazionale dell'Honduras". Il governo di El Salvador ha reagito richiamando i riservisti, proclamando lo stato di emergenza e accusando l'Honduras di "genocidio, assassinio, persecuzione, attacchi contro le persone e i beni personali di El Salvador ed espulsione di suoi cittadini". Gli animi sono accesi, sembra quasi che i due paesi siano sull'orlo della guerra. E c'è ancora una partita da disputare, quella decisiva, che si svolgerà stasera (le prime ore del mattino in Italia) sul campo neutro di Città del Messico, e che designerà chi dovrà affrontare Haiti. r. s.

28 giugno 1969

Fonte: La Stampa

Dopo i sanguinosi tumulti per una partita di calcio

Guerra tra El Salvador e Honduras attacchi aerei, scontri al confine

Novemila soldati salvadoriani sono penetrati nella vicina repubblica - Bombardati numerosi centri civili, forse centinaia di morti.

Tegucigalpa, 15 luglio. Truppe di El Salvador, sembra novemila uomini con mezzi corazzati, sono penetrate, ieri sera nell'Honduras e stanno avanzando nel paese in direzione di Santa Rosa Copan, a cento chilometri dalla frontiera tra i due Stati. L'invasione è stata appoggiata ieri da incursioni aeree e dal bombardamento d'una decina di centri honduregni e impianti civili e militari compreso l'aeroporto della capitale, Tegucigalpa. Secondo fonti non ufficiali i bombardamenti avrebbero causato molte vittime. Si parla di centinaia di morti, ma le notizie sono incerte e contraddittorie. L'Honduras ha ordinato la mobilitazione delle forze aeree e terrestri per respinger l'invasione. Nelle vicinanze delle frontiere di El Salvador tutte le fattorie sono state sgomberate e centinaia di rancheros abbandonano le terre per rifugiarsi nell’interno. Il governo honduregno cerca però di minimizzare il pericolo dell'invasione e i danni provocati dai bombardamenti. Secondo El Salvador la responsabilità del conflitto ricade totalmente sull'Honduras. "Non sarà la guerra dei sei giorni ma delle sei ore" ha dichiarato il ministro degli Esteri consegnando alla stampa un comunicato che dice: "Le forze salvadoriane hanno ricevuto l'ordine di entrare in azione a seguito di continui attacchi dell'Honduras alla frontiera, di continue violazioni dello spazio aereo e della mobilitazione dell’esercito e dell’aviazione honduregne in preparazione di un attacco su larga scala". Il conflitto, latente da anni, trae origine dal fatto che El Salvador ha una popolazione superiore di quella dell'Honduras e una superficie pari, a meno di un quinto: 3 milioni di abitanti e 21 mila kmq, contro 2 milioni e mezzo di abitanti e 112 mila kmq di superficie. A più riprese sono avvenute migrazioni, spesso illegali, di famiglie salvadoriane nelle zone rurali dell'Honduras che ha più volte espulso i contadini immigrati, accusandoli di provocare disordini e rivolte. Nelle ultime settimane i provvedimenti contro gli immigrati, che avevano raggiunto il numero di 300 mila, sono stati più aspri ed El Salvador ha reagito accusando di persecuzione lo Stato confinante. Il contrasto aveva raggiunto la fase più clamorosa un mese fa in occasione degli incontri fra le squadre di calcio dei due Paesi per la qualificazione della Coppa del mondo. Dopo i violenti tumulti in campo e fuori tra i tifosi delle squadre, l'Honduras aveva deciso, il 26 giugno scorso, di rompere le relazioni diplomatiche. (Ansa-UPI)

16 luglio 1969

Fonte: La Stampa

Truppe di El Salvador avanzano in Honduras

Tegucigalpa chiederà una tregua d'armi ?

I due Paesi accettano tuttavia di sospendere le incursioni aeree in attesa d'una missione dell'Osa.

Washington, 16 luglio. Honduras ed El Salvador hanno acconsentito a sospendere le incursioni aeree nel quadro della loro "guerra lampo". L'interruzione temporanea, che non pone fine però ai bombardamenti, nella zona di frontiera, è stata decisa; per dare modo al gruppo di mediazione, della Organizzazione degli Stati americani di raggiungere la zona. Intanto i salvadoriani proclamano di avere conquistato due città honduregne e affermano che le loro truppe proseguono l'avanzata su Tegucigalpa, la capitale dell'Honduras. La missione dell'Osa è composta dagli ambasciatori di sette Paesi latino-americani, e il suo invio è stato deciso dal Consiglio dell'organizzazione, che comprende ventidue Paesi, fra cui gli Stati Uniti, in una riunione in cui si è stabilito anche, di rivolgere un appello alle due repubbliche perché, desistano dalle ostilità. Un primo gruppo è arrivato ieri sera nella capitale salvadoriana il cui aeroporto era stato bombardato poche ore prima dai Mustang honduregni. I delegati hanno avuto subito un colloquio con il presidente, Fidel Sanchez Hernandez. Nella riunione del consiglio dell'Osa i capi delle due delegazioni si sono scambiati gravi accuse; l'honduregno Roberto Perdòmo ha parlato di attacchi a centri civili non difesi, il salvadoriano Julio Rivera, delegato all'Osa, e il rappresentante speciale del Salvador, Alfredo Martinez Moreno, hanno ribadito le accuse di genocidio all'Honduras. Tegucigalpa ha fatto sapere, attraverso fonti diplomatiche, che sarebbe disposta a una tregua d’armi, ma le ultime notizie da San Salvador parlano di profonde avanzate in territorio honduregno, della conquista dei centri di Nueva Ocotopeque e Nacaome e della distruzione di quattro aerei dell'Honduras. Il presidente salvadoriano Sanchez Hernandez ha annunciato che il Paese è in stato d'assedio per trenta giorni. A Managua la Croce Rossa del Nicaragua ha annunciato di avere avuto dall'Honduras richiesta urgente di equipes di trasfusione. Gli attacchi salvadoriani, diceva l'appello, avevano causato numerose vittime. Il guatemalteco Reinaldo Estrada ha raccontato all'arrivo a Managua di avere assistito all'attacco salvadoriano a Choluteca, gli aerei sono giunti a ondate verso le sei di sera di lunedì, volando a bassa quota e mitragliando la popolazione, poi sganciando bombe che sono cadute sulle case vicine a una caserma. La Standard Oil of New Jersey ha confermato a New York che la sua raffineria di Acajutla nel Salvador è stata incendiata da un attacco aereo honduregno. (Ansa - UPI)

17 luglio 1969

Fonte: La Stampa

ANALISI

La guerra del calcio

di Alfonso Di Nola

I disordini sportivi sono il pretesto del conflitto tra Honduras e El Salvador; i contrasti tra i due paesi sono ben più profondi.

La "guerra del calcio" tra Honduras e El Salvador - ora guerra guerreggina, con l'impiego di aerei e artiglierie e reciproche invasioni - comincio l'8 giugno a Tegucigalpa, la capitale honduregna. Si giocava un incontro di qualificazione per i campionati mondiali di football e la posta in gioco aveva acceso gli animi sul campo e sugli spalti, come spesso accade nell'America centromeridionale. Vinse l'Honduras. Scene selvagge seguirono a quell'effimero successo. I supporters del Salvador furono bastonati a sangue nelle strade, le loro auto lapidate e date alle fiamme. Sette giorni dopo, per l'incontro di ritorno a San Salvador, i tifosi locali erano pronti alla rappresaglia. Al termine della partita (vinta dai salvadoriani) si scatenò una vera caccia agli ospiti, turisti e giocatori. Ci furono due morti e decine di feriti, donne vennero violate; gli honduregni - scrisse l’Economist - "riuscirono a malapena a tornare a casa". La spirale dell'odio raggiunse i due governi. Mentre a Tegucigalpa la folla assaliva gli emigrati salvadoriani e bruciava le loro case, l'Honduras ordinava l'espulsione di dodicimila cittadini di El Salvador col pretesto che non avevano i visti di soggiorno in regola. Il ministro degli Esteri, Castillo, si appellò all'organizzazione degli Stati americani (Osa), chiedendo la condanna di El Salvador per "le violenze compiute contro le donne honduregne, la distruzione di veicoli e gli insulti alla bandiera nazionale". El Salvador reagì proclamando lo stato di emergenza e accusando l’Honduras di "genocidio, persecuzione, attacchi contro le persone e i beni dei suoi cittadini"; e, mentre migliaia di profughi salvadoriani varcavano la frontiera per tornare in patria, rompeva le relazioni diplomatiche e si preparava alla guerra ordinando la mobilitazione generale. Ora la guerra è scoppiata per davvero. Ma i tumulti seguiti alle partite di football non sono che un pretesto. I contrasti tra i due paesi (associati nel Mercato comune del Centro-America) sono ben più acuti: affondano le radici nella realtà sociale, nella economia, nelle rivendicazioni territoriali. El Salvador è la più piccola delle repubbliche centro-americane (21.393 chilometri quadrati, meno del Piemonte), ma ha più di 3 milioni di abitanti e il tasso di incremento demografico è tale che la popolazione potrebbe raddoppiare entro dieci anni. I salvadoriani sono intraprendenti e industriosi, alcuni hanno raggiunto un livello culturale e di vita relativamente alto; il loro dinamismo non trova tuttavia sfogo nelle frontiere troppo ristrette del paese, e l'emigrazione è altissima. L'Honduras (112 mila chilometri quadrati, più di un terzo dell'Italia, è solo due milioni e mezzo di abitanti) ospitava fino all'ultimo conflitto 300 mila salvadoriani, quasi tutti contadini. L'esistenza di una forte minoranza non aveva creato finora gravi problemi. Ma il paese è povero, ed anche la terra offre mediocri risorse; soltanto un terzo della superficie è coltivabile. Qualche mese fa il governo decretò la riforma agraria. Ne furono colpiti soprattutto i salvadoriani, soggetti a dure esazioni fiscali. La riforma inasprì il clima di ostilità fra i due paesi; i disordini sportivi hanno esasperato la tensione fino al limite della rottura. In realtà la "guerra del calcio", ha scritto Le Monde, "illustra le difficoltà incontrate da due piccole repubbliche dell’America centrale nel superare gli ostacoli politici, economici e psicologici verso l'integrazione, che le solleverebbe dalla condizione di cronico sottosviluppo".

17 luglio 1969

Fonte: La Stampa

Honduras e El Salvador sospendono le ostilità

Accolto l'invito degli Stati americani Honduras e El Salvador sospendono le ostilità. Chieste garanzie per i salvadoriani emigrati nella repubblica confinante.

Washington, 17 luglio. El Salvador e l'Honduras hanno accettato l'invito loro rivolto dall' Organizzazione degli Stati americani per una cessazione delle ostilità. Il governo di Tegucigalpa ha trasmesso la sua decisione al consiglio dell'Osa nella giornata di ieri. San Salvador ha fatto conoscere la sua accettazione della proposta poco prima di mezzanotte, ma ha chiesto garanzie per la sicurezza dei salvadoriani che risiedono in territorio honduregno. Guillermo Sevilla Sacas, capo della missione di mediazione di sette Paesi latinoamericani, inviata nelle capitali dei due Paesi dal consiglio dell'Osa, ha riferito questa dichiarazione del ministro degli Esteri salvadoriano Francisco José Guerrero: "Accogliendo la richiesta fattagli e onorando la sua tradizione pacifista il governo salvadoriano accetta la cessazione delle ostilità, al momento che stabilirà la commissione, sempre che essa sia in grado di istituire il meccanismo e di offrire le garanzie necessarie per la sicurezza dei salvadoriani che vivono in Honduras. Non appena cessate le ostilità e non appena fornite le salvaguardie ai cittadini salvadoriani, siamo disposti a iniziare negoziati sugli altri punti della richiesta". Del messaggio è stata data lettura al consiglio dell'Osa riunito in seduta di emergenza. Se El Salvador non avesse risposto positivamente all'appello di cessazione delle ostilità, si è fatto notare, l'Osa avrebbe dichiarato aggressore il Paese centro-americano. Una volta preso atto della comunicazione del governo di San Salvador ci si è posti in attesa di notizie dalle quali risultasse la cessazione delle ostilità. Notizie giunte da Tegucigalpa dicevano che l'esercito honduregno aveva inviato rinforzi nella regione nord-occidentale del Paese, in vista di una grande battaglia per Ocotopeque. Le informazioni da San Salvador dicevano che le truppe salvadoriane proseguivano l'avanzata ed erano penetrate di oltre sessanta chilometri nell'Honduras settentrionale, conquistando Ocotopeque Nueva e Santa Rosa Copàn. Ieri sera è stato annunciato che l'aviazione salvadoriana aveva respinto una formazione honduregna che attaccava l'aeroporto di Ilopango nei pressi della capitale. Nel Nicaragua l'ambasciata salvadoriana ha affermato che da quando sono scoppiate le ostilità sono stati abbattuti nel cielo salvadoriano quattordici aerei nemici. L'ambasciata honduregna smentisce invece che Ocotopeque Nueva sia caduta in mano salvadoriana. (Ansa - UPI)

18 luglio 1969

Fonte: La Stampa

In fuga dall'Honduras per la "guerra del calcio"

Ma le truppe honduregne e salvadoriane hanno accettato l'armistizio dell'Osa.

San Salvador, 18 luglio. Il governo salvadoriano ha annunciato di aver accettato una richiesta dell'Honduras per la cessazione provvisoria delle ostilità. Fin dalle prime ore di oggi i cannoni hanno taciuto su ambedue i fronti. Gli aerei salvadoriani sono rimasti nelle loro basi, mentre i comandi dell'esercito di El Salvador, che avevano aperto tre fronti all'interno dell'Honduras, si sono fermati sulle loro posizioni in attesa dell'ordine di ritirarsi. L'invasione di El Salvador ha costretto gli abitanti di molti villaggi honduregni ad abbandonare le loro abitazioni e a fuggire sia verso l'interno, sia verso la frontiera del Guatemala. Colonne di profughi continuano ad affluire al confine guatemalteco. Sulle perdite causate dalla "guerra dei quattro giorni", alcuni informatori a Tegucigalpa sostengono che gli honduregni avrebbero perso oltre 1000 uomini tra morti e feriti. Da stamane la radio dell'Honduras ha cominciato a fornire lunghe liste di caduti. (Ansa-Api) Tegucigalpa.

19 luglio 1969

Fonte: La Stampa

Finita la "guerra del calcio"

Si cerca un posto per 300 mila di El Salvador

Sono i cittadini che risiedono nell'Honduras. Elaborato dall'Osa un programma di soccorso.

Washington, lunedì mattina. L'organizzazione degli Stati americani (Osa) ha elaborato un programma di soccorso per i trecentomila cittadini di El Salvador residenti nell'Honduras. I particolari del programma, che comprende la ricerca di nuovi luoghi di residenza sono stati comunicati dal segretario generale dell'Osa Galo Plaza all'organismo consultivo provvisorio dell'Osa che ha tenuto una riunione a porte chiuse. Plaza ha dichiarato che la Banca inter-americana di sviluppo e l'Organizzazione panamericana della sanità cooperano a questo sforzo, che mira a raggiungere una soluzione permanente del conflitto tra i due Paesi dell'America Centrale. E' stato anche reso noto che il numero degli osservatori militari incaricati di sorvegliare il rispetto della cessazione del fuoco e il ritiro delle truppe è stato portato a ventisei. Oltre agli ufficiali dell'Argentina, dell'Ecuador e della Repubblica Dominicana che hanno lasciato Washington sabato pomeriggio diretti nell'Honduras e nel Salvador, tre colonnelli statunitensi, due ufficiali della Costa Rica, cinque del Guatemala e dieci del Nicaragua sono partiti per la zona della frontiera tra l'Honduras e il Salvador. Finora la commissione speciale non ha segnalato alcuna violazione della cessazione del fuoco. (Ansa - Afp)

21 luglio 1969

Fonte: La Stampa

Guerra del Football, storia antica fra Honduras e El Salvador

di Massimo Lopes Pegna

Ieri sera le due nazionali, che si sfidarono anche nelle qualificazioni per Messico '70 pochi giorni prima del conflitto fra i due Stati che durò 100 ore provocando 4.000 morti, si è conclusa con la vittoria degli honduregni per 1-0.

NEW YORK, 11 giugno 2009 - Ieri sera l'Honduras ha battuto El Salvador 1-0 (1-0) in una partita di qualificazione al Mondiale di calcio 2010 (zona Nord-Centro America). La rete del successo è stata realizzata da Carlos Pavòn al 14' del primo tempo. Ora l'Honduras è al terzo posto nel girone e domani affronterà il Costa Rica capolista nell'ultimo match delle qualificazioni: se manterrà almeno la terza posizione si qualificherà per la fase finale dei Mondiali sudafricani. El Salvador invece, ora quinto (ma ad un punto dal Messico), si giocherà domani il tutto per tutto contro Trinidad&Tobago.

La storia - "Guardi, non rilascio dichiarazioni al telefono". Quarant’anni dopo lo scoppio della Guerra del Football, l’ottantenne argentino Gregorio Bundio si atteggia come se fosse ancora l’allenatore del Salvador e dribbla l’argomento con il giornalista straniero. La disputa inizia nel giugno 1969. Gli eserciti di Honduras ed El Salvador si spintonano da settimane alla frontiera per motivi di immigrazione, mentre le due nazionali di calcio devono affrontarsi per la qualificazione al mondiale di Messico ’70. A Tegucigalpa, l’8 giugno, il clima è arroventato da questioni nazionaliste: centinaia di tifosi cantano sotto le finestre dell’hotel dove sono rintanati i giocatori rivali. Non chiuderanno occhio e l’Honduras vincerà per 1-0 al 91’. A San Salvador, Amelia Bolaños, tifosa di 18 anni, per la disperazione si spara un colpo al cuore. Le faranno i funerali di Stato e Bundio con i suoi ragazzi dovranno marciare dietro al feretro. Il 14 giugno, alla vigilia della rivincita, sono gli honduregni a non dormire e ad arrivare allo stadio sotto scorta dei carri armati: inevitabilmente perderanno per 3-0.

La bella - E siccome la differenza reti a quei tempi ancora non contava, si dovrà giocare la "bella": sul neutro dell’Atzeca, a Città del Messico. Il 27 giugno finisce 3-2 per El Salvador e "il gol mas dulce del Paese" lo segna al supplementare Mauricio "Pipo" Rodriguez. Un mese dopo scoppia l’annunciato conflitto che durerà appena 100 ore, farà oltre 4 mila morti e verrà ricordato, appunto, come la Guerra del Football. "Ma il football non c’entrava niente", ci assicura il cortese ambasciatore dell’Honduras all’Onu, Jorge Arturo Reina. "Le ragioni furono molto più profonde: economiche e sociali". Niente lotta per il petrolio o per gli sbocchi sul mare, semplicemente una guerra fra poveri. El Salvador è cinque volte più piccolo del Paese rivale, ma ha una popolazione doppia: si fa la fame, le proprietà agricole sono in mano a 14 famiglie latifondiste e trecentomila salvadoregni, nel corso degli anni precedenti, sono emigrati in Honduras occupando centinaia di ettari di terreno libero. A un certo punto il governo di Tegucigalpa, stufo di questa silenziosa invasione, emette una legge che permette l’espulsione degli immigrati: il Salvador, temendo l’esodo di ritorno di un esercito di disperati e una possibile guerra civile, decide di attaccare l’Honduras. Dice Reina, che nel ’69 era professore di filosofia del diritto all’università di San Salvador: "I due Paesi hanno relazioni eccellenti e storicamente è sempre stato così, a parte in quei mesi di conflitto. Oggi addirittura abbiamo un sogno comune: stiamo lottando insieme per unire il Centro America e renderlo simile alla vostra Comunità Europea".

Rodriguez, gloria nazionale - In El Salvador, però, l’ingegner "Pipo" Rodriguez, quello che segnò "il gol mas dulce", è ancora un divo nazionale: "E’ vero, qui sono ancora famoso e quella rete è stata la più importante della mia carriera. Ma solo perché spalancò la strada (poi El Salvador dovette battere Haiti per qualificarsi, ndr) alla nostra prima partecipazione a un Mondiale. Solo per quello". Aggiunge: "Noi giocatori non ci odiavamo, alcuni dei nostri rivali erano amici. Le partite furono intense, ma senza cattiveria. Furono i giornali di entrambi i Paesi a creare il clima di guerra: scrissero che c’era in ballo l’onore e la necessità di vincere per rendere grande la propria nazione". Un po’ di anni fa Bundio aveva spiegato: "Se avessimo perso non so che fine avremmo fatto, perché il Presidente Fidel Sanchez Fernandez me lo disse chiaramente": "Vinca perché ci giochiamo la nostra dignità". "Vincemmo e mi arruolai volontario". Ma il tecnico argentino venne poi cacciato senza motivo poco prima del Mondiale che si era conquistato. Se quarant’anni dopo non rilascia dichiarazioni al telefono, è forse anche per questo. "La Guerra del Football" durò poco più di quattro giorni. Il 14 luglio l’esercito salvadoregno penetrò per otto chilometri nel territorio honduregno, ma con l’aviazione a pezzi si ritrovò presto senza rifornimenti e fu costretto a una frettolosa ritirata. Il 18 luglio ci fu il "cessate il fuoco", ma un vero trattato di pace venne firmato soltanto il 30 agosto 1980 e si dovette aspettare il ’98 per risolvere il contenzioso sul territorio.

Basta conflitti - Da allora Honduras-El Salvador è stata giocata senza problemi altre 35 volte e quella di ieri, qualificazione al Mondiale del Sud Africa 2010, era solo una sfida sportiva di grande interesse: entrambe le nazionali, rispettivamente 3a e 5a nel girone, hanno concrete possibilità di qualificarsi, così come successe al Mondiale del 1982. Victor Zelada, giornalista del quotidiano El Salvador, dice: "Della Guerra del Football parlano ormai soltanto gli anziani: è roba del passato. Pensi che con l’Honduras non c’è neppure grande rivalità sportiva. Le partite più sentite sono contro Messico e Costarica". Ma chi la vinse la Guerra del Football ? L’ambasciatore Reina non ha dubbi: "L’abbiamo persa entrambi".

11 giugno 2009

Fonte: Gazzetta.it

Persi i Mondiali in Messico, l'Honduras dichiara guerra al Salvador

di Enrico Silvestri

Dopo le tre gare per l'accesso alla Coppa Rimet, il 14 luglio del 1969 la storica rivalità tra i due Paesi sfociò in scontri armati. Quattro giorni di combattimenti, poi la pace imposta dall'Organizzazione degli Stati Americani, che lasciò inalterati confini e reciproche rivendicazioni: nel frattempo erano morti, per niente, 6mila tra civili e militari.

Altro che gli incidenti del dopo partita Carpi-Lecce, una storica rivalità, questa volta tra due nazioni, 44 anni fa sfociò addirittura in un conflitto armato, con sanguinose battaglie terrestri e feroci bombardamenti sulle città. Alle 17.50 del 14 luglio del 1969 infatti dopo la "bella" tra le due nazionali di calcio per decidere chi dovesse andare ai Mondiali del 1970, le forze armate del Salvador attaccarono l'Honduras, dando inizio alla "Guerra del Calcio". Le ostilità durarono quattro giorni, per questo fu anche chiamata "Guerra delle 100 ore", ma ci fu poco da scherzare perché provocarono circa 6mila vittime tra militari e civili. Poi intervenne l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) imponendo il "cessate il fuoco" ai contendenti che iniziarono lunghe e laboriose trattative, concluse solo nel 1992, con il riconoscimento dello "status quo ante". Gli attriti tra i due Paesi nascono praticamente insieme al raggiungimento dell'indipendenza dalla Spagna il 15 settembre 1821. El Salvador, 21mila chilometri quadrati e 6 milioni di abitanti, infatti lamenta di non aver avuto uno sbocco sull'oceano Atlantico a vantaggio dell'Honduras, 112mila chilometri quadrati e 7 milioni di abitanti. Mentre viceversa, per quanto riguardava il Pacifico, l'ingombrante vicino poteva controllare il golfo di Fonseca, uno dei migliori approdi di tutta l'America centrale. La situazione alimenta per un secolo e mezzo il rancore tra San Salvador e Tegucigalpa, fino a quando queste diventano aperta ostilità nel 1969 in vista della gara di spareggio tra le due nazionali di calcio per accedere ai Mondiali messicani del 1970. A dar fuoco alle polveri, la decisione del governo honduregno di espellere 300mila "campesiños" salvadoregni, che dalla metà degli anni Sessanta si erano insediati all'interno dei suoi confini, ed espropriare le loro proprietà. Con queste premesse dunque arriviamo all'8 giugno quando a Tegucigalpa si gioca la gara d'andata. Il clima è subito rovente, gli honduregni si piazzano sotto l'albergo della squadra ospite, tenendo svegli i giocatori a colpi di clacson e pietre sulle finestre mentre il giorno tagliano le gomme al loro pullman. La partita si svolge in clima intimidatorio e si conclude con la vittoria dei padroni di casa per 1 a 0. Per la disperazione, una ragazza salvadoregna si spara un colpo di pistola, diventando una martire: sul suo corpo migliaia di compatrioti giurarono vendetta. Il ritorno si disputa il 15 giugno in un clima ancora più infuocato. Ancora una volta l'albergo degli avversari viene preso d'assalto e il giorno dopo gli honduregni devono raggiungere lo stadio addirittura nascosti all'interno dei carri armati dell'esercito. Dentro, una bolgia infernale, incidenti, risse, feroci corpo a corpo, conclusi con due morti e decine di feriti, mentre in campo i padroni di casa si impongono per 3 a 0. Rendendo necessario lo spareggio, fissato allo stadio Azteca di Città del Messico, l'anno dopo sede della storica Italia Germania 4 a 3. Il 27 giugno le formazioni entrano in campo, mentre sugli spalti i tifosi cercano il contatto nonostante la presenza di 5mila poliziotti. La partita è in bilico fino all'ultimo: vantaggio del Salvador e pareggio dell'Honduras, ancora avanti i salvadoregni, ancora una volta raggiunti. I tempi regolamentari si concludono sul 2 a 2 ma ai supplementari, un gol di Rodriguez al 101°, dà la vittoria al Salvador. Facendo contemporaneamente scoppiare tra le due tifoserie uno dei più furiosi scontri della storia del calcio mondiale. Il giorno dopo scattano le rappresaglie in Honduras, dove vivevano ancora molti salvadoregni, aggrediti, picchiati, uccisi per strada. Non viene risparmiato neppure il personale diplomatico presente nella capitale. El Salvador dichiara allora la "Guerra de Legítima Defensa" e il 14 luglio le sue truppe attraversano i confini. Sulla carta sembra in vantaggio sugli storici avversari avendo in servizio più soldati e meglio armati, mentre l'Honduras può contare su una leggera supremazia aerea. I combattimenti vanno avanti per 4 giorni, con inevitabili rappresaglie sulle popolazioni civili. Poi il 18 luglio l'Organizzazione degli Stati Americani impone il cessate il fuoco, facendo iniziare le trattative tra i due Paesi, concluse solo nel 1992. Praticamente tutto torna come prima, nonostante i quasi 6mila caduti: 2mila militari e 3mila civili da parte honduregna, 100 soldati e 600 campesiños dall'altra. Morti per nulla, nella più breve, ma anche nella più stupida, se mai ci potrà essere una simile graduatoria, delle guerre.

12 luglio 2013

Fonte: Ilgiornale.it

14 luglio 1969, Salvador-Honduras e la "Guerra del football"

di Sebastiano Di Paolo

Il legame tra una partita e la guerra tra due nazioni. "La guerra delle cento ore".

Una striscia di terra congiunge l’America del nord a quella del sud. Sembra piccola e insignificante, quasi come fosse un’autostrada naturale messa lì a fare da ponte e da collegamento tra due luoghi sconfinati. Eppure, quella striscia che pare una linea sfilacciata tra nord e sud, è una lingua di fuoco che da decenni coniuga tutti i mali. Uno squarcio di terra in mezzo al mare, il cordone ombelicale tra due corpi che, loro malgrado, vivono da sempre lunghi e incessanti periodi di conflitti e reciproche sopportazioni, ma irrimediabilmente ricondotti l’uno all’altro dal potere e dai suoi incalcolabili interessi politici e finanziari. Nel 1960, gli Stati Uniti d’America sostennero la formazione del Mercato comune centroamericano, un’area di libero scambio comprendente Nicaragua, Guatemala, Costarica, El Salvador e Honduras. L’opportunità apparve gradita anche ai paesi dell’America centrale, i quali vi scorsero una possibilità di sviluppo. Gli investimenti che però solo arbitrariamente vengono impiegati in America centrale, a causa della discrezionalità degli investitori, in luoghi più avanzati, consentirono al Salvador, attraverso la tipica forma sudamericana dello sfruttamento del latifondo, un maggiore sviluppo, con conseguente aumento della popolazione, difficile da contenere in un territorio troppo piccolo. La crescita demografica costrinse Salvador a stringere, con il confinante Honduras, la Convenzione bilaterale dell’immigrazione, con la quale i cittadini salvadoregni avrebbero goduto di libertà di transito e di lavoro in Honduras, paese meno sviluppato, che con vasti territori incolti avrebbe beneficiato di mano d’opera. Gli anni dell’accordo furono invece gli anni del disaccordo. Trecentomila salvadoregni si insediarono in Honduras. Ma il loro sviluppo economico non fu ben visto dagli abitanti honduregni, ai quali era sempre mancata una riforma agraria con la quale differenziarsi nel Mercato comune. Il dittatore dell’Honduras, Oswaldo Lopez Arellano, col suo governo appoggiato da Stati Uniti e latifondisti, per non turbare i presidi della United Fruit Company, che poi sarebbe diventata l’attuale Chiquita, prese, attraverso un decreto del Ministero dell’Agricoltura, nel 1969, una decisione drastica e sorprendente. Per assecondare l’ingenua e disperata richiesta dei suoi cittadini, impose la confisca delle proprietà terriere e l’espulsione di tutti coloro che in Honduras possedessero immobili senza essere cittadini honduregni. La violazione della Convenzione bilaterale sottrasse tutto ai salvadoregni in Honduras e il provvedimento si rivelò pericoloso per l’ordine pubblico internazionale, perché trasformò i cittadini del Salvador in profughi verso il proprio paese d’origine. Il paradosso politico infuocò i rapporti diplomatici tra i due paesi. Intanto, gli unici a non aver subito conseguenze da questo critico processo politico, furono gli investimenti, originari e più recenti, dei gruppi finanziari legati agli Stati Uniti e alla United Fruit. L’occasione per sfogare la tensione accumulata da Salvador e Honduras fu, nel 1969, la partita di calcio tra le due nazionali, semifinale, andata e ritorno, valevole per la qualificazione ai Mondiali che nel 1970 si sarebbero svolti in Messico, primo paese centroamericano a ottenere l’organizzazione dell’evento. La striscia centroamericana era diventata il centro del mondo.

8 giugno 1969, nella partita di andata, allo stadio Nacional di Tegucigalpa, in Honduras, i padroni di casa batterono uno a zero, con un gol all’ultimo minuto di Leonard Wells, gli odiati rivali del Salvador. Nei giorni precedenti l’incontro, in Honduras gli abitanti della capitale avevano sovvertito l’ordine pubblico, pur di intimorire i calciatori del Salvador. La sconfitta della nazionale ospite causò pure il suicidio di una ragazza salvadoregna, che, pare, non riuscì a reggere l’umiliazione subita dal proprio paese nell’ostile terra honduregna. A quella giovane tifosa, che si chiamava Amelia Bolaños, il suo paese tributò i funerali di Stato e il governo salvadoregno non esitò a sfruttare l’episodio a scopo propagandistico. Intanto, i tifosi del Salvador avevano già giurato vendetta.

15 giugno, Estadio de la Flor Blanca, San Salvador. I salvadoregni ottennero la tanto sperata rivincita. Tre a zero senza discussioni. Ma la battaglia che i salvadoregni avevano desiderato si consumò fuori e dentro il campo di gioco. La nazionale honduregna fu scortata allo stadio dall’esercito, e i calciatori trasportati all’interno di carri armati. Furono bruciate bandiere dell’Honduras e l’inno fu fischiato durante la sua esecuzione. Ma il peggio si consumò con la brutalità del delitto. I tifosi dell’Honduras furono aggrediti e picchiati. Due morti e decine di feriti furono il bilancio di un’autentica guerriglia urbana.

27 giugno 1969, spareggio per l’accesso alla finale delle qualificazioni. Allo Stadio Azteca di Città del Messico una rete di Mauricio Rodriguez, all’undicesimo minuto dei tempi supplementari, regalò la finale al Salvador, battendo così l’Honduras per tre a due. Sugli spalti, 5000 agenti di polizia non riuscirono a evitare il contatto tra le tifoserie, che scatenarono la loro furia anche tra le strade intorno all’Azteca. Quella sera stessa si ruppero definitivamente i rapporti diplomatici tra Salvador e Honduras.

Il 14 luglio, senza formale dichiarazione di guerra, Salvador attaccò lo stato di Honduras, giustificando l’azione militare con una necessaria legittima difesa preventiva dei confini nazionali. L’Honduras, in difficoltà, riuscì comunque a reagire ai bombardamenti del Salvador sulle postazioni nel Golfo di Fonseca. La guerra tra i due paesi cessò alla fine di Luglio, durando una settimana, soprattutto grazie all’intervento dell’OSA (Organizzazione Stati Americani), che impose presto la pace e nuove regole tra i due paesi. Ma la settimana delle ostilità fu abbastanza per provocare migliaia di vittime, militari e civili, circa 50000 sfollati e la distruzione di diversi villaggi. Un conflitto combattuto con mezzi risalenti addirittura alla seconda guerra mondiale, e con modalità da seconda guerra mondiale, aveva in poco tempo violato e definitivamente indebolito una condizione generale già da tempo precaria e miserevole. Ryszard Kapuściński ha raccontato quella che lui stesso ha definito "La prima guerra del football", anche denominata "Guerra del calcio" e "Guerra delle cento ore". Nel suo libro "La prima guerra del football e altre guerre di poveri", lo scrittore polacco ha evidenziato come già allora il calcio potesse essere strumento efficace per la politica, onde alimentare "l’isteria patriottica", spirito di massa conveniente alla propaganda politica dei governi. Secondo Kapuściński, che conosceva molto bene la realtà dell’America centrale, la sfida calcistica tra Honduras e Salvador era servita soprattutto ai poteri politici, consapevoli che l’attenzione generale corre in soccorso solo quando assiste a gravi e indiscriminati episodi di violenza. Una partita di calcio divenne, così, pretesto e principio per l’esercizio sconsiderato della disputa che forse schierava sul campo di gioco e di battaglia più di due avversari. E non sarebbe stata l’ultima volta. Troppo spesso, laddove si verifica una sofferenza popolare confinata, si nasconde un affare privato che riguarda un interesse pubblico. Da sempre un inquietante eserciziario politico si nasconde tra le quinte di questi aneddoti insanguinati. Un proverbio africano dice, "Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata".

14 luglio 2014

Fonte: Fantagazzetta.com

19 luglio 1969: il conflitto vero nato dalla

"Guerra del calcio" tra Honduras ed El Salvador

di Fiorenzo Radogna

Uno spareggio ad altissimo contenuto politico vinto dai salvadoregni ma sfociato nel suicidio di una 18enne diventata eroina nazionale e in uno scontro tra militari costato 6.000 vittime.

"Guerra del Calcio" - Diceva lo statista francese Georges Clemenceau "La guerra è una cosa troppo seria per essere lasciata ai militari...". Non sapeva che quell’aforisma ironico un giorno sarebbe stato preso alla lettera anche dal mondo dello sport. E che quello stesso giorno, a scatenare una guerra vera concretizzando un odio radicale e una convivenza inaccettabili, sarebbe stata una serie di partite di calcio. Coi rispettivi tifosi inferociti e le due squadre in campo a "darsele di brutto"; prima che la disfida passasse, il 19 luglio 1970, dai civili ai militari. Con migliaia di morti da una parte e dell’altra, il mondo della politica internazionale spiazzato e quello dello sport che si ritraeva inorridito. Qualcuno disse che fosse un "fatto centroamericano", altri che "c’era da aspettarselo" e che tutta quell’instabilità prima o poi avrebbe trovato un pretesto (il calcio) per esplodere. Sociologi, infine, rilanciarono (in negativo) il ruolo tragico che ebbe quella tripla sfida di pallone. Fra due piccole e modeste Nazionali, espressione di due stati confinanti e che, prima ancora che vincere e accedere a un Mondiale, anelavano sopraffare l’avversario. Vendicarsi. È lo scenario che portò alla dimenticata "Guerra del Calcio" fra Honduras ed El Salvador che, giusto in questi giorni di metà luglio (ma del 1969), infiammò quel lembo di terra che salda Nordamerica e Sudamerica. Poco più che un "fazzoletto" fra Guatemala e Nicaragua, crocevia di tanti umani traffici e via di passaggio di tante cristiane speranze. "Casus belli" un maledetto spareggio per accedere a quella che (per l’Italia) sarebbe stata l’indimenticabile kermesse di Mexico ‘70. Uno spareggio "triplo", perché nessuna delle due Nazionali voleva perdere in quella che sarebbe diventata una "brutta storia". Di calcio e calcioni, di occhi iniettati di odio e scorrettezze in campo e poi via: in un’escalation militare. Una vicenda di eserciti e carri armati, cannoni e napalm. Pianti, feriti e morti ammazzati. Una storia in cui, purtroppo, il calcio e i suoi padroni hanno gravi responsabilità...

Le premesse politico-sociali - L’odio fra Honduras e El Salvador covava già da un paio d’anni, prima di quell’estate 1969. Negli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso l’El Salvador si era consolidato come uno dei riferimenti per le coltivazioni Usa e attraversava un momento felice della propria storia. C’era molto lavoro, aumentava il Pil e lo stato registrava un boom demografico. Lo stesso che però, negli anni ‘60, sarebbe diventato un vero problema. La popolazione divenne infatti troppo numerosa e i mezzi di sostentamento troppo scarsi. El Salvador è piccolo e la disoccupazione esplose. Così nel 1967 con l’Honduras fu stipulata una convenzione bilaterale che permise ai contadini salvadoregni di varcare il confine e trasferirsi in Honduras. Un grave errore: anche l’Honduras restava un piccolo stato e gli oltre 250mila nuovi arrivi da El Salvador diventarono ben presto insostenibili. Nel 1969, il dittatore honduregno Oswaldo Lopez Arellano decise, infine, di chiudere le frontiere ed espellere (espropriandone anche le terre) tutti i contadini salvadoregni. La decisione fu presa nel mese di maggio. Il momento sbagliato per giocare fra le due squadre uno "stupido" spareggio calcistico...

Le premesse calcistiche - Da quando la Fifa aveva assegnato il Mondiale 1970 al Messico in tutto il centroamerica si vivevano mesi di fibrillazione. È l’appuntamento a cui tutti gli stati di quella parte di mondo volevano accedere; e il fatto che la Selección Tricolor si fosse qualificata di diritto come paese ospitante, spalancava le porte a un’altra qualificata della Concacaf (la "Uefa centro-nordamericana"). Sia Honduras che El Salvador ci speravano e con loro le (ancor più) modeste Nazionali di Usa e Haiti. Tutte e quattro queste nazionali avevano vinto i loro rispettivi giorni fra l’ottobre e il gennaio precedenti. E qui ecco la "miopia" dei vertici di Concacaf e Fifa: invece di considerare il clima di pesante tensione che si viveva fra le due nazioni ed evitare un confronto diretto fra le due, i "puristi" delle due federazioni diedero luogo a un sorteggio "non pilotato". Talmente fuori controllo che... Dall’urna usci beffardo l’accoppiamento di semifinale "Honduras-El Salvador". Una cosa impensabile al giorno d’oggi fra palline scaldate nell’urna e bende da cui si vede benissimo.

La prima sfida di Tegucigalpa - Partita di andata e ritorno, con eventuale "bella" in campo neutro. Come dire: tripla occasione di confronto fra nazionalità e tifoserie che si odiano. Pericolo triplicato. L’8 giugno 1969 semifinale di andata all’Estadio Nacional di Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. Le premesse furono subito drammatiche: nei giorni precedenti il paese fu dilaniato da scioperi e manifestazioni e non solo. La notte prima dell’incontro per i giocatori salvadoregni fu un inferno. Sassi e uova contro le finestre dell’albergo (circondato) che li ospitava; e si sentì pure qualche colpo di pistola. Poi il giorno dopo: le gomme dell’autobus per arrivare allo stadio furono tagliate. La partita risultò brutta, lenta e violenta. Più che una sfida di calcio, una gara alla "pedata meglio assestata". Alla fine vinse l’Honduras 1-0, grazie al gol del difensore Leonard Wells all’89’.

Amelia "l’eroina" - Era solo la sfida di andata, ma si trattò di una partita in cui c’era in ballo ben più che una semplice qualificazione al Mondiale: addirittura l’orgoglio e la dignità nazionali. Fra i più giovani abbondarono gli episodi di fanatismo al limite della pazzia. Fu in questo clima di pathos nazionalista (subito dopo la sconfitta) che una ragazza nemmeno ventenne, Amelia Bolaños (figlia di un generale dell’esercito salvadoregno) al triplice fischio finale si sparò al cuore con la pistola del padre. Per il popolo salvadoregno sarebbe diventata un’eroina a cui sarebbero stati tributati funerali di stato. Un’altra tragica premessa per la gara di ritorno...

Il ritorno a San Salvador - Il 15 giugno 1969 per la gara di ritorno a San Salvador, l’Estadio de la Flor Blanca era gremito con oltre 37mila spettatori. La notte prima i salvadoregni avevano "reso la pariglia" agli ospiti: albergo circondato, mentre uno dei membri salvadoregni del comitato d’accoglienza per le squadre ospiti veniva ucciso a sassate nel tentativo di riportare la calma, una volta affacciatosi alla finestra. Il giorno dopo ci vorrà l’esercito coi carri armati per scortare il pullman dell’Honduras allo stadio. Lì, sugli spalti, verranno bruciate bandiere ospiti e fischiato l’inno honduregno. Ai margini del campo i militari col mitra in mano. El Salvador vinse 3-0 coi gol di Martinez al 27’ su (generoso) rigore; al 30’ di Acevedo, e al 40’ ancora di Martínez. Nei tafferugli fuori dallo stadio dopo la partita morirono poi altri due tifosi ospiti. Disfida in archivio ? Per nulla. In quegli anni non esisteva regola della differenza reti, era previsto uno (sciagurato) spareggio in campo neutro...

Lo spareggio all’Azteca - Sarà l’enorme stadio Azteca di Città del Messico, il 27 giugno del 1969 a ospitare lo spareggio fra le due nazionali. Dentro e fuori quasi 5mila soldati messicani in assetto anti-sommossa. Ma non sarebbero serviti a molto, nonostante lo stadio risultasse semivuoto (nemmeno 16mila paganti sui 115mila di capienza). Sarà proprio questa gara la più bella (e la più tragica) delle tre. Finirà 3-2 per El Salvador, passata in vantaggio al 10’ con Martínez, raggiunta una prima volta al 19’ da Cardona, poi di nuovo avanti ancora con 29’ Martínez, e ri-raggiunta al 50’ da Gómez. Al 101’ sarà tale Mauricio Rodríguez a siglare la rete della definitiva vittoria salvadoregna ai supplementari. Un botta e risposta quasi violento nella sua bellezza, mentre prima durante e dopo, fuori e dentro lo stadio, volavano "botte da orbi" fra le due tifoserie. Al fischio finale, mega rissa in campo che l’esercito non poté fermare, mentre le strade intorno all’Azteca diventarono un ring. Subito (e definitivamente) si sciolsero le relazioni diplomatiche tra i due stati...

L’escalation e la guerra: 19 luglio 1969 - Ormai era partita la "spirale" che avrebbe portato alla guerra vera. Quella che avrebbe fatto morti e feriti fra due piccoli stati confinanti. Il 14 luglio si sarebbe mosso l’esercito salvadoregno con 12mila uomini di fanteria, si sarebbe difeso quello Honduregno con 20mila effettivi complessivamente. Bombardamenti e piogge di napalm da una parte e dall’altra, con limitate conquiste territoriali salvadoregne e una controffensiva finale honduregna. I mezzi a disposizione ? Vecchi e ormai superati (come i carri Sherman e i caccia Mustang della Seconda Guerra Mondiale) che non impediranno un’ecatombe. Alla fine saranno circa 6mila complessivamente le vittime e oltre 45mila gli sfollati. I combattimenti, brevi ma tremendamente feroci, dureranno fino al 19 luglio. Il giorno dopo un "cessate il fuoco" ottenuto grazie all’intervento dell’Osa (Organizzazione Stati Americani) che lo imporrà soprattutto a un governo salvadoregno che, fino alla mattina di quel 19 luglio, avrebbe ancora sperato di poter ottenere una vittoria militare sul campo.

Conseguenze politiche - Il 5 agosto le truppe salvadoregne si ritirarono nei propri confini, rinunciando ad occupare il territorio conquistato. Tra i loro soldati erano rimasti uccisi un centinaio di uomini e circa 2mila honduregni; mentre tra i civili avevano perso la vita almeno 3mila honduregni e 600 salvadoregni. Con gli accordi di pace sarebbe stato poi riaffermato il diritto dei contadini salvadoregni di andare in Honduras per lavoro, anche se da allora in avanti ben pochi di loro avrebbero approfittato di questa opportunità. La pace fu sancita con un trattato solo nell’ottobre del 1980.

Conseguenze sportive - El Salvador, vincitore del sanguinoso spareggio dell’Azteca nel 1970 avrebbe poi partecipato ai Mondiali del Messico, rimediando però tre "scoppole" (0-3 dal Belgio, 0-4 dal Messico; 0-2 dall’Urss). Entrambe le nazionali si sarebbero quindi qualificate per il Mundial di Spagna ‘82, dove a sfiorare la qualificazione ai quarti sarebbe stato il grande Honduras del portiere Arzu (1-1 con la Spagna; 1-1 con l’Irlanda del Nord e 0-1 nei minuti finali con la Jugoslavia). Malissimo invece El Salvador, capace di beccarne "10" (a 1) da una pur deludente Ungheria.

19 luglio 2017

Fonte: Corriere.it 
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