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ERIKA PIOLETTI
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Torino 3.06.2017 Tragedia Piazza S.Carlo Erika Pioletti
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IL DONO e IL DESTINO - Erika Pioletti è originaria di Beura Cardezza, un piccolo paese di circa 1400 abitanti nel Verbano a pochi chilometri da Domodossola e dal confine con la Svizzera, da dove inizia il parco nazionale della val Grande e dove abita la sua famiglia. Lei, invece, vive e lavora a Domodossola, impiegata in uno studio di commercialisti ("Canuto & Associati") in via Caduti di Nassiriya. Da 5 anni si è trasferita in un palazzo del quartiere della Cappuccina a convivere con il suo amato compagno, Fabio Martinoli e approfitta del fine settimana per ritornare a trovare i genitori in paese. Non è mai stata appassionata di calcio, a differenza del suo fidanzato, tifoso della Juventus che le ha chiesto di accompagnarlo a Torino per assistere alla finale di Champion’s League contro il Real, proiettata sul maxischermo allestito in Piazza San Carlo il 3 giugno 2017. È il giorno del compleanno di Fabio: il dono di una giovane innamorata accontentarlo e seguirlo lì assieme a un gruppo di amici. È sabato e molti altri tifosi di Verbano e Ossola hanno raggiunto il capoluogo piemontese per questa partita mescolandosi tra la folla giunta da ogni parte d’Italia. Si calcolano non meno di 30.000 persone. Dopo le 22.20, quando esplode la follia di massa, anche lei incomincia a correre atterrita insieme agli altri, ma un violento trauma le causa lo schiacciamento della cassa toracica e un infarto. La soccorre primo fra tutti un vigile del fuoco, Antonio Mazzitelli, poi coadiuvato da un poliziotto e altri volontari. Per una mezz’ora buona si tenta, sotto i portici, di rianimarla con il massaggio cardiaco. Arriva anche un defibrillatore da un privato. Erika, riprende il battito, ma le condizioni appaiono davvero molto critiche già prima della corsa in ambulanza all’ospedale San Giovanni Bosco. La giovane ossolana sembra aver subito un danno neurologico gravissimo e viene intubata nel reparto di terapia intensiva, in rianimazione, attaccata alle macchine in sedazione profonda e una leggera ipotermia, sottoposta a vari trattamenti di protezione cerebrale e di supporto cardiocircolatorio. Le condizioni sono disperate. Una prima diagnosi riscontra un gravissimo trauma toracico. Questo il testo del referto pubblicato dai medici: "arresto cardiaco da compressione della cassa toracica". Nelle ore a seguire si procederà ad un risveglio graduale per testarne le funzionalità respiratorie. Il rischio di danni encefalici irreversibili appare molto alto.

LA SPERANZA SENZA RABBIA - Intanto, al suo capezzale, si alternano il compagno, la mamma Anna e una zia. La Sindaca ogni mattina si reca in ospedale a sincerarsi delle sue condizioni e salutare i familiari che l’aggiornano ogni tanto sulle condizioni della ragazza. "Purtroppo non abbiamo buone notizie" in un filo di voce alla stampa, prima di un nuovo trincerato silenzio nell’altalena delle speranze. La preghiera non cede mai alla disperazione, se pur incombente. I giorni passano mentre ci si arrovella alla ricerca di una risposta alla domanda che di più li martella: "Perché ?". Un incidente assurdo, una dinamica ancora più folle. Gli effetti analoghi di un attentato ma senza i terroristi ! Fra 1500 feriti proprio lei… La maggior parte se l’è cavata, con piccole fratture, tagli ed escoriazioni, lo choc per lo spavento. Lei no… Perché ? … La calca l’ha travolta, pigiandole lo sterno come fossero alla vendemmia. Però, in quella sala d'attesa della rianimazione non si respira l’odio: "Colpa di qualcuno ? Non sappiamo niente, non sappiamo cosa dire. Forse era semplicemente destino" - dice Giulio, il padre. Al telefono con i parenti sua madre che non si è rassegnata risponde: "Certo possiamo ancora sperare…". "Purtroppo non sappiamo nemmeno bene quello che è successo lì. Noi non c'eravamo" - dicono quasi in coro, entrambi con le lacrime agli occhi. "Erika era in piazza San Carlo per accontentare il suo compagno, non era nemmeno tifosa della Juventus. I medici ci hanno detto di aspettare un’altra decina di giorni, solo allora sapremo le sue reali condizioni. Era andata soltanto per trascorrere una serata diversa col suo compagno. Anche lui è stato travolto, ma non ha riportato ferite gravi" - chiarisce, casomai ce ne fosse altro bisogno, uno zio. C’è un intero paese ammutolito che attende il risveglio della sua Erika: "Una ragazza d’oro. Buona come il pane". La solidarietà del ministro dell'Interno Marco Minniti non si è fatta attendere. Sale in reparto, al 3° piano dove incontra la famiglia in un colloquio strettamente riservato. Da qualche ora i medici moltiplicano gli esami per valutare il quadro neurologico. Il sospetto di danni subiti durante l’arresto cardiaco era fondato dall’assenza di funzioni vitali, non respirava autonomamente. Provano a ridurre i sedativi ma l’organismo della donna manifesta segni di sofferenza e la inducono nuovamente in coma farmacologico. Poi è la volta di un elettroencefalogramma che non risulta attendibile ed una risonanza magnetica. Alle incalzanti domande dei giornalisti, sospirando, Giulio Pioletti risponde: "Non sappiamo ancora niente di preciso. Possiamo solo aspettare e sperare" … "Erika è viva. Lo ripeto fino allo sfinimento, è viva" - ripete sua sorella maggiore Cristina ai giornalisti.

LA RESA - Alla metà del mese di giugno, la situazione clinica precipita. Alle ore 12 del 15 giugno 2017 i medici sentenziano in una drammatica nota ufficiale che "gli esami effettuati hanno accertato un gravissimo danno cerebrale e prognosi pessima. Purtroppo ci si aspetta il decesso della paziente in un brevissimo periodo temporale". Azzerate le residue speranze di salvarla, la famiglia chiede loro di evitarle qualsivoglia accanimento terapeutico. Sergio Livigni, il direttore della terapia intensiva dell’ospedale Giovanni Bosco, parlando di "desistenza terapeutica", chiarisce: "Ricorriamo ad interventi di carattere prevalentemente palliativo, il problema respiratorio e cardiocircolatorio non viene più inseguito". Questione di ore, "morte cerebrale", l’ultimo abbraccio dei cari nella stanzetta della Rianimazione, poi la resa. Alle 21.56, staccate le macchine che la mantengono artificialmente in vita, è annunciata la morte della giovane donna della Val d’Ossola. I suoi genitori, rispettandone le volontà, autorizzano l’espianto degli organi che non sarà possibile dato il probabile mandato della magistratura per l’esame autoptico. Infatti, il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, scrive in una nota che "in data odierna sarà conferito incarico di consulenza tecnica per accertare le cause della morte della signora Pioletti". La morte di Erika aggiunge la parola "omicidio" nel quadro accusatorio della Procura di Torino in piena fase delle indagini giudiziarie. Procede a tappeto su due fronti per la ricerca di eventuali responsabilità: la piazza e i palazzi delle istituzioni cittadine. "Lesioni plurime gravi e gravissime e omicidio colposo" l'ipotesi di reato del fascicolo al momento a carico di ignoti.

LA POLITICA - Puntualmente compaiono in rete i comunicati e i messaggi di cordoglio autorevoli. Chiara Appendino, la prima cittadina di Torino, subito scrive: "In un momento di così profondo dolore, ogni parola sarebbe superflua. Posso solo esprimere le più sincere condoglianze mie e di tutta la Città a famigliari e amici di Erika. Per il giorno dei funerali sarà proclamato il lutto cittadino". Il Presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino: "Quanto successo pesa sul nostro cuore. Confidiamo che le indagini facciano al più presto chiarezza". A parte le dovute frasi di condoglianze, la politica non manca cinicamente di speculare rimestando nella tragedia per screditare l’amministrazione comunale dei 5 stelle.

LA JUVENTUS - La società bianconera pubblica: "Juventus Football Club esprime il proprio cordoglio per la scomparsa di Erika dopo una lunga sofferenza. I fatti della sera del 3 giugno sono nel cuore di tutti i dirigenti, i tesserati, i dipendenti della Società che si uniscono al dolore della Città". Le fanno eco anche le parole dei suoi campioni più amati e dell’allenatore del club: "Rabbia. Dolore. Sconcerto. Sono vicino a tutti i familiari, parenti e amici di Erika. La mia preghiera e il mio pensiero" (Gianluigi Buffon) … "Una tragedia atroce e assurda. Non ci sono parole per quanto successo ad Erika. Solo silenzio e rispetto di fronte a una morte inaccettabile" (Leonardo Bonucci) … "Purtroppo Erika non ce l’ha fatta. Non ci sono parole per esprimere il dolore. Solo silenzio, vicinanza alla famiglia e rispetto" (Claudio Marchisio) … "Sono vicino ai familiari e agli amici di Erika: morire così, a nemmeno 40 anni, è davvero assurdo, e non ci sono parole" (Massimiliano Allegri).

IL VESCOVO - Nei giorni precedenti sui social tante persone comuni le dedicavano un pensiero, auguri e preghiere: "Forza Erika non si molla... Fino alla fine…" fra i più condivisi. Ora, invece, proliferano tanti post con la richiesta di annullare i prossimi festeggiamenti del Patrono (San Giovanni). Non tarda la nota di cordoglio dell’Arcivescovo di Torino, Mons. Cesare Nosiglia: "È con grande dolore che ho appreso la morte di Erika dopo lunghi giorni di agonia in seguito alle conseguenze tragiche della sera di sabato 3 giugno. Prego perché il Signore l’accolga nel suo regno di pace e di amore e prego per i suoi cari affinché siano sostenuti dalla materna tenerezza della Madonna Consolata di cui stiamo celebrando la Novena. La morte di Erika aggrava ancora più profondamente lo scoramento del nostro animo, ma anche il giudizio già severo formulato dopo quanto è accaduto in piazza San Carlo. La ferita al cuore stesso della città resterà come un marchio che pesa sulla nostra coscienza di cittadini e su quanti sono stati la causa diretta o indiretta degli assurdi incidenti capitati in quello che doveva essere un sereno e gioioso incontro di tifosi e ha avuto invece delle conseguenze di grave sofferenza per centinaia di feriti e ora anche della morte di Erika. Oggi comunque non è tempo di sterili polemiche o accuse o promesse che la cosa non accadrà più. L’inchiesta avviata farà il suo corso e trarrà le conseguenze in ordine alle gravi responsabilità di ciascuno; ora è il momento della solidarietà di tutta la città che è chiamata a stringersi attorno alla famiglia di Erika per un abbraccio fraterno a Lei e ai suoi cari, insieme alla preghiera e al ricordo incancellabile che porteremo nel nostro cuore per sempre".

LA FAMIGLIA - Intanto in Ospedale stanno accorrendo i parenti stretti e gli amici più cari, quelli d’infanzia. Prevale in tutti la compostezza, nonostante il dolore e l’angoscia che pervade gli animi. Ora che dopo questi 12 lunghi giorni il tempo straziante dell’attesa è compiuto, le preghiere non esaudite lasciano il campo allo stordimento e al pianto. La mamma di Erika non si è mai mossa da lì… Le notti passate sulla poltrona-letto del reparto di Terapia intensiva del Giovanni Bosco. Per tutti l’Amministrazione comunale ha messo a disposizione 2 camere al Miramonti (un hotel 5 minuti a piedi dall’ospedale) e le auto di rappresentanza. Sussurra in un filo di voce la sua verità, come un mantra: "Non so cosa è successo in quella piazza e forse non mi interessa saperlo. So soltanto che non avrò più mia figlia"… "E tutto questo solo per una partita di pallone" - aggiunge lo zio. Il papà, guarda fisso un punto nel vuoto, smarrito, affermando alla stampa: "Sono un uomo distrutto. Non ha più senso nulla: io guardo attorno a me e vedo tanta gente che si agita che dice che fa e che farà. E non capisco più nulla… Sa, una cosa così, in una notte di festa, non te la aspetti. Pensi che tua figlia stia bene, che sia felice poi ti chiamano e ti dicono che è in ospedale e... A chi sta facendo le indagini ho chiesto giustizia, ma in Italia si sa come vanno a finire le cose"… Non molte altre parole da loro, sceglieranno il silenzio da questo momento in poi e un profilo molto basso rispetto ai fatti di cronaca e giudiziari.

I SINDACI - Descrive bene questa famiglia il sindaco di Beura, Davide Carigi: "Sono persone riservatissime e in questo momento la sofferenza li porta a scegliere il silenzio. Ho chiamato il papà stamane, era conosciuto in paese perché faceva il barbiere. Gli ho fatto le condoglianze, era veramente provato. Nonostante il dolore, ad entrambi aveva fatto molto piacere sentire la vicinanza della sindaca di Torino e del prefetto. Erika era una ragazza in gamba. Noi il lutto cittadino non lo faremo, credo che i familiari non vedano l’ora di essere lasciati tranquilli. Questa sera ci sarà il primo Consiglio comunale e faremo un minuto di silenzio in suo ricordo. La famiglia vuole non vuole clamore attorno a questa vicenda e vogliamo seguire la sua volontà, per questo non sono previsti per il momento altre iniziative. È una tragedia assurda, di fronte alla quale non resta che unirsi al dolore di chi sta soffrendo". Anche il sindaco di Domodossola, Lucio Pizzi, si è fatto partecipe del dolore della sua comunità, inviando loro un telegramma: "Certo di interpretare i sentimenti dell’intera cittadinanza, a nome dell’amministrazione comunale e mio personale esprimo profondo cordoglio e solidale vicinanza in questo triste momento. Di fronte a una tale tragedia, a un destino così crudele, non ci sono altre parole ma solo un rispettoso silenzio. Non dichiariamo lutto cittadino per mantenere un profilo basso come vuole la famiglia". Anche in questo caso previsto un minuto di silenzio in Comune al primo consiglio insediato.

IL COMPAGNO - Fabio Martinoli, il suo compagno, è inconsolabile: "Era il giorno del mio compleanno, Erika mi aveva fatto un regalo accompagnandomi a vedere la finale in piazza San Carlo. Ho compiuto 38 anni quella sera, potete immaginare i miei pensieri d'ora in poi quando mi faranno gli auguri... Erika lo aveva fatto per me: io non sono un tifoso sfegatato, sono juventino perché lo era mio nonno ma sarò andato due o tre volte in vita mia allo stadio. Quando la Juve vince sono contento, avevo anche un braccialetto bianconero, che adesso ho tolto. Per tutto l'anno avevamo seguito la coppa con alcuni amici, si rideva, ci si prendeva in giro. Quella per la finale doveva essere una festa, non immaginavamo di trovarci in mezzo alla bolgia. Io non avevo un'idea precisa di cosa avrei trovato in piazza ma non era quello che mi ero immaginato: era tutto disorganizzato, c'erano venditori abusivi, entrava chiunque senza controllo, c'erano bottiglie dappertutto... Siamo un Paese così, non abbiamo imparato nulla, bastava copiare quello che avevano fatto gli spagnoli con la proiezione dentro lo stadio. Invece qui è come se la sindaca avesse lasciato aperta la porta di casa sua senza rendersi conto che entravano trentamila persone. E quando il fattaccio ormai è accaduto dice "scusate, mi spiace, pensavo sarebbero venute solo due persone per un caffè". Ecco, "mi spiace" sono parole che non riusciamo a sentire… Aveva voglia di vivere... Ho finito le lacrime non so cosa pensare: su trentamila persone perché proprio lei ? Non so se sia stato il destino, non so se arrabbiarmi... Ma a cosa serve la rabbia ? Questo è un Paese in cui le cose devono succedere prima che qualcuno pensi a come prevenirle: ma non si poteva immaginare tutto questo ? Potete scrivere che ci dovevano pensare prima ?". E non mancano gli sciacalli nei momenti come questi. In reparto, durante le tante veglie al capezzale della sua amata gli hanno rubato il telefonino…

AMICI e CONOSCENTI - La ricorda, così, Tony Delfino, un amico della coppia: "Ero collega di Fabio, siamo andati a volte a cena insieme. Erika era una ragazza semplice, molto simpatica, amava stare in compagnia. Era davvero una brava persona. Quella sera era andata a Torino più che altro per stare insieme a fidanzato ed amici, non era una fanatica della Juve. Non li vedevo entrambi da un po’, ieri sera ho saputo la tragica notizia. E così stamattina ho chiamato Fabio, gli ho detto, ma è vero quel che dicono al tg. Mi ha detto sì. Io mi chiedo come sia possibile, per una partita, tenere una piazza senza vie di uscita. Ci sarà stato qualche pirla coi petardi e sarà successo il finimondo. L’unica poverina che ci ha rimesso è stata la Erika, che non c’entrava proprio nulla". Il vicino di casa, la ricorda così: "Viveva qui da anni, prima da sola poi con questo compagno. Una ragazza a modo, davvero. E non è soltanto per dire. Era fatta così, un po’ schiva, ma gentile". Rivela un triste particolare Domenica Romeno, una sua amica: "Ci eravamo viste al mercato mi aveva detto che con tutto quello che si sente in giro, degli attentati e via discorrendo, un po’ le faceva impressione l’idea di stare in mezzo a tutta quella gente".

L’ULTIMO SALUTO - Due giorni dopo il decesso, eseguita nelle prime ore del mattino dal medico legale Roberto Testi, l’autopsia conferma quanto riscontrato dall’equipe nei giorni precedenti: "asfissia meccanica per compressione del torace con successivo arresto cardiaco". Da questo il "gravissimo danno cerebrale". Poi viene rilasciata l’autorizzazione per i funerali, ma non per l’espianto degli organi, compromesso dopo la perizia autoptica. I suoi familiari comunicano che la salma sarà cremata già nel primo pomeriggio al Tempio crematorio del Cimitero Monumentale. Il Comune ha preso in carico tutte le procedure burocratiche per accelerare i tempi. Le esequie si terranno in forma privata e lontano dalle telecamere nel paese della famiglia. Non sono previste altrove cerimonie. Lunedì 19 a Torino ci sarà la giornata ufficiale di lutto cittadino. La foto di papà Giulio accanto all’Appendino in lacrime, all’uscita dal Cimitero con in mano l’urna cineraria della povera Erika è l’immagine più straziante di questa vicenda assurda e soprattutto evitabile. Tenera e terribile, allo stesso tempo, quanto la dignità in quello sguardo paterno.  Una lezione di rara e dolce umanità, come quel contegno mantenuto insieme a tutta la famiglia prima e dopo la morte di sua figlia. Un’auto di rappresentanza del Comune la riporterà a casa, a duecento chilometri da dove è morta, nel paese dove è nata e cresciuta. A Domodossola non c’è molta voglia di parlare con i giornalisti. Il custode del cimitero dice qualcosa: "Io la Erika non la conoscevo bene, ma sapevamo che parecchi erano partiti da qui per andare a vedere la finale a Torino… Ma quattrocento persone c'erano di sicuro. Quando abbiamo saputo del disastro è come se il mondo si fosse fermato". A Beura, il suo piccolo paese, tutti ovviamente la conoscevano, ma per pudore e riservatezza della gente del posto, discreta come il silenzio di queste montagne, si fatica davvero a raccogliere nero sul bianco dei taccuini. Aveva già avvisato, Fabio, il suo compagno, qualche ora prima: "Ora lasciateci soffrire da soli. Il dolore è nostro e non lo possiamo e non lo vogliamo divedere con nessuno. Erika non c’è più, e questa è la sola cosa che conta". Angelo Rossi, consigliere comunale e parente dei Pioletti, chiarisce, casomai ce ne fosse bisogno: "Adesso decideranno suo padre e sua madre che cosa fare. Io non sapevo neanche ci fosse già stata la cerimonia della cremazione".

LE TESTIMONIANZE - La Polizia Scientifica effettua rilevamenti sul portone al fianco dello storico ex negozio di Paissa dove presumibilmente sarebbe rimasta schiacciata la giovane travolta dalla seconda ondata di panico dopo il crollo della ringhiera del parcheggio. Il compagno sarà ascoltato in qualità di testimone dalla procura per cercare una seria ricostruzione dei fatti. L’ha persa di vista, travolto dalla calca mentre la gente premeva contro il portone di legno massello. Un’anta si è aperta, sull’altra rimasta bloccata probabilmente Erika fu schiacciata dalla spinta della folla. Un 47enne testimone, Alessandro Bovero, racconta agli inquirenti e alla stampa di aver incrociato per qualche momento la donna: "Ci siamo ritrovati a terra, schiacciati. Ci siamo guardati, ma non ci siamo visti tanta era la paura in quel momento. Mi sono rialzato e sono corso via, in cerca di riparo, in cerca di aiuto. Solo molti giorni dopo ho capito che quella donna stesa accanto a me era Erika e che lei non era riuscita a rialzarsi e scappare. Saranno state le 22 e 15. Io ero sul lato sinistro della piazza. Ad un tratto ho sentito un rumore fortissimo, era il calpestio della gente che fuggiva. Mi sono visto arrivare addosso un esercito di persone. Sono caduto e mi sono rialzato. Pochi metri dopo ero sotto i portici e sono di nuovo caduto, le persone mi camminavano addosso. Erika è stata sbalzata contro il portone. Un colpo fortissimo, poi è caduta a terra battendo la faccia. Io sono caduto di nuovo, quando ho visto la seconda ondata di gente sono fuggito. Credo che Erika sia rimasta a terra e sia stata calpestata. Non lo so. Ero terrorizzato. Se mi fossi rialzato pochi secondi dopo, molto probabilmente sarei rimasto schiacciato come lei. Ho avuto paura di morire. Ho una frattura al braccio e dolori persistenti, ma soprattutto ho continui incubi notturni. La notte mi sveglio urlando, altre volte è il mio compagno a svegliarmi perché mi lamento e grido nel sonno. Rivivo quei momenti e mi assale il panico. A volte sogno il volto di Erika, rivedo i suoi occhi e la sua paura. Qualche giorno dopo hanno fatto vedere la sua foto al telegiornale e l’ho riconosciuta. Mi spiace molto e mi sento molto vicino alla sua famiglia. Non oso immaginare il loro dolore". Cinquanta giorni dopo la morte della ragazza si presume un più atroce particolare: "La ferita al collo è compatibile con l'ipotesi che lo schiacciamento sia stato provocato da una transenna" - conferma Testi, il medico legale dell’autopsia. In fase d’indagine il tenente dei carabinieri (in pensione) Maurizio Rafaiani aveva testimoniato: "L'ondata si è portata via tutto. Quando tutto è finito abbiamo dovuto soccorrere molte persone rimaste incastrate in mezzo alle transenne. Qualcuno sicuramente con gli arti fratturati".

IL SILENZIO - Le indagini dei mesi e anni successivi non smuoveranno l’atteggiamento della famiglia che ha preso le distanze da ogni forma di rabbiosa rivendicazione. I genitori non esigono un risarcimento per la vita spezzata incredibilmente alla figlia. Opposta la scelta di Fabio Martinoli, il suo compagno che si è costituito parte civile al processo. Il padre Giulio si è chiuso nel mutismo. È lo zio, Angelo Rossi, a commentare l’arresto dei giovani rapinatori della banda dello spray al peperoncino: "Sapevamo che le indagini stavano continuando a ritmo serrato, avevamo capito negli ultimi mesi che forse si stava chiudendo il cerchio, ma di certo una notizia così forte è stata una sorpresa". Poi riferendosi ai Pioletti: "Hanno sempre chiesto molta discrezione e anche noi familiari ci sentiamo di rispettare il loro dolore. Ci auguriamo che questa sia la verità e che la giustizia possa fare il suo corso, ma di una cosa siamo sicuri: Erika, purtroppo, non ce la restituisce nessuno". Poi, a proposito della targa richiesta dalla tifoseria in piazza, conclude: "Ci è stato detto che vogliono posare una targa per Erika, lì in piazza San Carlo dove è successa la disgrazia. È un gesto che fa piacere".

3 giugno 2017

Fonti: Ansa.it - Lastampa.it - La Repubblica - Ilfattoquotidiano.it - Corriere.it - Torino.repubblica.it  - Nextquotidiano.it

© Fotografie: Corriere.it - Twitter - Ossola24.it - Lastampa.it

Si chiama Erika, non Heysel

di Domenico Laudadio

Al contrario di quanto scritto un po’ ovunque e degli spettri evocati da più parti questa tragedia, secondo me, non va assolutamente confusa con quella di Bruxelles del 29 maggio 1985.

Abbiamo sperato, pregato e imprecato fino all’ultimo, poi la sentenza della nera signora: Erika è salpata per le stelle, lasciandoci un insegnamento che vanifica ogni retorica di parole vuote nei dintorni della sua morte, una lezione autentica di amore. Era il giorno del compleanno del suo Fabio, non tanto quello della finale di Champions League per la Juventus, perché lei non era neanche una tifosa, ma il suo cuore batteva soltanto per il suo uomo, non per un pallone. Ciò nonostante, raffreddando il presentimento di un attentato, ha voluto donargli la sua presenza accanto, in quella bagnarola di folla d’anime infocate bianca e nera. I suoi sorrisi incoraggianti al compagno nonostante l’atmosfera di tensione in quella ressa emotivamente sudaticcia, il caldo e l’alcool, poi è calato un sipario dall’inferno, il cuore ha ceduto al terrore d’acchito e il ritmo della vita è scaduto al battito di tamburo lento della sua condanna in una lunga agonia. Mi fermo qui… Di lei ci rimarrà una splendida fotografia che vale più di un testamento etico d’autore. Ci ha insegnato come si può amare. Semplicemente. È tutto. I media e i tifosi hanno accostato l’Heysel all’incidente del 3 giugno in Piazza San Carlo a Torino, una fuga come l’altra. Il sangue su stendardi e persone ne è tragica replica certamente, ma bisogna distinguere con lucida analisi fra l’una e l’altra mattanza. Il panico serpeggiato è un effetto in comune da non confondere con la causa. L’orda barbarica e sanguinaria dei tifosi inferociti del Liverpool avrebbe potuto fermarsi invece di riprendere a più riprese con tecniche militari e scagliarsi sugli innocenti spremendoli vigliaccamente contro il muretto del Settore Z. Il terrore esploso all’improvviso per un presunto attentato invece non poté fermarsi da solo prima che la razionalità vagasse un tempo variabile nell’allucinazione. Lo alimenta l’immaginazione. Forse la vittoria dell’infame Isis è questa: quando noi stessi diveniamo il primo terrorista a sconquassarci dentro, a violentare il nostro evo, la nostra cultura profonda che si nutre di conoscenza, comunione di incontri e di svago. E per lui è inutile farci giustizia sommaria, invocare una esecuzione capitale o ordire un processo esemplare: ci abita e ci mal governa subdolamente, si prende i sogni ipotecandoci il futuro nero dei nostri figli.

È vero: le massime autorità comunali di Torino dovevano fare di meglio per prevenire l’imponderabile accadimento dietro l’angolo di una latente psicosi collettiva, organizzando una più oculata e scrupolosa gestione degli spazi e dei soggetti presenti in piazza. È giusto: ne rispondano nelle sedi istituzionali e giuridiche ai suoi cari. Oggi la rabbia è ancora tanta ma prima o poi dovrà fare i conti con la maga dell’oblio che ammalia tutto e tutti nel nostro paese sin dalla prima Repubblica. E insieme ai cocci insanguinati delle bottiglie di birra che crocifissero bambini, donne e uomini nella piazza torinese verrà spazzata anche questa storia e insieme la ragione. Ma l’Heysel fu altra cosa. La paura quando rompe gli argini dell’autocontrollo non si argina, ma una tifoseria brutale, con uomini e mezzi idonei, sì. Bastava il getto degli idranti… Paradossalmente quella tragedia si poteva evitare molto più di questa… Come esorcizzare, dunque, questo demone che ci sconvolge la mente ? C’è un solo modo. Godersi gli istanti brevi o lunghi della nostra passeggiata terrestre. Tanto il futuro resta un’ipotesi a prescindere. "Succhiare il midollo della vita", direbbe Henry David Thoreau, perché solo la poesia può salvare la grande bellezza che ci circonda. Il sorriso di Erika è la risposta ad un mondo che è ferito ed in pericolo, ma che non è ancora caduto, non è vinto. Allora arruoliamoci nelle falangi dell’orgoglio al fianco di una civiltà che non opprime le donne, non sevizia spose bambine, non decapita statue millenarie. Difendiamola come fosse la nostra unica progenie e perché non ne potremo avere altre. Lo dobbiamo anche alla dolce Erika, prima vittima di un attentato ad opera della autosuggestione così come ai caduti del Bataclan e di Manchester, di Bruxelles, di Nizza, di Berlino, di Londra… Pertanto diamo all’Heysel quanto è dell’Heysel e ad Erika ciò che gli appartiene: memoria, onore e silenzio… Non manipoliamo la sacralità della sua vita tramontata in rincorse faticose alla demagogia e alle avversioni politiche. Lei non lo merita. In punta di piedi, come una ballerina scalza, leggera è danzata via…

20 giugno 2017

Fonte: Giulemanidallajuve.com

© Fotografie: Quelli di... Via Filadelfia - Torino.repubblica.it

"Mia figlia Erika uccisa dalla psicosi dell’Isis"

di Federico Callegaro, Simona Lorenzetti, Niccolò Zancan

Parla il padre della ragazza schiacciata dalla calca di piazza San Carlo a Torino.

"Erika è una vittima dell’Isis. Credo di aver capito questo, alla fine. È vittima di una cosa terribile che ci sembrava lontanissima, invece era vicina. Io e mia moglie guardavamo gli attentati in televisione e, come tutti, provavamo paura. Ma commentavamo quasi con distacco. Ci sembrava impossibile che il terrore potesse colpire anche noi di questo paesino". Pomodori nell’orto davanti all’ingresso di una palazzina di due piani. La bandiera italiana e quella svizzera sventolano pigramente lungo la provinciale. Fra le montagne di un verde immacolato, sta passando un treno, ed è l’unico rumore nella valle. Per un attimo quasi copre la voce di Giulio Pioletti, 70 anni, parrucchiere in pensione. È il padre di Erika, la donna travolta nella ressa di piazza San Carlo a Torino, la notte della finale di Champions League fra Juventus e Real Madrid. La donna morta giovedì scorso, dopo dodici giorni di agonia.

Cosa vi hanno detto gli investigatori sulle ragioni che hanno scatenato il panico ?

"Ci hanno assicurato che faranno ogni cosa per arrivare alla verità".

Prova rabbia ?

"Al contrario, provo una profonda gratitudine. Vorrei ringraziare i medici straordinari del reparto di terapia intensiva del San Giovanni Bosco. Gli agenti della Digos, il capitano dei carabinieri Andrea Iannucci, la sindaca e il suo portavoce: tutti ci sono stati vicini e hanno promesso il massimo impegno nel cercare di capire cosa sia successo veramente quella notte. Voglio ringraziare anche le persone che hanno prestato i primi soccorsi a Erika in piazza, il 3 giugno".

Come fa a non essere arrabbiato ?

"Lo so, avrebbero potuto mettere il maxischermo allo stadio. E se Erika avesse chiesto il mio parere, le avrei detto di non andare in piazza San Carlo. Poteva guardare la partita a casa, come ho fatto io. Era più sicuro. Ma non credo che mi avrebbe dato retta. Aveva 38 anni, era il compleanno del suo fidanzato, voleva accompagnarlo, anche se aveva paura".

Paura di cosa ?

"Della folla, della calca. Della morte. Aveva come un presentimento. Era come se fosse chiamata a quell’appuntamento. Io non credo a questo genere di cose, ma lei sapeva che sarebbe successo: era molto preoccupata. L’aveva detto alla sua migliore amica, anche alla sorella. Frasi precise, a ripensarci adesso. Abbiamo trovato una lettera di qualche mese fa indirizzata a sua madre: "Se io muoio, voi tre state sempre vicini. Siete meravigliosi".

Quando l’avete sentita l’ultima volta ?

"Erika ha chiamato la mamma alle 5 di sabato pomeriggio per dire che era a Torino. Ci avvisava sempre quando era arrivata nei posti".

E poi ?

"Per voce del suo fidanzato, sappiamo che mancavano dieci minuti alla fine della partita e lei voleva andarsene. Ha chiesto di spostarsi dal centro della piazza verso il lato, perché sperava di essere più tranquilla, al sicuro. Ma proprio lì, all’improvviso, è arrivata l’ondata di panico che l’ha travolta. L’autopsia deve chiarire se l’infarto sia arrivato prima o dopo".

La sindaca Appendino cosa vi ha detto ?

"Quello che sappiamo è che il Comune ha concesso l’uso della piazza, ma sono stati altri ad organizzare la serata. Con la sindaca non abbiamo parlato di queste cose, la sua è stata una vicinanza molto concreta nei giorni dell’ospedale".

L’Isis, diceva. Il terrore che si propaga a distanza. Ne discutevate in famiglia ?

"Io sono sempre stato un padre molto apprensivo. Per la prima volta quest’anno Cristina, l’altra nostra figlia, che ha due bambini, ci aveva convinti ad andare qualche giorno in Sardegna con loro. E la prima cosa che ho chiesto è stata: ci sono le scialuppe di salvataggio ? Ho pensato che qualcuno, magari, avrebbe potuto mettere una bomba sul ferry-boat".

Come descriverebbe Erika ?

"Era una ragazza magrolina, ma voleva sempre sentire un abbraccio stretto. Forte, sincero. Era una ragazza indipendente e orgogliosa. Aveva voluto andare via di casa a 25 anni, e per noi era stata una mezza tragedia. Tanto che prima di andare su a Domodossola, a vedere il suo appartamento, ce ne ho messo di tempo. Erika lavorava come ragioniera da 13 anni, chiamata senza raccomandazioni, perché aveva voti belli ed era molto scrupolosa. Amava viaggiare. E più di tutto, voleva aiutare gli altri. Oggi sono dovuto andare a casa sua. Ho ritrovato tanti pezzi di vita. Foto di viaggi. L’Egitto. Lettere. I manuali per il pronto soccorso".

Perché ?

"Più di tutto avrebbe voluto fare del bene. Ha frequentato il corso da infermiera, ma si commuoveva facilmente e stava male se vedeva il sangue. Quando ha fatto la volontaria con la Croce Rossa, sull’autoambulanza, al primo intervento hanno dovuto soccorrere lei. Era molto emotiva come me".

Quando l’ha vista l’ultima volta ?

"Passavo in quel corridoio d’ospedale, vedevo i suoi capelli sul cuscino e non avevo la forza di avvicinarmi. Mia moglie è stata sempre lì dentro, dodici giorni e dodici notti, erano legatissime, e io continuavo ad andare avanti e indietro. Voglio ricordarla com’era quando veniva qui a pranzo. Ogni volta correvo sul balcone. E lei, prima di salire sulla sua Citroen, faceva ciao con la mano".

Qual era il sogno di Erika ?

"Non aveva figli. Voleva andare a trovare il bambino che aveva adottato a distanza. Io le dicevo: "Ma guarda che in Africa ti faranno vedere un altro bambino, uno a caso". E lei: "No, papà, guarda che lo riconosco, sono sicura, ha una piccola cicatrice sul viso. Andrò a vedere proprio il mio".

23 Giugno 2017

Fonte: Lastampa.it

© Fotografie: Ossola24.it - Torino.diariodelweb.it

Fabio Martinoli: "In quella calca ho perso

Erika ma dal Comune mai una telefonata"

di Jacopo Ricca

Parla il compagno della donna venuta a mancare dopo 12 giorni di agonia per essere stata schiacciata dalla folla di piazza San Carlo: "Ripensando dopo a quello che ho visto coi miei occhi quella notte ho capito che c'erano tantissime cose che non andavano".

TORINO - Sono passati cinque mesi dal compleanno più tragico di tutta la sua vita, "ma sembra ieri. Sono stati mesi tremendi. Non mi rendo conto ancora oggi che lei non c'è più. Sento che le indagini sono a una svolta, quello che chiedo è solo che sia fatta giustizia ". Per Fabio Martinoli, il compagno di Erika Pioletti, la donna di Domodossola morta dopo 12 giorni di agonia per essere stata schiacciata dalla calca di piazza San Carlo, quella del 3 giugno doveva essere una festa. Per il suo trentottesimo compleanno e perché da Domodossola era arrivato a Torino dove sperava di vedere la sua Juve trionfare in Champions League: "Ripensando dopo a quello che ho visto coi miei occhi quella notte, ho capito che c'erano tantissime cose che non andavano in piazza - racconta - Ma noi eravamo lì per altri motivi, doveva essere un momento di gioia".

Cosa ricorda di quella sera ?

"Quando è scoppiato il caos io ed Erika eravamo vicini, la gente ha iniziato a scappare e spingere. Avevo visto un portone aprirsi sotto i portici di piazza San Carlo e stavamo cercando raggiungerlo perché mi sembrava un posto sicuro, ma poi una seconda ondata ci ha travolti. Siamo stati divisi dalla calca che ci ha schiacciato. La vedevo a pochi metri da me, con le persone cadute sopra di lei che la schiacciavano, ma non potevo far nulla per aiutarla. Ho pensato di morire. Sono riuscito a tirarmi fuori, ma poi sono di nuovo caduto e per molti minuti mi sembrava di non riuscire a respirare. Lei l'hanno rianimata a lungo, ma non è bastato".

Cosa si aspetta da questa inchiesta ?

"Personalmente quello che mi aspetto è che qualcuno paghi per quello che è successo. Niente mi ridarà indietro Erika, ma non è possibile che ci vogliano tragedie come quella che ci ha colpito perché si faccia qualcosa. C'è troppo menefreghismo in Italia, pensare che quel giorno avevamo un esempio che ha funzionato da copiare, proprio in Spagna dove i tifosi del Real Madrid erano allo stadio Bernabeu a vedere la partita di Cardiff. Perché qui non è stato fatto lo stesso ?".

Pensa ci siano delle responsabilità nelle istituzioni ?

"Noi eravamo lì per divertirci, ma con il senno di poi credo di sì. Questa è la cosa che mi fa più rabbia che nessuno ci abbia pensato prima. Quel giorno c'era troppa gente in piazza. Troppa calca, ma nessuno ha fatto nulla. Era pieno di venditori abusivi e tutti quei vetri per terra e nessuno è intervenuto. Mi aspetto che sia fatta giustizia".

Ha più sentito la sindaca Appendino ?

"So che durante i giorni del ricovero di Erika all'ospedale Giovanni Bosco è stata vicino ai genitori della mia compagna, ma con me non si è mai fatta viva. Sinceramente neanche mi interessa. Non mi cambia nulla e non mi aspetto nulla né da lei, né dagli altri. Non voglio usare parole retoriche, ma per me Erika era una persona speciale, eravamo lì per divertirci e in un niente l'ho persa per sempre. Per me è stato un trauma enorme".

4 novembre 2017

Fonte: Torino.repubblica.it

© Fotografie: Notizie.tiscali.it - Lapresse.it

IL RACCONTO

Piazza San Carlo, la solitudine del fidanzato

di Erika: lo sguardo sul portone dove venne travolta

di Massimiliano Nerozzi

Nel giorno della cerimonia con le istituzioni cammina da solo, nessuno lo riconosce: depone un mazzo di rose nell’angolo dove la ragazza venne ferita a morte.

TORINO - Arriva con un mazzo di rose bianche, come il fiocco, e una rossa, e s’aggira vicino ai cordoni porpora della cerimonia, quasi fosse una persona qualsiasi: invece Fabio Martinoli, 39 anni ieri, perché nelle tragedie il destino sa essere beffardo e diabolico, qui ha perso la sua amatissima compagna, Erika Pioletti. Un anno fa erano venuti in piazza San Carlo per vedere la finale di Champions, anche se l’unico tifoso bianconero, sfegatato, era Fabio: Erika l’aveva accompagnato per amore, e per il regalo di compleanno. Adesso, quel che resta della sua fidanzata è dentro il suo cuore, e in quella corona di fiori gialli e blu della Città di Torino. Che sono così vicini eppure così lontani, perché al massimo ci andrà di fronte a cerimonia finita, per un paio di minuti. Così come sembrano distanti la famiglia di Erika e la sindaca, Chiara Appendino, che mai l’ha chiamato: che ci sarebbe stata la cerimonia di ricordo e, un giorno, una targa, l’ha saputo leggendo i giornali. Cammina da solo, con il conforto, discreto, della mamma, l’unica che l’ha accompagnato fin qui, in macchina. Se ne sta mischiato tra curiosi, tifosi, gente che passa per caso, anche durante il silenzio suonato dalla tromba, e la deposizione delle corone di fiori. In fondo, con il proprio dolore, bisogna imparare a fare i conti da soli, in silenzio: cercandolo, e non escludendolo. Quel che fa poi Fabio: "So bene dove mettere questi fiori". Da solo, che più non si può, si avvicina al portone di legno del civico 182, un paio di pilastri a sinistra di dove le istituzioni hanno lasciato le corone, si china e posa il mazzo di rose. Lì è dove tentarono di rianimare Erika, che la calca gli aveva strappato, e poi schiacciato, mentre lui, sommerso dai corpi, nulla poteva. Poco prima, aveva chiesto a un paio di vigili urbani se fosse possibile aprirlo, quel portone, perché dentro il cortile provarono a salvare il suo amore: niente, non si riesce, perché di domenica mattina è tutto chiuso. Pazienza, il cippo della memoria sarà in quell’angolo. Abbandonate le rose, Fabio si allontana un paio di passi, e se ne sta fermo, solissimo, a guardare e piangere, per diversi minuti. Neppure la mamma si avvicina. Lo faranno, poco più tardi, i microfoni delle televisioni: "Mi spiace, ma non ho nulla da dire". Insistere non serve: "Non vorrei che mie parole venissero travisate. Rispondo di non voler dare interviste, eppure c’è chi poi scrive lo stesso, quel che gli pare". Preferisce tenersi dentro il dolore, lontano dall’abbraccio delle istituzioni. Lui e la mamma sarebbero comunque tornati a Torino per l’anniversario, anche se non ci fosse stata questa cerimonia. Conta quello che provi. Erika, impiegata in uno studio di commercialisti, e Fabio, serramentista, si erano conosciuti, piaciuti subito e andati a convivere, da cinque anni. Quando poteva, quasi sempre nei fine settimana, la donna tornava a Beura, paese natale, per andare a trovare la mamma Anna, che qui non c’è, il papà Giulio, barbiere, e la sorella Cristina, ragioniera: che ora stanno là, a metri che sembrano chilometri. A sera, Fabio posterà sul web la foto di un braccialetto, di un cuore e l’emoticon di un angelo. L’unico commento, è il post di un’amica: "Lei è qui".

4 giugno 2018

Fonte: Torino.corriere.it

© Fotografie: Torino.repubblica.it - Corriere.it

DOPO DUE ANNI Vittoria per i familiari

Una targa per Erika Pioletti e Marisa Amato

Via libera alla targa per ricordare la tragedia di Piazza San Carlo e le sue due vittime innocenti.

Sono passati quasi due anni dal quel 3 giugno 2017 in piazza San Carlo. Torino ricorda ancora le urla, l'immensa folla che sbatte su sé stessa e la conta delle vittime di quella tragica notte, quando sul maxi schermo veniva proiettata la finale della Champions League tra Juve e Real. E affinché il monito di quei fatti rimanga indelebile nelle menti di chi passa di lì, ieri è stato ufficializzato il via libera per installare una targa commemorativa per Erika Pioletti e Marisa Amato, le due donne che persero la vita a causa dalla folla impazzita. Il consenso all'unanimità della Commissione toponomastica è arrivato dopo la richiesta dell'Associazione Quelli... di via Filadelfia. Erika Pioletti, 38 anni, era andata a vedere la partita assieme al fidanzato ed è morta una decina di giorni dopo a causa dello schiacciamento della cassa toracica. Stesso destino fatale, eppure con una storia diversa da raccontare, per Marisa Amato, 65 anni. Quella sera era in locale di una delle vie parallele a mangiare la farinata con il marito. È rimasta tetraplegica fino al 25 gennaio 2019, data della scomparsa. "Ovviamente siamo onorati di questo gesto simbolico della città. Il ringraziamento più grande va fatto però a Beppe Pranzo e alla sua associazione "Quelli... di Via Filadelfia" che per primi si sono mossi per l'apposizione della targa. E un gesto che non ci farà tornare indietro ma almeno ci assicura che mia mamma, Erika e tutti i feriti di quella notte non verranno dimenticati", spiega Danilo D’ingeo, uno dei figli di Marisa Amato. E prosegue: "Per quanto riguarda il punto di vista personale la targa manterrà vivo in noi famigliari il ricordo e il grande cuore che ha avuto in questi mesi di sofferenza mia mamma". Ma i famigliari della vittima non si sono fermati per via della tragedia che li ha colpiti. Infatti, "in questi mesi abbiamo anche dato vita ad una ONLUS, I sogni di nonna Marisa, cominciando ad impegnarci nel sociale per dare un aiuto concreto alle persone che ne hanno bisogno, anche se partendo dal piccolo. Abbiamo già portato a termine alcune raccolte fondi e recentemente abbiamo donato un apparecchio all'unità spinale del Cto. Lo stesso reparto dove era ricoverata mia mamma. Crediamo sia il modo migliore per onorare il suo ricordo e fare qualcosa per chi ha bisogno", conclude D'Ingeo. Presto la targa farà parte di quella grande memoria storica composta dai monumenti e dalle targhe affisse sui muri di Torino. Un primo passo, tra la certezza che a causare il panico fu la banda dello spray al peperoncino nell'intento razziare gli spettatori della partita. E le responsabilità dei funzionari pubblici su cui ancora molti si interrogano. Infatti, cosa è andato storto durante quella fatidica notte è ad oggi materia del processo in corso. (C. Nan - E. Cigolini)

15 maggio 2019

Fonte: Il Giornale del Piemonte e della Liguria

© Fotografia: Torino.repubblica.it

Il fidanzato di Erika Pioletti: "La condanna non cambia

nulla ma ognuno farà i conti con la propria coscienza"

di Federica Cravero

Fabio Martinoli era con la vittima in piazza San Carlo per festeggiare il compleanno: "Da allora la mia vita è una tortura".

"Aspettavo proprio di sapere come sarebbe andata. Un anno e mezzo: si bruciano la condizionale e per loro cosa cambia ? Non succede niente. Non so quanto abbiano capito davvero di quello che è accaduto: ognuno ha la sua coscienza e a quella deve rispondere. Se ce l’ha".

Fabio Martinoli, 41 anni, la sera del 3 giugno 2017 era in piazza San Carlo, a Torino, assieme alla fidanzata Erika Pioletti. La folla presa dal panico li travolse, Erika rimase schiacciata, il suo cuore si fermò per 40 minuti prima di tornare a battere, ma la giovane non si riprese mai e morì dopo 12 giorni di coma, a 38 anni. Quella lunga serie di immagini è impressa in modo indelebile nella mente di Martinoli, che ha ripercorso nei dettagli quando è stato chiamato a testimoniare nell’altro processo, che sta continuando per gli imputati che hanno scelto il dibattimento anziché il rito abbreviato. "Quel giorno era il mio compleanno - ricorda - A me non è mai interessato molto festeggiare i compleanni, ma si può immaginare come sia stato da quell’anno in poi… Quella data me la ricordo ora più di quanto non facessi prima".

A distanza di tre anni e mezzo, quali sono i suoi pensieri su quella serata ?

"Ogni tanto mi arrovello sui "se". Se non fossimo andati a vedere quella finale, se non ci fossimo spostati in quel punto della piazza, se non fossimo scappati da quella parte… Ma è una tortura devastante. Il calcio e la Juventus erano la mia passione e Erika mi assecondava, piaceva anche a lei venire andare assieme a vedere la partita. Dopo questo tempo ho provato a metabolizzare la sofferenza, ma ci penso spessissimo e sto male".

Lei fin dall’inizio aveva sollevato la disorganizzazione che regnava nella piazza. Questa sentenza restituisce giustizia per quello che è accaduto ?

"Non saprei, un anno e mezzo di pena per quello che è accaduto… Ci sono tante persone a giudizio in questa vicenda e la responsabilità è stata divisa tra tante persone. Ci sono stati i ragazzi dello spray, ci sono gli amministratori, gli organizzatori, i tecnici. Se ci fosse stato solo un colpevole sarebbe andata allo stesso modo ? Che sia emersa una colpa è già un risultato, anche se con una pena che non avrà conseguenze per loro".

È ancora andato in quella piazza dopo la tragedia ?

"Una volta soltanto, l’anno dopo, per la cerimonia di commemorazione. Poi mai più. Io adesso sono andato anche via da Domodossola, dove abitavo con Erika e sono tornato a Omegna. A Torino ci passo ogni tanto per lavoro, ma ci vado il meno possibile e sto lontano da quel posto. Già solo leggere il nome della città mi fa venire un brivido e mi fa stare male".

27 gennaio 2021

Fonte: Torino.repubblica.it

 
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