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ALBERTO GUARINI ♥
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 ITALIA   21-06-1964   Mesagne (BR)   Anni 20

Rabbia e dolore lunghi 25 anni

"Ma Alberto è sempre con me"

di Francesco G. Gioffredi

MESAGNE (29 maggio) - Forme morbide e cotone grezzo come un berretto da pescatore, appena consunto, aggredito ma non vinto dalla polvere. Il cappellino sta lì, uno straziante cimelio posato in cima a una libreria. Cristallizzato dal tempo. Magari nessuno, in 25 anni, l’ha nemmeno sfiorato. Fissato con gli occhi bagnati di lacrime, però sì. Un cappellino sacro, un monile di una famiglia sfregiata dalla follia. "Alberto quel giorno lo indossava", sillaba con un soffio il signor Bruno. Quel giorno a Bruxelles faceva tanto caldo, la canicola del 29 maggio tranciava il respiro. E il berretto da pescatore poteva chetare gli ultimi raggi, pensò Alberto mentre gli inglesi più in là ululavano a torso nudo. Millenovecentottantacinque, uno di quegli anni un po’ così. Di transizione, si dice. Maggio. Il 29 maggio 1985: la data della barbarie dell'Heysel, quando lo sport prese troppo sul serio la metafora bellica e sbiadì nella peggior guerriglia omicida. Fra le 39 vite soffocate dalla furia inglese o travolte dal muro di recinzione c'era anche Alberto Guarini, mesagnese. Aveva 21 anni e sulla testa quel cappellino. Che - sole o non sole - era il suo inseparabile mantra da tifoso: colori bianconeri, una zebra stilizzata, e quel nome batticuore, Juventus. Il signor Bruno ha occhi blu come il mare, due saette offuscate per sempre da un velo di dolore antico eppure così presente. Indica il cappellino, non lo tocca e non lo guarda perché nello studiolo di casa Guarini, convertito dal dramma in tabernacolo, aleggia uno stordente senso di sacro. Venticinque anni avranno pure prosciugato le lacrime, ma hanno coltivato con perversa pazienza un nodo in gola grande quanto un pugno. Bruno Guarini era all'Heysel col figlio. Impotente, l'ha visto inghiottito dalla marea umana livida di paura e rabbia. E il cappellino è l'unico pezzetto d'inferno che resta. "L'emozione rischia di soffocarmi, ma parlo sempre volentieri di Alberto. È come se lo avessi affianco ogni giorno, in casa si respira la sua presenza in tutte le stanze". Il signor Bruno ha 74 anni, garbo innato e rintraccia i fili dei ricordi come se il 29 maggio 1985 fosse ieri. La voce è un mantice, trema ed esita. Ma insiste, riannodando le trame di una vita radiosa: "Studiava Odontoiatria a Bari, era felice e carico d’entusiasmo. Alberto era uno sportivo nato, giocava a calcetto e a tennis, sport nel quale aveva vinto molti trofei, anche in doppio con la sorella. Pensi, adesso il campo centrale del Circolo di Mesagne ha il suo nome". Pausa, sospiro vigoroso: "E poi c’era quella passionaccia per la Juve. Probabilmente l’avrà presa da me, ma forse era qualcosa d’innato". Amore intimo e comune: "Già nel 1983 eravamo stati insieme ad Atene, per la finale di Coppa campioni fra Juventus e Amburgo (NdR: vinta dai tedeschi per 1-0). Organizzammo un volo charter, tutto andò liscio, senza il minimo problema d’ordine pubblico. E poi i greci erano neutrali: una faccia una razza si dice, no ?". Due anni dopo, la faccia degli inglesi sarebbe stata luciferina, quella dei belgi pallida e assente. "Nella primavera del 1985 Alberto aveva brillantemente superato un esame. Gli chiesi quale regalo volesse. E mi rispose: "Beh, lo sai". Ci demmo subito da fare, organizzando il volo charter con altri amici juventini". Il copione da sogno si sgualcì presto. Solo un po’, ma il cuore di padre percepì qualcosa. "Le cose andarono storte - scuote il capo Bruno - perché all’agenzia avevo chiesto dei posti di gradinata e invece ci procurarono due biglietti per il settore Z". Una lettera agghiacciante. Zeta. Capolinea dell'alfabeto, fine senza più un principio. Quello spicchio dello stadio il 29 maggio 1985 fu trappola diabolica. "Settore Z": Bruno lo ripete con gli occhi vitrei smarriti nel nulla e il capo che ciondola. "Il viaggio continuò a non andare bene. Anziché atterrare a Bruxelles ci deviarono a Bruges e da lì in pullman dovevamo raggiungere lo stadio. Ma tutto sembrava non quadrare. Ad esempio, ci fermammo a una stazione di servizio e molti tifosi juventini si rifornirono senza pagare. "Perché noi italiani facciamo queste cose ?", mi chiese turbato Alberto. Raggiungemmo lo stadio direttamente in pullman. Non c'era polizia a scortarci, in giro pochissimi agenti. E arrivati allo stadio circa due ore prima, c'erano già migliaia di tifosi inglesi. Tutti a torso nudo, stravaccati, ubriachi e con molte birre a disposizione". Deboli presidi delle forze di sicurezza e pascoli di teppisti gonfi d'odio e alcol: il trailer dell'orgia di morte è questo. Anche laddove dovrebbe essere solo vita, gioia, lealtà. Sport. "Noi eravamo lì, tranquilli. Tutte famiglie. Ma dall'altra parte c'erano tantissimi inglesi, divisi da noi solo da una rete di recinzione molto debole. Eppure sarebbe stato sufficiente frapporre un cordone di polizia fra i due settori, o tenere pronte giù a bordocampo delle autobotti che col loro getto avrebbero sedato gli animi. E invece niente". Già. All'improvviso, lo squarcio di follia: "Scoppiò il finimondo, senza che ci accorgessimo di nulla. E io e Alberto ci ritrovammo travolti dalla folla, letteralmente schiacciati. Tutto in pochi istanti: la massa che ondeggiava, gli inglesi che caricavano come bufali, noi che schiacciavamo gli altri. Non ho perso di vista Alberto nemmeno per un istante, è sempre stato vicino a me. Lui mi chiedeva "Papà, cosa devo fare ?", io gli dicevo di provare a difendersi e a resistere...".

La voce di Bruno s’increspa di sconforto e rabbia, rotta da un timido singhiozzo. Perdere un figlio è il peggior accidente della vita, vederlo macinato da un barbaro moto di aberrazione - e per giunta in uno stadio di calcio - è intollerabile. Ti scarnifica l’anima. Per sempre. Bruno non avrebbe più rivisto il bagliore degli occhi di Alberto: "Non ricordo più nulla, mi risvegliai a terra dolorante, pieno di contusioni e lividi. Del muro crollato nemmeno mi accorsi. Mi misi alla spasmodica ricerca di mio figlio e lo ritrovai a terra, privo di vita, un po’ più in là. Nella disperazione del momento presi la sua carta d’identità e la infilai nel suo taschino, per il riconoscimento. Io fui ricoverato in una clinica di Bruxelles, dove mi raggiunsero mio fratello e un caro amico. Furono loro a occuparsi di tutto e a comunicare ciò che era successo a mia moglie e a mia figlia. Ero distrutto". Tutt’intorno era un’apocalisse di calcinacci, lattine di birra, transenne divelte, urla, lamenti. Il signor Bruno s’alza di scatto e s’avvia verso lo studio, laddove tempo e dolore hanno allestito lo spazio della solennità: "Ogni giorno vengo qui e sto un po’ con Alberto", sussurra con imbarazzata naturalezza. C’è la teoria di trofei vinti a tennis, c’è il cappellino che occhieggia in cima, c’è la successione di foto di Alberto mentre sorride con quegli occhi blu scippati al papà. E c’è una gran quantità di faldoni, farciti di ritagli di giornale, lettere. Bruno li scava con rabbia meccanica. Poi, con una smorfia che aspira a essere un sorriso, afferra una cartellina gonfia: sono gli incartamenti della "Fondazione Alberto Guarini". "È nata poco dopo, con un fondo di dotazione costituito grazie al denaro avuto dai Governi e dall’Uefa, che nel corso degli anni ci ha permesso di dare borse di studio a laureati in Odontoiatria". Le altre 38 famiglie da 25 anni inseguono i fantasmi della giustizia, di un match che fu comunque giocato, e di una coppa insanguinata posata nella bacheca bianconera. Bruno Guarini da quegli spettri è lambito appena: "Qual è la verità ? Ogni discorso a posteriori vale poco. Le colpe sono state dell’Uefa, della polizia belga, delle due società per la scelta dello stadio e per il servizio di sicurezza. La partita fu giocata per ordine pubblico ? Lo capisco, ma forse non disputarla sarebbe stato meglio. Una faccenda che però non m’interessa. Se la Juve deve restituire la coppa ? No, quello che è successo non aveva niente a che fare col calcio. Fu una carneficina e basta. Ma nessuno in Italia sembra voglia davvero imparare la lezione". L’antidoto al patema che ti scava non è l’oblio, né il rigetto. Juve era, e Juve è: "Seguo ancora il calcio e vedo con piacere le partite della squadra. Dev’essere una questione subconscia, in quei momenti sono sempre con Alberto". E per 90 minuti la vita torna ancora un innocente impasto di sogni da cullare. Insieme, papà e figlio. Fonte: Quotidianodipuglia.it © 29 maggio 2010 Fotografie: Forzamesagne.com ©

Intervista di The Guardian al padre di Alberto Guarini vittima all'Heysel

L'orrore dell'Heysel impresso nella mente

di Ed Vulliamy

Corre l'anno 2005, e dopo ben 20 anni di distanza, le squadre del Liverpool e della Juventus si rincontrano dopo la strage dell'Heysel che portò via, tra le 39 vittime totali, anche il nostro concittadino Alberto Guarini. Proprio per tale occasione l'inviato Ed Vulliamy, giornalista del The Guardian (uno dei più importanti giornali inglesi e internazionali), giunge a Mesagne per stilare l'articolo intervistando il padre del giovane Alberto. Vi proponiamo l'articolo, quindi, non solo per il suo interesse, ma soprattutto per onorare la memoria, nel nostro piccolo, di uno sportivo mesagnese ingiustamente vittima di una tragedia senza precedenti nel mondo dello sport, sperando che si impari da quella serata da incubo. Proprio per questo speriamo anche che la nostra comunità, nel ricordare decentemente la memoria di questo ragazzo, dedichi il nuovo stadio in contrada Tagliata proprio a lui.

2/04/2005. La primavera del 1985 coincise anche con la stagione più bella della vita di Alberto Guarini. Il suo 21° compleanno era passato da una settimana, aveva da poco vinto un torneo locale di tennis doppio insieme a sua sorella Paola ed era molto innamorato di Stefania, la sua ragazza (iniziavano a pensare al matrimonio) che lo aveva anche seguito a Bari, all'università. Lui studia Odontoiatria e ha da poco superato i suoi esami. A coronare il tutto la sua squadra del cuore, la grande Juventus, che è arrivata in finale di Coppa dei Campioni dove sfiderà il forte Liverpool, squadra che Alberto rispetta e ammira. Suo padre Bruno ha promesso un regalo come ricompensa del superamento degli esami, qualsiasi regalo, e nei suoi pensieri Alberto non ha dubbi: padre e figlio in viaggio insieme, dalla piccola città di Mesagne, in Puglia, nel Sud Italia, alla volta di Bruxelles per vedere la partita. Il fatidico giorno sarebbe stato l'ultimo della vita di Alberto, e di altri 38 non molto diversi da lui, alcuni giovani, in gran parte adulti. La terza, letale carica delle bande di sostenitori ubriachi del Liverpool attraverso le gradinate dell'Heysel Stadium fino ai terrorizzati e fuggiaschi italiani, intrappola Alberto e suo padre contro le recinzioni e il muro ai limiti del loro settore. "Quando i tifosi inglesi si precipitarono verso di noi, Alberto rimase fermo" ricorda Bruno Guarini. "Lui gridò: "Non so se andare sopra o sotto". Io gli urlai di andare sotto. Le sue ultime parole furono: "Papà, mi stanno schiacciando !" Ricordo ancora tutto, proprio come un film che arriva alle scene finali, quando la pellicola finisce e non vedi più nulla. Invece io di notte, a volte, mi sveglio di soprassalto e vedo di nuovo tutto". Il film si ferma perché Bruno Guarini, seriamente ferito, perde conoscenza. Quando si risvegliò, ricominciò l'incubo: "La Croce Rossa era arrivata. Io ero ferito e contuso un po' dappertutto. Insistevo con loro per cercare Alberto prima di essere portato via, anche a costo eventualmente di ritrovarlo morto, come effettivamente accadde. La Croce Rossa cercava di portarmi via ma io non potevo lasciare quel posto. Semplicemente misi la sua carta d'identità nella tasca, quindi mi condussero in ospedale. C'eravamo precipitati insieme a Bruxelles cantando sull'aereo. E al ritorno me ne venivo con il corpo di mio figlio". È strano, alla vigilia del prossimo martedì, giorno di un surreale ed emotivo incontro all' Anfield Road, camminare per le belle strade barocche del centro storico di Mesagne insieme a Bruno e ricordare a me stesso che ho visto, da lontano sebbene non in dettaglio, la morte di suo figlio e di 38 altri nel fatale blocco Z dell'Heysel. Ero vicino alla linea di centrocampo, al di sopra del macello. Questa era la posizione per la quale Guarini aveva richiesto (e aveva promesso) i biglietti, e nella quale suo figlio avrebbe avuto la vita salva, se solo i loro posti non fossero stati spostati all'ultimo minuto dall'agenzia di viaggi che li aveva fatti arrivare in volo da Brindisi. E' strano ricordare l'incubo di quel giorno e di quella notte: il tappeto di cocci di bottiglie di birra rotte e lattine nel centro di Bruxelles e tutt'intorno allo stadio; quelle tre cariche verso il piccolo gruppo di tifosi italiani, il cui gruppo principale si trovava all'estremità opposta del terreno (e la terza delle quali attraverso la gradinata scoperta in mezzo alla folla in fuga), ed il fatale crollo del muro, corpi rotolanti verso il basso, e i furiosi canti di battaglia che ci furono dopo tra gli inglesi. Ho incontrato per la prima volta Bruno Guarini 15 anni fa. In quel periodo, cinque anni dopo l'incidente, niente era stato spostato dalla stanza di Alberto. Posato a lato del suo letto un giornale della Juventus; appesi nell'armadio i suoi abiti e lo zainetto bianconero nel quale si trovava il pranzo al sacco preparato per quel giorno, e che tornò insieme al suo corpo a casa. Ora quella parte di casa Guarini è per lo più chiusa, ma i trofei di Alberto rimangono, allineati in fila, e riconducibili ai suoi successi nei tornei di calcetto e tennis. I muri della sua stanza da letto ora sono ricoperti da fotografie, dei suoi sorrisi, delle sue speranze e della sua bella gioventù. "Tutti dicono che il tempo sana le ferite" riflette Guarini ora. "Ma il tempo non ha fatto niente. Tutto quanto rimane davanti ai miei occhi come se fosse successo ieri. Posso ancora sentire la sua voce. Posso ancora vedere il suo sguardo. Per tutti quanti voi, anche per i tifosi, il tempo passa. Ma per un padre che ha perso suo figlio, tutto rimane dentro e niente si cancella". I cambiamenti invece consistono nel matrimonio della sorella di Alberto, Paola, che tra l'altro vive nella casa accanto, e che ha avuto un figlio, Gabriele, che ora ha due anni. "E' la mia gioia" dice il nonno. Un piccolo Alberto ?

"Naturalmente !" Per quanto riguarda la partita di martedì, Guarini ha deciso di vederla. "Lo farò per Alberto. Sarà come averlo al mio fianco seduto. In fondo è quello che avrebbe voluto lui". Mesagne è uno dei tipici paesi che si trovano per l'Italia centrale e meridionale, dai quali provenivano parecchi di quei tifosi che si trovavano nel Blocco Z, quelli impossibilitati ad avere un biglietto per il settore più adatto dello stadio, è un luogo ricco di qualsiasi mezzo, si trova su una bassa pianura dalla terra profondamente rossa che si estende all'interno partire dal porto di Brindisi, nel cosiddetto "tacco" d'Italia. Molti abitanti della zona lavorano nei terreni circostanti; e poi sono presenti poche industrie di trasformazione del pomodoro in salsa, nonché confezionamento di olive e carciofi. Qui Bruno Guarini viveva e diventava un fanatico tifoso della Juventus, con uno zelo ereditato da suo figlio. Bruno lavorava come informatore scientifico per una casa farmaceutica, Alberto optava per odontoiatria, mentre Paola faceva pratica come farmacista. A Paola era stato richiesto di garantire la registrazione della partita in videocassetta per quel giorno. Alberto non era mai stato così eccitato; chiamava ripetutamente da Bari per assicurarsi che il padre avesse scelto dei posti buoni. "E naturalmente Alberto conosceva il Liverpool" dice Guarini. "Erano famosi ovviamente, una squadra meravigliosa, e noi presumevamo che i suoi tifosi fossero come noi, semplicemente persone matte per il calcio". Alberto conosceva l'Inghilterra, c’era stato ben tre volte grazie a dei viaggi studio per conoscere la lingua, a Londra, e si era sempre trovato bene lì. Sua madre Lucia comunque era nervosa prima della partenza per Bruxelles, "non per via degli hooligans, solo perché dovevano andare così lontano". Alberto e Bruno presero l'aereo: "Era come un festival, bandiere e canti". Paola programmava il videoregistratore e accendeva la tv. I reportage e servizi riferivano di guai nella folla; Lucia spense il televisore. "Arrivammo presto allo stadio e vedemmo gli inglesi ubriachi e già fuori di testa, tutti a torso nudo nella calura" dice Guarini. "Allora dissi ad Alberto: Spostiamoci il più lontano possibile da loro, mettiamoci vicino al muro". Fu la peggiore decisione possibile, da lì non c'erano vie di fuga. "Sì - dice - "conosco tutte le giustificazioni. Era un pessimo stadio e ancora non riesco a credere come abbia potuto l'UEFA sceglierlo come luogo per la finale tra due delle più forti squadre d'Europa, ciascuna con migliaia di tifosi al seguito. Così come non riesco a capacitarmi di come abbiano permesso la vendita di biglietti per la stessa curva sia agli inglesi che a noi italiani, quando gli juventini (compresi gli elementi peggiori) si trovavano nella curva opposta. E la polizia poi: semplicemente inesistente. Non esistevano protezioni, nessuna linea per separarci Ma la mancanza di provvedimenti adeguati giustifica quello che è successo ? Può questo giustificare l'assassino di tante persone ? Hanno chiamato questa una tragedia come un terremoto o un disastro naturale, ma non è stata una tragedia come si dice, è stata una carneficina".

"Per 50 anni," dice Guarini, "ho pensato all' Inghilterra come ad un paese civilizzato. Un popolo civile. Ma quello che mi ha fatto male è che non abbiamo sentito mai nulla dalla società del Liverpool o dei suoi sostenitori, non una scusa o un gesto di solidarietà, niente, come se non avessero fatto niente di sbagliato". Qualunque sentimento ci sia o meno nel Merseyside ora (la contea in cui si trova Liverpool, NdR) - soprattutto dopo l'orrore di Hillsborough (un'altra tragedia calcistica avvenuta nel 1989 con 96 vittime) - il ricordo di Alberto è ancora vivo a Mesagne. Qui esiste la Fondazione Alberto Guarini, (gestita da Gino Sconosciuto, un impiegato di banca), che per molti anni ha finanziato gli studi presso la facoltà di Odontoiatria all'Università di Bari, a studenti locali altrimenti economicamente non in grado di mantenersi. Recentemente la Fondazione ha deciso di finanziare un posto all'Università di Lecce in modo da avere voce in capitolo nelle ricerche e scavi nel sottosuolo di Mesagne, volti a chiarire la storia della civiltà pre-romana dei Messapi, una popolazione che abitava la regione a partire dal 18 ° secolo a.C. Inoltre, il campo da tennis in cui Alberto e sua sorella erano soliti giocare è ora chiamato "Campo Alberto Guarini" e ogni anno a Mesagne la fondazione organizza tornei di tennis e calcio, con i trofei che portano il nome di Alberto. Il cimitero di Mesagne si trova adiacente al centro della città. Qui le tombe di famiglia sono disposte come edifici in miniatura lungo una rete di piccole strade. Quella della famiglia Guarini è di pietra, rivestita all'interno di marmo bianco. Il loculo di Alberto è situato più in basso rispetto a quello dei suoi nonni, entrambi i quali gli sono sopravvissuti. Su di esso vi è una fotografia, l'ultima che lo ritrae, insieme alla sua fidanzata Stefania, abbracciati, che sorridono. Di seguito c’è la lettera greca Alpha accanto alla sua data di nascita e Omega accanto alla data 29.5.85. "Questa è la mia seconda casa", spiega Guarini, indicando il posto vuoto al di sotto di Alberto, "e mi attende". I fiori vengono sostituiti due volte a settimana. Guarini contempla l’immagine di suo figlio con gli occhi che si accendono in un barlume di animazione; un lontano, straziato sguardo. Al di fuori, gocce di pioggia sbattono pesantemente contro il ferro battuto. Quindici anni fa Guarini aveva avvicinato il suo indice alle tempie e detto: "Heysel, questo mondo mi farà impazzire". Ora, qui, egli riflette: "Penso per tutto il tempo se solo esso mi avesse dato un altro dono. Se solo l'aereo non fosse decollato a causa di cattive condizioni meteorologiche. Se solo...". E ripete: "Per un padre avere un figlio e guardarlo morire è il più grande dolore. Ma per perdere il figlio in questo modo, ucciso da quella gente, è al di là del dolore. È qualcosa che il tempo non può guarire, nemmeno 20 lunghi anni, e ti lascia la morte nel cuore". (Traduzione di Francesco Arnò) Fonte: Forzamesagne.com © 2 aprile 2005 Fotografie: Gazzetta dello Sport © Forzamesagne.com ©

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