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Reduci Heysel P
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Testimonianze Reduci Heysel (P)
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2 PORDENONESI

"Scampati all’inferno per tre metri"

Erano nella curva "Z" dell’orrore: il ricordo di due pordenonesi alla finale Juve – Liverpool

di Loris Del Frate

Doveva essere una festa, una notte magica, la fine di un viaggio che per chi era partito da Pordenone era stato lungo millequattrocento chilometri. Tanti, ma passati velocemente su quel pullman diretto allo stadio Heysel e partito dalla piazza principale in riva al Noncello. Sopra c’erano anche Lino Badin, allora ventinovenne, sposato da pochi mesi e Mauro De Roia, due anni in meno, con un figlio in arrivo. Loro dall’Heysel, lo stadio maledetto che è costato la vita a 39 persone la sera della finale di Coppa Campioni Juventus - Liverpool, sono tornati a casa. Miracolati perché erano tre metri più in alto rispetto all’inferno. Ma quella notte di trent’anni fa non l’hanno mai dimenticata. E pensare che avevano perso ogni speranza di andare a vedere la partita. "Avevamo battuto in lungo e in largo la provincia per trovare i biglietti. Nulla da fare - raccontano - eravamo rassegnati a guardarla in televisione". Invece il destino si mise in mezzo. "Ricevetti una telefonata dallo Juve club di San Stino - racconta Lino Badin - avevano due posti. Siamo partiti in pullman la sera prima dell’incontro". In corriera la distribuzione dei biglietti: curva "Z". Il settore maledetto. Quello del massacro. "Siamo entrati allo stadio verso le 17. Era una giornata bellissima - va avanti Mauro De Roia - un sole caldo, mille colori, ma anche tanta disorganizzazione. Ci volle più di un’ora per entrare. Tutti schiacciati per passare attraverso una porticina larga sì e no un metro e mezzo". "Una volta dentro - spiega Lino Badin - ci accorgemmo subito che quello stadio era inadeguato. Le gradinate che si sfaldavano solo sbattendo forte i piedi e una rete, come quella dei pollai, che ci divideva dall’orda dei tifosi inglesi, quasi tutti ubriachi. Già fuori avevamo visto l’area circostante l’impianto tappezzata di lattine di birra vuote". La salvezza dei due pordenonesi è legata al fatto che si fermarono nella parte alta della curva "Z". "Per uscire dalla curva - spiegano entrambi - c’era solo una porticina che era accanto a dove ci eravamo piazzati noi. C’era il tifo, bandiere, urla, cori, ma sembrava normale. Almeno fino a quando dal settore inglese hanno iniziato a lanciare sassi e calcinacci. Spaccavano le gradinate con gli scarponi e tiravano i pezzi di pietra dalla nostra parte. La gente si ritirava, iniziava a indietreggiare, sino a quando gli inglesi hanno invaso il settore demolendo la rete. In quel momento è successo di tutto". "Io - dice Badin - ho detto a Mauro che era meglio uscire". "Io invece - replica Mauro - volevo restare: ho fatto 1400 chilometri per vedere la partita dicevo, adesso non scappo". Alla fine la situazione è esplosa e i due sono riusciti a imboccare la porta dirigendosi dall’interno della curva verso l’uscita dallo stadio. "Se fossimo stati 2 - 3 metri più sotto - vanno avanti - saremmo stati travolti e probabilmente risucchiati. Capivamo dal rumore e dalle urla che stava accadendo qualcosa di grave, ma non abbiamo visto nulla. Una volta fuori siamo andati in corriera e lì abbiamo visto dalla tv che c’erano i morti". Di quelli che erano con loro in pullman alcuni erano feriti. "Siamo andati tutti in ospedale, poi, tre ore dopo, siamo riusciti a telefonare a casa e a rassicurare le nostre famiglie. Eravamo vivi. Mia moglie - scherza De Roia - mi rinfaccia sempre che per lo stress che le ho procurato, ha dovuto partorire prima del tempo". La partita non l’hanno vista.

29 maggio 2015

Fonte: Il Gazzettino

A-Z


2 POTENTINI


A-Z

FAUSTO PAJAR

Venezia - Heysel andata (e ritorno)

di Fausto Pajar

Me la ricordo bene quella sera che diavoli sono usciti dall'inferno a danzare, macabri e truci, sugli spalti fatiscenti dell'Heysel a seminare la morte tra inermi famiglie di italiani accorse a vedere, lassù in Belgio, la finale Juve-Liverpool di Coppa Campioni. Me la ricordo bene. Non si dimenticano i momenti assurdi in cui la morte ti passa accanto e lascia sul terreno i segni del suo transito feroce e assurdo. La notte riporta ancora l'incubo di quei corpi che rotolano giù dagli spalti mentre il pallone già pronto per la gara rotola anche lui lontano dai luoghi della vita e si perde come le anime di quei 39 poveri tifosi, che neri di tumefazioni e asfissia s'allineano disposti da mani pietose sul nudo selciato fuori dallo stadio tra urla di gente in lacrime e di sirene impazzite. Come è cominciata la sera dei demoni inglesi dell'Heysel ? Con una bandiera della Juve provocatoriamente bruciata davanti agli spalti del settore Z. La rete divisoria tra la follia delle creature infernali e quella delle famiglie italiane - molte quelle venete - che con un charter avevano raggiunto Bruxelles da Venezia, viene scossa come un tamburello con un clangore di catene e la furia di chi sale le maglie metalliche della recinzione per cercare lo scontro fisico e il sangue. La data è il 29 maggio 1985. Venticinque anni fa. E' una sera calda di primavera che quasi sconfina nelle temperature elevate di una precoce estate. Una lattina di birra con tutto il peso del suo contenuto e i bordi ferocemente affilati, schizza nell'aria e precipita sulla testa di un tifoso veneto dietro di me. L'aria pare attraversata da un lampo di morte: uno zampillo di sangue rosso che si confonde con i raggi purpurei del tramonto. Ma l'aria dilata anche un urlo di dolore raggelante che si distingue come un allarme che sovrasta l'inno di guerra "You'll never walk alone" che gli hooligans cantano brandendo minacciosi le aste delle bandiere verso di noi, folla inerme di famiglie con figli e nonni al seguito che occupiamo il settore Z della curva. Il corpo cede sulle gambe sopraffatto dal dolore e da urla belluine e si spande l'odore sorprendente del sangue che prorompe dal cranio ferito mentre attorno gli amici sorreggono il corpulento compagno perché non stramazzi a terra di peso e gli tamponano la ferita con un candido fazzoletto che subito s'impregna d'un rosso scarlatto. Il rosso, filtrando tra le dita, dilaga gocciolando sul terreno nudo, scandendo come una clessidra cruenta il tempo del dolore e della fine. La strage è cominciata. I corpi s'accalcano verso il muro che delimita il settore Z e la rampa di discesa che dal rettangolo di gioco s'insinua verso gli oscuri meandri sotterranei e fatiscenti dello stadio. Cinque, sei, sette metri di vuoto: una discesa appunto. Anche a saltare giù - e bisogna essere atleti ben allenati o semplici uomini disperati per decidersi a saltare - non s'arriva a terra a piè pari. Eppure alcuni, pressati da coloro che ormai avevano violato il confine delimitato invano da una fragile rete salgono sul muro e cominciano a cadere di sotto fracassandosi le ossa. E sopra i primi cadono altri. La folla preme sul muro per sfuggire agli attacchi, per mettersi in salvo mentre gli hooligans dilagano per uccidere bandendo bastoni, sferrando pugni e calci, massacrando chi è a terra inerme. Inerme allo stesso modo di quando era in piedi in attesa dell'inizio della partita. Ma lo stadio è marcio. Anche il muro è marcio e non tiene più. Gli ultras del Liverpool sono marci di birra. Il muro crolla di schianto su coloro che sono già a terra, tutti rotti, sulla rampa. Quelli che si erano accalcati vanno giù come fantocci con le braccia che annaspano nell'aria e finiscono anche loro sulla rampa sopra i calcinacci sbriciolati che hanno sepolto coloro che erano caduti prima. Intanto Rodolfo Sartor, uno dei responsabili del Club Juventus di Treviso e notissimo proprietario del pub Capriccio alla Madonna Grande, mi afferra per un braccio e mi trascina verso il basso, verso il campo e così mi salva la vita. Nella recinzione metallica c'è una porticina. Siamo compressi sulla rete dalla folla che preme. Non si respira più. Rodolfo è alla mia destra anche lui con la faccia schiacciata alla rete. La porticina si scardina sotto la pressione. E' a dieci centimetri. Rodolfo con la forza della disperazione riesce a spingermi nel varco seguendomi. Insieme rotoliamo fuori verso la salvezza, ma giusto in tempo per prenderci una frustata da un poliziotto che ancora - come per altro tutti i suoi colleghi - non aveva realizzato che cosa era accaduto e si sentiva in dovere di frenare quella che a tutti gli effetti era un'autentica, inconfondibile, invasione di campo. Lì, sulla rete, che noi ormai abbiamo lasciato, qualcuno sviene, qualcuno muore cercando invano un po' d'aria. Altri fuggono alla ricerca di riparo e salvezza. Altri ancora cercano di arrampicarsi sulle maglie della recinzione, altri ancora tentano di passarvi sotto. Quanti ne tiriamo fuori ? Dieci, quindici, non so. Poi ci si ritrova a centinaia in mezzo al rettangolo di gioco. Vedo Bruno Schiavon, il famoso titolare dell'osteria trevigiana "Al ponte Dante", che soccorre alcuni feriti. Lui ha avuto la fortuna di essere risparmiato dall'orda di hooligans scatenati e armati, perché indossava il cappellino della Ferrari, rosso come i colori distintivi dell'orda furente e ubriaca. Per lui la Ferrari era un mito. E quel gadget per la testa preso a Monza era un'icona da esibire con orgoglio e con venerazione. Da quel giorno è il talismano tangibile di una fede salvifica capace di esorcizzare ogni personificazione del male. I diavoli sanguinari erano passati davanti e dietro di lui bastonando e urlando, facendo il vuoto sugli spalti. E lui - nonostante si trovasse proprio vicino alla rete di separazione tra i settori X e Z - era stato lasciato indenne e s'era ritrovato solo, incolume, sulle gradinate a guardare l'opera nefanda dei seminatori di morte, che per via del cappellino lo avevano scambiato per uno di loro.

Ormai la strage è compiuta: 39 morti (32 italiani, 4 belgi, due francesi, un irlandese) e seicento feriti. Con un gruppo che si è affiancato a me (tra questi c'è anche Gaspare Lucchetta, uno dei fratelli titolari dell'Euromobil di Falzé di Piave), mi posiziono davanti all'accesso della tribuna d'onore protetta dallo schieramento di uno squadrone a cavallo. Agito un tesserino in pelle rosso-amaranto e chiamo il ministro Gianni De Michelis. I poliziotti a cavallo tra il tesserino dal colore regale e il grido "monsieur le ministre !" equivocano sul mio ruolo e mi fanno passare con tutto il gruppo. Raggiungiamo la tribuna e scendiamo nella sala interna dove tra i tavoli del sontuoso buffet allestito per le autorità si aggirano corpi macilenti e sanguinanti di feriti che hanno trovato rifugio e qualche cura lì dentro. Noi usciamo in strada. Sul selciato si allineano già una decina di corpi alcuni coperti con lenzuola, altri ancora a cielo aperto. Nessuno di loro ha le scarpe. Nessuno di loro... Non me la sento più di ricordare tutti i particolari. La morte non è uno spettacolo da esibire anche se quei i corpi, che fino a pochi minuti prima erano persone, appaiono come testimoni inerti eppure urlanti di quali livelli di abiezione può coltivare la malvagità dell'uomo. Giuseppe Spolaore, di Bassano, aveva 14 anni, allora. E' il figlio di Amedeo morto all'Heysel a 55 anni. Il giovane riportò la frattura di un femore. Ha detto recentemente: "Quella sera a Bruxelles si sono intrecciate e sovrapposte una serie di concause talmente consequenziali e perverse nel loro succedersi da rendere tutto follemente dirompente. Sicuramente gli hooligans sono stati il fattore scatenante, ma anche l'assenza di polizia, la struttura inadeguata dello stadio, la mancanza di uscite di sicurezza, la tipologia di persone che si trovavano in quel pezzo di curva, l'organizzazione carente hanno fatto il resto". Tecnicamente è stato proprio così. Umanamente no. Perché se il tempo lenisce il dolore di certo non guarisce le ferite dell'anima. E' per questo che bisogna ricordare. Ricordare tutti: (Omissis Lista Vittime). Che dire di più ? Che le autorità ci volevano spedire via subito in aereo perché non volevano grattacapi, ma che noi - i vivi - restammo compatti all'ingresso dell'aeroporto fermi nella volontà di cercare negli ospedali tutti i feriti per portarli a casa con noi. E così fu nonostante le minacce e nonostante alcuni venissero "deportati" con i pullman verso un altro scalo distante più di 60 chilometri e spediti a Venezia. Così fu, appunto. Oggi dell'Heysel è stato cancellata ogni pietra. Lo stadio della morte è stato demolito. Al suo posto nel 2000 è stato costruito uno stadio moderno intitolato all'anima buona di re Baldovino, quasi a esorcizzare quel luogo di morte. Heysel, il nome Heysel e quello che vi accadde, rimane tuttavia nella memoria collettiva dell'Europa come uno dei luoghi dove il male si è manifestato in tutta la sua abbietta potenza in una sera calda di primavera che quasi sconfinava nelle temperature elevate di una precoce estate.

Agosto 2010

Fonte: Il Gazzettino Illustrato

A-Z


SAVERIO PALLADINO

Heysel, mi sono salvato così

di Nicola Lavacca

A 27 anni dalla tragedia, Saverio Palladino, scampato alla violenza degli hooligan inglesi, racconta che cosa successe nello stadio maledetto.

Quel tragico mercoledì del 29 maggio 1985, Saverio Palladino era nella famigerata curva Z dello stadio Heysel di Bruxelles. Faceva l’artigiano tessile nella sua Bitonto, in provincia di Bari, dove vive tuttora. Finalmente aveva coronato il sogno di veder giocare la Juventus in una finale di Coppa dei Campioni. Grande era la sua passione per la squadra bianconera che aveva seguito dal vivo una sola volta nell’ottobre del 1976 allo Zaccheria di Foggia, dove un gol di Bettega aveva mandato al tappeto l’undici rossonero. La gioia di poter assistere a una partita così entusiasmante fu spazzata via da uno degli eventi più drammatici e luttuosi che il calcio ricordi. La furia cieca degli hooligans del Liverpool causò una vera strage: 39 morti, di cui 32 italiani, e oltre 600 feriti. Saverio Palladino, allora 32enne, rimase coinvolto negli incidenti che cominciarono un’ora e mezza prima della gara. Durante la ressa furibonda che si venne a creare sugli spalti riuscì miracolosamente a trovare una via di fuga, mettendosi in salvo. Ancora oggi il suo ricordo di quella triste giornata è intriso di commozione, amarezza e tormento. "Sono stato fortunato a uscire indenne da quella bolgia", racconta: "Ogni volta che ne parlo mi vengono i brividi, soprattutto se penso a quelli che hanno perso la vita. Per una partita di calcio: è assurdo, inconcepibile. Non appena rivedo quelle terribili immagini spengo il televisore. Mi fanno troppo male, al cuore e all’anima. E provo anche un pizzico di rabbia perché probabilmente fu sottovalutata l’intera vicenda e non si fece abbastanza per fronteggiare la micidiale avanzata dei tifosi inglesi".  Mai avrebbe immaginato il signor Palladino che quella trasferta, cominciata in maniera così gioiosa e serena, si sarebbe trasformata in una sciagura. "Qualche giorno prima decisi, insieme ad altri cinque amici, di acquistare il biglietto per la finale. Pagai 600 mila lire, comprensive del viaggio in aereo che avrei preso per la prima volta. Non vedevo l’ora di assistere alla sfida tra la mia Juve e il Liverpool. Partimmo da Brindisi con un volo charter insieme a una ottantina di tifosi bianconeri provenienti da Bari e da altre province, tra cui c’era anche il signor Benito Pistolato che poi purtroppo morì. Alle tre del pomeriggio arrivammo a Bruxelles e ci dirigemmo con un pullman allo stadio Heysel. Sinceramente, tutto sembrava tranquillo. Alcuni di noi familiarizzarono con gli inglesi, scambiando anche le sciarpe".  Saverio Palladino entrò allo stadio insieme ai suoi amici, in quella curva Z che sarebbe poi diventata il simbolo della barbarie. "Erano più o meno le 18,30. Mi ritrovai al centro del settore a noi riservato, proprio perché non c’erano posti assegnati. Rimasi impressionato dalla presenza di molte famiglie straniere. Vidi tanti bambini sorridenti che aspettavano di assistere alla sfida tra due squadre titolate del calcio europeo. Ero sereno anch’io. Ma, verso le 19 si scatenò il putiferio. I tifosi inglesi, che occupavano la zona centrale della curva e la parte adiacente alla tribuna d’onore, cominciarono a inveire contro di noi, con cori e sfottò, soprattutto quando il portiere del Liverpool, Grobbelaar, durante il riscaldamento si avvicinò loro per avere maggior incitamento. Poi, scoppiò il finimondo: una pioggia incessante di lattine, bottiglie, calcinacci, bastoni. In quel momento capii che la situazione stava degenerando. Si trattava di un assalto in piena regola. Così, dalla nostra parte la gente cominciò ad arretrare sotto i colpi degli hooligans. Urla di disperazione, i bambini che piangevano. Non mi era mai capitato di assistere a scene del genere".  In pochi istanti il terrore s’impadronì dello stadio. Saverio Palladino fa quasi fatica a descrivere quei terribili momenti. La sua voce è rotta dall’emozione: "Sembrava una guerriglia, ci fu una calca tremenda.

Alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, molti furono costretti ad ammassarsi verso l’ormai famoso muro di cinta che delimitava la parte destra della curva. Quel muro che poi cedette sotto il peso della folla, causando numerose vittime. Vidi anche degli spettatori che per fuggire e trovare un varco calpestarono altre persone. Io, nonostante fossi in preda al panico e avessi una mano sanguinante per essere stato colpito da una bottiglia rotta lanciata dagli inglesi, rischiai di essere travolto sotto la spinta di coloro che erano alle mie spalle.  Per fortuna riuscii a raggiungere il terreno di gioco attraverso una breccia nella rete di recinzione ormai pericolante. Nella foga del momento trascinai letteralmente con me un ragazzo diciottenne. Soltanto dopo mi resi conto di avergli salvato la vita, anche se nella confusione generale persi le sue tracce. Quando misi piede sul campo tirai un sospiro di sollievo. Girai lo sguardo verso la curva: i tifosi inglesi continuavano a caricare incontrastati, mentre i pochi poliziotti in servizio erano pressoché inermi. E sulle gradinate, negli spazi rimasti vuoti, c’erano alcuni corpi esanimi mentre dall’altra parte giungevano i lamenti delle persone ferite. Scene raccapriccianti".  Le proporzioni della strage furono chiare soltanto nelle ore successive. Lo intuì anche Saverio Palladino che, dopo aver attraversato il campo, cercò riparo in tribuna d’onore. "Dietro di me vedevo ancora quel tappeto di scarpe che si era formato davanti alla curva. Gli infermieri mi curarono la ferita alla mano con tre punti di sutura. In tribuna mi ritrovai al fianco di Boniperti, dell’allora ministro De Michelis e di altre personalità. C’era tanto caos. Quello che non dimenticherò mai fu la drammatica elencazione del numero dei morti. Di minuto in minuto un portavoce comunicava alle autorità presenti l’aggiornamento: prima sette, poi nove, poi quindici, infine oltre trenta. La tragedia si era compiuta. Stetti malissimo. Mi venne un groppo in gola. Finalmente rividi i miei amici bitontini: ci stringemmo forte, con le lacrime agli occhi".  La finale fu giocata ugualmente per evitare ulteriori tensioni e incidenti. Vinse la Juve, con un rigore contestato che Platini trasformò in gol. "Mi ricordo che Boniperti non voleva che si giocasse", dice Palladino: "Poi prevalse la decisione dei dirigenti UEFA e delle forze dell’ordine belghe. Io assistetti alla partita passivamente. C’era un clima surreale. Pensavo a quanti avevano perso la vita. Mi sembrava tutto irrazionale, soprattutto l’esultanza dopo il gol della Juve. Ero preoccupato perché non riuscivo a telefonare a mia moglie Rosa. Io e i miei amici uscimmo dallo stadio al fischio finale. Preferimmo non vedere la premiazione. Avevo un piede scalzo, trovai una scarpa di fortuna e mi diressi verso il pullman. All’aeroporto rimasi esterrefatto e inorridito nel vedere su un quotidiano belga la foto di quel sostenitore juventino, con la sciarpa al collo, mentre piangeva disperatamente davanti al corpo senza vita di un amico".  Il gruppo dei tifosi che era partito da Brindisi si lasciò alle spalle il "buio" dello stadio Heysel: "Alle 9 del giorno dopo tornai a casa, abbracciai forte mia moglie Rosa e il piccolo Gianluca che allora aveva 5 anni (in seguito nacque Maria Rosaria N.d.R.). Ci fu un pianto liberatorio. Ma il ricordo di quella tremenda esperienza mi aveva segnato. Per quasi sei mesi continuai ad avere gli incubi. Avevo ripetuti attacchi di panico. Un tormento quotidiano che sono riuscito a rimuovere con il passar del tempo. Da allora decisi di non andare più allo stadio per paura che potesse accadere di nuovo qualcosa di brutto, di orribile. Sono rimasto un simpatizzante della Juve, sono anche contento che abbia rivinto lo scudetto. Credo, però, che nel calcio ci sia ancora troppa violenza. E se una persona perde la vita per una partita è assurdo".

29 maggio 2012

Fonte: Famigliacristiana.it

A-Z


 PAOLO PASELLO

La vergogna dell’Heysel, parla il rodigino sopravvissuto

di Francesco Saccardin

Rovigo - Trenta maledetti anni ma il ricordo è ancora li, vivo, incancellabile. Paolo Pasello, ex vicepresidente dello Juventus club di Rovigo (fondato nell'87 e attivo fino al 2002, 50 abbonamenti e 750 soci nel momento di massimo splendore), è uno dei sopravvissuti della tragedia dell’Heysel, una delle pagine più nere della storia del calcio e dello sport, 39 morti nella calca che prima della finale dell'allora Coppa dei Campioni contro il Liverpool provocò il cedimento di un muretto e il suo successivo crollo. "Abbiamo comprato i biglietti al costo di 300 franchi - inizia il suo racconto - nell'85 ancora non c'era l’Euro, più o meno l'equivalente di 9mila lire dell'epoca, e siamo partiti in quattro a bordo di una Ritmo la sera prima, il 28 maggio. Dopo dodici ore di macchina siamo arrivati a Bruxelles intorno alle 8 del mattino e siamo stati accolti da un imprenditore del luogo che aveva rapporti commerciali con uno della nostra comitiva. Poi, dopo una sostanziosa colazione, abbiamo fatto un giro turistico per la città. Bella, bellissima, come la giornata, tanto sole, tutto prometteva bene"... È in città, però, che Paolo vede i primi gruppi di hooligans: "Li conoscevamo di fama. Avevano già creato problemi di ordine pubblico in Inghilterra, in tanti erano lì già due giorni, completamente ubriachi... C'era gente che beveva birra e girava con casse di alcolici fin dalla mattina. Detto questo, comunque, nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe successo dopo...". È il "dopo", per il signor Pasello, inizia alle 17, quando, posati armi e bagagli, il gruppo fa finalmente il suo ingresso allo stadio. "Ci siamo resi subito conto che la situazione poteva essere problematica - prosegue - ingressi strettissimi, nessuno a dare indicazioni e nemmeno a obliterare il ticket che fatto è rimasto intatto, ma soprattutto polizia a cavallo schierata all'esterno ma nessun agente dentro. Nemmeno uno"... Paolo prende posto con gli amici in curva "O": "E' stata la sorte a decidere per noi, vedevamo dalla parte opposta del catino dello stadio la curva Z, la famigerata curva Z, quella divisa a metà da una rete metallica posticcia e provvisoria, tirata su alla bell'e meglio e che poi sarebbe crollata sotto il peso dei tifosi. In ogni caso, fino alle 19.30, tutto è stato tranquillo, in campo giocavano due squadre di ragazzini, fino a un'ora prima della partita ancora non era successo nulla"… Poi, al fischio finale di quel mini match, la tragedia, improvvisa. "Gli inglesi - spiega Pasello, ancora provato nonostante siano passati trent'anni - hanno preso a ondeggiare senza motivo spingendo sulla rete. Due terzi della curva Z era riservata a loro, erano tanti, e in troppi già ubriachi, i nostri nella paura di entrare a contatto con gli hooligans hanno arretrato fino al muretto divisorio"... Il resto è storia: in 39 muoiono, chi travolto nella calca, chi cadendo dal parapetto, altri schiacciati dal muretto che collassa sotto il peso della folla. "Nessuno di noi si è reso conto di nulla - riprende Paolo - il passaparola ha iniziato a parlare prima di uno, poi forse di due morti, vedevamo gente in campo e quando la polizia, sempre a cavallo, ha fatto il suo ingresso nel terreno di gioco, abbiamo deciso di uscire. Temevamo potessero sospendere la gara e che all'uscita si scatenasse la guerriglia, sapevamo già di quello che pensavamo fosse solo un morto e volevamo avvisare casa"... Il gruppo inforca la metro e raggiunge la stazione centrale ma è solo chiamando in Italia che realizzano che ci sono 39 vittime e che la gara, sciaguratamente, qualcuno ha deciso di farla giocare lo stesso. "Siamo entrati in un bar e abbiamo visto tanti inglesi piangere per la rabbia e la vergogna - racconta ancora Pasello come un fiume in piena - io mi sento ancora un miracolato, c'era gente di Rovigo tra i morti e sarebbe bastato che i nostri biglietti fossero in curva Z per trovarsi all'inferno. Una cosa però, a distanza di tempo, mi fa pensare: anche se hanno dovuto toccare il fondo e qualche anno dopo ci sono stati altri morti a Sheffield, gli inglesi il problema della violenza negli stadi lo hanno risolto in modo radicale e definitivo. Loro, come gli olandesi - conclude Paolo - non hanno più avuto problemi che invece certi loro pseudo tifosi hanno continuato a creare altrove. È questo anche per colpa di Paesi come l'Italia, dove questo genere di comportamento viene tollerato e non considerato come Oltremanica"...

28 maggio 2015

Fonte: Rovigooggi.it

A-Z


ATTILIO PAVONE

Attilio, il ragazzo che riuscì a salvarsi

"Sarò a Berlino"

di Giuseppe Salvaggiulo

"Quando penso all’Heysel, mi rivedo sulla pista di atletica, dopo essere passato accanto ai cadaveri. Un interminabile mezzo giro di campo verso la salvezza. Il ricordo più definito è una sensazione indecifrabile. Una sospensione temporale ed emotiva, chissà quanto lunga, pochi minuti o mezz’ora fino alla supplica ai giocatori: "Non giocate"". Quindici anni fa Attilio era un ragazzo che viveva a Taranto e sognava la Juventus: sua madre, trovati due biglietti, lo accompagnò a Bruxelles. Oggi l’avvocato Pavone vive a Milano, è sposato, ha un figlio di 4 anni e sogna ancora la Juve, al punto da lottare per ore con il computer per assicurarsi un biglietto per Berlino. Attilio e sua madre arrivano in pullman a Bruxelles dopo due giorni di viaggio. "È ancora giorno: coda caotica, poliziotti a cavallo derisi dai tifosi, stadio decrepito. L’ingresso è una piccola porta di legno. Gli addetti al controllo rinunciano e fanno passare tutti. Finalmente siamo dentro. Settore Z, a metà: sarà la nostra salvezza. A sinistra la curva degli inglesi, divisa da una specie di rete da pollaio. Precaria e sinistra, a ripensarci, ma in quel momento non lo penso. Sono troppo felice. Invece cominciano a staccare mattoni e a lanciarli su di noi. La folla ondeggia, la rete s’affloscia. Gli inglesi invadono il settore Z. Botte. Panico. Senso di impotenza. Chi può, fugge. Corri e corri e si cade tutti insieme. Resto intrappolato in un cumulo umano. Perdo di vista mia madre. Gente sopra e sotto, voci disperate, una mano che ci tira su, uno per uno. Rivedo mia madre. Passiamo nel varco sulla pista. L’istinto ci dice di andare il più lontano possibile. Sguardi persi, gente che piange, volti insanguinati, ambulanze. Più avanzo, più capisco: non so quanti, ma ci sono morti. Ora li vedo. Ci dicono che si giocherà e ci viene proposto un posto sicuro nella curva bianconera. No, vogliamo solo uscire. Finalmente siamo fuori. Incrociamo il giornalista Gianni Minà e gli chiediamo di telefonare a casa per dire "siamo vivi". Torniamo sul pullman. A bordo solo io e mia madre, in silenzio per due ore. Quando tutti ci raggiungono, resta un posto vuoto con un borsello da riportare in Italia". Per Attilio quella partita non s’è mai giocata. "Nella mia testa è la contraddizione insuperabile tra sogno e tragedia. Negli anniversari mi torna in mente solo l’immagine della pista di atletica". La madre "ha coltivato per anni il senso di colpa di aver messo in pericolo la sua e la mia vita. Ingiustamente, lei juventina che aveva corrisposto a un mio desiderio. Aveva paura che andassi allo stadio. Non mi chiedeva di rinunciare, sperava lo facessi io. Tre anni fa le ho detto che mi abbonavo allo Stadium, spiegandole che è sicuro. Quest’anno l’ho convinta: per la prima volta dopo 30 anni, è tornata allo stadio. Accanto a me. Il prossimo desiderio è farlo con mio figlio Emilio".

29 maggio 2015

Fonte: La Stampa

A-Z


FIORENZO PELOSO

Trent’anni dalla tragedia dell’Heysel

Un testimone: vergogna e meschinità

A trent’anni dalla tragedia dell’Heysel, quando 39 tifosi (32 italiani) morirono in una ressa scatenata dagli hooligans del Liverpool a Bruxelles prima della finale di Coppa Campioni tra gli inglesi e la Juventus il 29 maggio 1985, pubblichiamo il ricordo di Fiorenzo Peloso, bergamasco che ora vive in Nuova Zelanda, testimone di quella giornata orribile. Se anche voi avete una testimonianza significativa di quella tragedia scriveteci a redazioneweb@eco.bg.it.

In quella trasferta ero l’accompagnatore della squadra della Juventus, compresi dirigenti e giornalisti al seguito. Organizzai la trasferta: partimmo da Ginevra con un Caravelle dell’Air France, nel tragico giorno dopo assistetti alla peggiore rappresentazione di un’umanità disumanizzata intorno a uno sport che di sportivo non aveva più nulla. A distanza di 30 anni non riesco a dimenticare la somma incredibile di meschinità di cui fui testimone e di cui ora racconterò alcuni dettagli. I FERITI IGNORATI - Uscendo dallo stadio sul pullman scortato dalla polizia nessun giocatore e dirigente della squadra, nonostante la mia insistenza, volle fare una breve visita alle centinaia di feriti ricoverati negli ospedali di Bruxelles, si parlava di almeno 500. LA BANCARELLA - Il venditore di hot dog davanti all’ingresso della tribuna a fianco della curva Z era visibilmente infastidito che si stendessero davanti alla sua bancarella alcuni cadaveri, tutti color nero perché morti soffocati. Lui aveva pagato caro quella posizione e stava rimettendoci i soldi. LE MANGANELLATE - I poliziotti che manganellavano fanaticamente quei feriti che erano riusciti fortunosamente a scavalcare la rete del campo di calcio per fuggire al lancio di bottiglie di birra degli hooligans, perché nel campo di gioco si entrava solo con il pass autorizzato. L’AMBULANZA - L’autista di un’ambulanza bianca irritato perché insistevo a caricare una ragazza con una gamba spezzata che portavo in braccio, mi spiegava che lui era arrivato lì per ultimo e quindi dovevo rivolgermi all’altra ambulanza, lontana circa una 50 metri: era questione di rispetto della precedenza. I RESIDENTI - Quei 4 ignobili abitanti di Bruxelles che nelle vicinanze dello stadio si rifiutarono di aprirmi la porta per farmi fare una telefonata di emergenza all’Hotel Hilton affinché informassero l’organizzazione di Torino della gravità della situazione, gridarono da dietro la porta "merde a les italiens". L’UEFA - I 4 responsabili dell’Uefa che davanti alla porta della tribuna d’onore mi impedirono fisicamente di salire le scale fino al primo piano dove c’erano i box dei cronisti, per avvisarli che fuori già si contavano almeno una dozzina di morti soffocati. Peraltro c’è da osservare che nessuno di loro si premurò di scendere fuori per constatare cosa stava accadendo. LA SOSPENSIONE - Fu una bugia colossale che la partita non poteva essere sospesa, il vero problema sarebbero stati i rimborsi dei biglietti e dei diritti televisivi. Fu deciso a tavolino che la finale non poteva essere vinta dal Liverpool. E così fu a imperitura vergogna. PLATINI - E poi la "perla" dell’indimenticabile frase dettami sottovoce da Platini all’aeroporto: "ne muoiono di più sulle strade, perché fare tanto casino". LA GAFFE - Infine nel volo di ritorno lo steward di Air France disse due parole al microfono per congratularsi con i giocatori e tradusse malamente dal francese la frase "bravi voi che avete vinto", ma ne uscì con involontaria ironia "Bravi voi che ci avete guadagnato" (gagnez = vincere in francese), al che molti giornalisti a bordo applaudirono sarcasticamente, poiché nessun giocatore aveva manifestato l’intenzione di rinunciare ai 150 milioni del premio partita per destinarli ai familiari dei morti e dei feriti. Un’esperienza che mi ha regalato un’indelebile ferita confermando la distanza siderale che esiste tra "quel" calcio professionistico e caino e lo sport autentico e leale. Chi può mi aiuti a convincermi che "l’ambiente" è cambiato.

25 maggio 2015

Fonte: Ecodibergamo.it

A-Z

 

ANTONIO PETTINELLI

© Video: Juventus, Una Signora per "due" di Ezio Maletto e Massimo Tadorni

A-Z

 

MARCO PIUMI

HEYSEL - Il viaggio, gli spalti, la Coppa

Aspettavo quel giorno da mesi, era finalmente arrivato, si parte per Bruxelles, domani si gioca la finale di Coppa dei Campioni. Il percorso della stagione era stato come tutti auspicavano, senza incertezze, decisi a prendersi la coppa maledetta, che ci era sfuggita due anni prima. Nessun dubbio che questa sarebbe stata la volta buona, ne eravamo tutti convinti, anche dopo aver battuto gli inglesi nella Supercoppa Europea giocata tra il ghiaccio e la neve. Ho trovato due posti per la finale, per me e mio fratello, grazie a Gianni, un amico di famiglia che conosce personalmente Perruquet, lo storico presidente del Juventus Club di Via Bogino, il più importante d’Italia. Si viaggia in pullman con partenza da Piazza Castello alle 20 di Martedì sera, siamo con l’autobus numero 1. Nella piazza ci saranno almeno 20 pullman, una enorme carovana pronta a viaggiare tutta la notte per portare il tifo bianconero in Belgio. Si notano le bancarelle in tutta la piazza, il clima è festoso, ci sia avvia verso la speranza di una vittoria. Si parte e partono i cori dentro il bus, comincio a pensare che sarà una lunga notte… Qualcuno ha perfino una tromba da stadio, con cui ci rintrona ogni 10 minuti. Passano le ore e la stanchezza prende il sopravvento, e si cerca di dormire, tra un coro, una strombazzata ed uno scherzo. Si scherza con un tifoso, un po’ sovrappeso, che dorme con la bocca aperta. La sorte sarà avversa per questo ragazzo: morirà in un incidente stradale in Corso Appio Claudio a Torino a bordo della macchina guidata da Favero difensore bianconero. La sua passione per la Juve lo trascinerà alla morte, ma purtroppo non sarà il solo… Ci si sveglia al mattino, molto arruffati (dormire in pullman non è certo il massimo), ma il pensiero della partita serale ci fa ripartire di slancio. Guardo fuori dal finestrino, siamo ancora in autostrada in Francia. Arriviamo alla frontiera tra Francia e Belgio, il doganiere non ci controlla grazie ai numerosi regali (sciarpe, foto, bandiere…) e ci fa "Forza Juve" "Forza Platini" !!! Penso: "Bello passare la dogana così… E se portavamo droga od altro?" !!! Siamo in Belgio, ed in poco tempo arriviamo a Bruxelles, sono le 12 circa, ed appena si passa per le vie del centro notiamo che tutti i pub sono pieni di inglesi che si stanno riempiendo lo stomaco di birra !!! Il clima è comunque festoso, noi parcheggiamo non molto distante dalla zona dello stadio, vicino all’Atomium. Prendiamo un tram ed andiamo verso un ristorante italiano, che ci sta aspettando, per pranzare. Noto che la polizia belga ci segue, ci controlla assiduamente, forse pensano che possiamo fare qualche casino. Mangiamo, riesco a telefonare a casa, dico che va tutto bene. Mia mamma qualche giorno prima della partita mi aveva chiesto ragguagli sullo stadio, su come era fatto, se era sicuro. Le faccio vedere alcune foto sul Guerin Sportivo, in cui si vede una struttura abbastanza moderna con seggiolini nelle tribune principali. So che dovremmo avere posto nella tribuna frontale a quella principale, spostati verso la curva dei tifosi della Juve. Le dico che andremo in una tribuna, facendole capire che è l’equivalente del settore denominato Distinti dello Stadio Comunale. Finito di mangiare vorremmo andare verso il centro, ma ci dicono che è meglio non andarci, poiché sembra che gli inglesi abbiano mezzo demolita la piazza principale di Bruxelles, la Grand Place. Volevo vedere il Manneken Pis, la statuetta simbolo della città, praticamente un pupetto che fa la pipì, ma ci dicono che è meglio di no. Passa il tempo, si prende la metropolitana per tornare verso la zona dello stadio, e dentro ci sono parecchi tifosi inglesi. Il clima è veramente molto festoso, ci scambiamo sciarpe, cappellini, praticamente all’uscita dal trenino della metro sembro più un tifoso del Liverpool, che della Juve !!! Si va verso il bus, e gli addetti del club ci danno una sciarpa a testa, con la scritta che ricorda l’evento, ci danno una bandierina bianconera da mostrare quando entreranno le squadre in campo, insomma ci rivestiamo da juventini. Poso le sciarpe inglesi ed il cappellino, che ho scambiato prima, nella mia borsa sul pullman: le porterò a casa come ricordo. Il gigantesco Atomium sovrasta la zona del parcheggio dei bus, è uno dei simboli di Bruxelles, ricorda la struttura atomica del Ferro. Essendomi diplomato da poco come Perito Chimico, lo osservo con curiosità. Andiamo a piedi verso lo stadio, già penso all’atmosfera dentro l’impianto ed il cuore comincia a galoppare. Fuori dallo stadio, vediamo decine e decine di tifosi inglesi letteralmente stesi a terra, completamente ubriachi. Si sente nettamente l’odore di Birra, ma non ci facciamo troppo caso, oramai la palpitazione del momento ci assale, la voglia di essere lì dentro ad assistere alla Finale sovrasta ogni altro pensiero. Ho la mia sciarpa, la bandierina, mio fratello ha anche una trombetta da stadio che è stata portata fino a lì quasi senza mai usarla, per non sprecare neanche un alito di gas, con l’idea di usarla solo durante la partita. Ai controlli, ci sequestrano subito la bandierina alta 40 cm, e chiaramente anche la trombetta, tra lo sbigottimento di mio fratello e la rabbia per questo sopruso. Se questo serve per garantire la sicurezza, pazienza pensiamo, però cosa ci facevamo con la bandierina di tanto pericoloso ? Entriamo nella tribuna, ed alla nostra sinistra notiamo la curva completamente piena dei tifosi della Juventus. Guardo a destra e noto la curva del Liverpool, ma vedo anche che un terzo della curva è piena di altri tifosi della Juve. Il primo pensiero è che siamo talmente tanti juventini, che oltre alla curva, alla nostra tribuna, ci hanno assegnato anche un altro settore. Praticamente c’erano tifosi della Juve ovunque tranne in quei 2/3 della curva alla mia destra. Manca un’ora e dalla curva della Juve alcuni ultras cominciano a fare casino, tutti pensano che possa portare bene, poiché la stessa cosa era successa l’anno prima a Basilea per la finale di Coppa delle Coppe vinta con il Porto. Dopo un po’ di baruffa tra ultras e poliziotti, tutto torna calmo, ed il tifo si accende. Passa poco tempo e vediamo qualcosa ondeggiare nella curva inglese, e notiamo che i tifosi bianconeri nello spicchio a loro riservato, si spostano verso sinistra. Comincia una serie di cariche da parte dei tifosi inglesi. La rete che divide le due tifoserie ondeggia sotto la spinta degli inglesi. I tifosi bianconeri si stringono sempre di più. La polizia non fa nulla, anzi è completamente schierata verso la curva dei tifosi della Juve. Cominciamo a gridare alla polizia, di fare qualcosa, di intervenire, basterebbe poco per sedare queste cariche, forse anche solo un idrante, ma niente. Entra sul terreno di gioco la polizia a cavallo, e la scena ha del surreale, continuiamo a gridare verso i poliziotti, ma dopo poco vediamo in lontananza crollare un muretto esterno e vedo precipitare un tifoso fuori. Poi il caos, non capiamo più nulla, non si percepisce cosa stia accadendo. Dopo un po’ vediamo parecchi tifosi in campo, a quel punto interviene la polizia che tenta di respingere questa folla, cercandola di rispedirla nella tribuna. Non capiamo nulla, quello che si era visto bene, erano gli assalti dei tifosi del Liverpool verso quelli bianconeri, ad ondate durate almeno 10 minuti. Mio fratello si volge verso di me e mi dice: "Per una volta che andiamo a vedere una Finale, deve succedere tutto questo casino ?". Lo penso anch’io, ma mi preoccupo, ho la responsabilità di mio fratello che è più piccolo, penso a chi è a casa e teme per noi. Assieme a noi c’è anche Gianni, che ci ha procurato i posti, e con lui il figlio molto piccolo. A questo punto non si capisce veramente se la partita si farà o meno, passa il tempo, si vede di tutto in campo, poliziotti, addetti alla sicurezza, assistenti sanitari, fotografi: una evidente confusione. Molti tifosi della curva della Juve cercano di entrare in campo, vengono respinti, ne vedo nitidamente uno indicare con la mano e con disperazione quello che è accaduto ad un poliziotto. Noi non capiamo, l’impressione è che sia crollata la recinzione e che i tifosi siano entrati in campo, spinti dalla foga dei tifosi del Liverpool, non percepiamo il dramma. Dopo un po’ qualcuno in tribuna dice che ha sentito notizie di morti, poi di solo feriti, insomma, nessuna informazione certa. Ad un certo punto l’altoparlante dello stadio ci informa che parleranno i due capitani delle squadre: finalmente sapremo qualcosa. Parla Scirea: ci dice di stare tranquilli, che si giocherà, che si giocherà per la sicurezza, si giocherà per voi. Si è persa la concezione del tempo, non ci rendiamo conto che è passata un’ora o un’ora e mezza dall’orario stabilito per l’inizio della partita (allora si giocava alle 20,15). Quello che notiamo è che il settore dei tifosi della Juve nell’altra curva, ora è completamente vuoto, rimangono solo tracce di sciarpe, bandiere, striscioni. Entrano finalmente i giocatori in campo, si pensa solo alla partita ora, ma non è la stessa emozione che pensavamo di provare, lo sgomento per quello che era successo ci privava di qualcosa atteso febbrilmente da giorni. La partita inizia, si tifa come fosse una partita normale, si grida, si esulta per il rigore di Platini, si soffre per gli attacchi del Liverpool e per le parate di Tacconi, si gioisce al fischio finale. Abbiamo vinto la nostra prima Coppa dei Campioni !! Ma vediamo rientrare velocemente tutti i giocatori negli spogliatoi, ed il pensiero di tutti è: "ma la Coppa ?" Dopo un po’ rientra in campo Scirea con la Coppa e la porta sotto la curva dei tifosi della Juventus, dietro a lui ci sono gli altri giocatori, ma non si festeggia come al solito, comunque fanno un giro verso le tribune esibendo il trofeo.

Quando escono dal campo, noto che la curva dei tifosi del Liverpool è completamente vuota, hanno approfittato di questi momenti per far andar via i tifosi inglesi e per evitare scontri ulteriori. Questa sarà l’unica cosa sensata che questa improvvida organizzazione avrà realizzato in quell’infausta giornata. Ci fanno uscire dallo stadio, ed i pensieri si accavallano tra la preoccupazione per quello che è successo e che non comprendiamo completamente e per la preoccupazione di chi stava a casa ed ha visto ciò in tv. Il mio pensiero è rivolto ai miei genitori a casa che sanno di avere i loro due figli a Bruxelles, in quella maledetta serata. Mi rasserena il fatto di averli informati riguardo il settore che ci spettava e che per fortuna non era assolutamente stato interessato da alcun problema. Torniamo al pullman, e qualcuno cerca di telefonare a casa, ma tutta la zona sembra completamente isolata dal resto del mondo. Verso le 3 della notte, il nostro amico Gianni riesce a contattare la moglie e tramite lei la mia famiglia: sono un po’ più tranquillo, adesso sanno che stiamo bene !!! Si parte in piena notte verso Torino, un viaggio ben diverso da quello del giorno prima. Mi sveglio il mattino e dopo poco ci fermiamo ad un autogrill in Francia. Entriamo per fare colazione, ma lo sguardo dopo poco è sui giornali lì presenti. Vedo foto tremende, corpi travolti uno sopra l’altro, cadaveri, disperazione. E’ come se mi avessero dato un colpo allo stomaco, rimango esterrefatto, comincio a collegare quello che ho visto con queste foto, ed il risultato è atroce. Leggo il numero dei morti, ed è un’altra mazzata dentro ! Capisco realmente cosa è accaduto, cosa è successo in quella curva, i pensieri scorrono e ricostruiscono una vicenda che sembrava brutta, ma che ora era completamente devastante. Riprendiamo il viaggio, ormai più triste che mai, e noto davanti al mio posto, una borsa, mi informo e mi dicono che era di uno delle vittime che aveva viaggiato con noi !!! Sempre peggio, penso, poteva capitare a ciascuno di noi, solamente la fortuna di avere un posto in una tribuna anziché in quella maledetta curva, ci aveva salvato la vita ! A questo punto non vediamo l’ora di tornare a casa dalla propria famiglia, di non pensare più a nulla, di cercare di sopravvivere ai pensieri e ai ricordi. Arriviamo verso le 20 di sera a Torino, in Piazza Castello, da dove eravamo partiti due giorni prima, che adesso sembrano una vita fa. La piazza è piena di gente, sono già arrivati tutti gli altri autobus, e molti chiedono informazioni. Sembriamo dei reduci da una guerra ! Ci chiedono come stiamo, se abbiamo notizie di Tizio e di Caio, scene mai viste prima ! Vedo anche un arbitro famoso che cerca tra i pullman in arrivo probabilmente i suoi figli. Ho fretta di tornare a casa con mio fratello, ho fretta di dimenticare tutto, di cancellare quello che non dimenticherò mai! Però l’abbraccio di mia mamma a me e a mio fratello non lo dimenticherò mai!

29 maggio 2015

Fonte: Juventibus.com

A-Z

BRUNO PIZZUL

"Mai più un nuovo Heysel"

Ci sono, sedimentate nel ricordo, esperienze che lasciano tracce profonde, che si vorrebbe poter cancellare. Ma non si può, non si deve. Heysel: per me la sola parola evoca sensazioni angosciose, un disagio che riguarda la sfera della coscienza, l'aspetto umano. Sono passati vent'anni da quella terribile notte in cui, per una partita di pallone, ci furono 39 morti e un'infinita scia di dolore. Confesso un costante senso di imbarazzo quando vengo sollecitato a ricordare ciò che accadde, anche perché, in piena buona fede, mi si chiede una testimonianza di carattere professionale: quali difficoltà incontrai nel raccontare quella tragedia, che problemi ebbi per comunicare nel modo meno traumatico la drammatica realtà. E invece dentro di me è restato solo lo sgomento per l'assurda tragedia, l'inaccettabile sensazione che ci fossero morti e feriti, lutti e lacrime in un contesto che, nonostante la sovreccitazione che spesso caratterizza il tifo sportivo, avrebbe dovuto essere di festa, di condivisione di un momento ludico. Certo, l'aspetto professionale non fu facile, anche perché le notizie arrivavano in maniera contraddittoria e c'era l'ovvia esigenza di comunicarle quasi centellinando il flusso informativo, nel tentativo di preparare un po' alla volta quanti stavano ai teleschermi e magari avevano parenti e amici in quello stadio, a una realtà che andava facendosi di momento in momento più dolorosa. Ricordo, per esempio, quanto mi costò decidere di non far parlare al microfono i pochi che, raggiunta la postazione, mi chiedevano di poter far sapere ai parenti che erano vivi, che se l'erano cavata: è stato molto duro vietare quel naturalissimo desiderio di tranquillizzare mamme, mogli o amici; ma decisi, non so se a ragione o a torto, che se avessi attivato quella specie di improvvisato e comunque parziale ponte radio-televisivo, avrei involontariamente contribuito a gettare nella costernazione e nell'angoscia le migliaia di mamme, mogli o amici cui non poteva pervenire alcun messaggio personale rassicurante. Molto poi mi colpì il racconto commosso di monsignor Pierino Carnelli, indimenticato testimone della Chiesa nel mondo dello sport professionistico: mentre la terribile serata volgeva ormai al termine, incontrò l'allora presidente della Juventus Boniperti il quale, tra le lacrime, gli confidò che, subito dopo il fatale crollo di quel muro, si era precipitato tra i feriti e i moribondi e tutti gli chiedevano di trovare un prete, per l'ultimo conforto. "E io non ho saputo trovarlo", si rammaricava. Di quella tragica notte molto si è parlato, spesso in termini di cruda ricostruzione giornalistica. Sono state individuate responsabilità, formulate accuse di ogni genere. Ma, ripeto, credo che sarebbe opportuno soprattutto utilizzare quei dolorosissimi ricordi per comprendere come sia indispensabile accompagnare la propria passione sportiva con il corredo della tolleranza, della buona educazione, della consapevolezza che gli stadi sono luoghi a rischio. Da ultimo non posso non riferire un altro motivo di profonda amarezza: mi ero convinto che l'enormità di quanto accaduto avrebbe, almeno per un po', indotto i tifosi a comportamenti più riflessivi e maturi. Invece nulla cambiò, anzi ci furono addirittura insopportabili strumentalizzazioni dettate dal mai abbastanza deprecato "tifo contro". Brutto da dire, doloroso da ricordare. Ma dobbiamo comunque avere la forza e la costanza per urlare "mai più un nuovo Heysel".

28 maggio 2008

Fonte: Juvenews.net

... BRUNO PIZZUL ...

La testimonianza del cronista televisivo di quel 29 maggio 1985, finale di Coppa Campioni.

Ho sperato di cancellare le immagini dell'Heysel, ma è una ferocia impossibile

di Bruno Pizzul

IL RICORDO - Si dice che il tempo finisce per scalfire a poco a poco i ricordi di qualsiasi tipo, attenuandone significati e impatti emotivi. C’è del vero nell'assunto, ma resta la constatazione che esistono fatti i quali mantengono un proprio vigore permanente nel tempo, per la gravità dell'evento e le circostanze particolari in cui maturarono. Di sicuro quel che avvenne a Bruxelles il 29 maggio del 1985, sinteticamente individuato come Heysel, rappresenta un momento che continua a evocare un cumulo di sentimenti e di risentimenti, dolore per le vittime, dispetto e scandalo per il modo colpevolmente inadeguato con cui si fronteggiò una situazione che avrebbe potuto e dovuto essere gestita in modo diverso. I 39 morti, quasi tutti italiani, persero la vita in modo assurdo, sacrificati dalla colpevole superficialità delle autorità belghe, del tutto impreparate a controllate il gran numero di tifosi inglesi e italiani arrivati a Bruxelles per vedere la finale di Coppa Campioni tra Liverpool e Juventus. Quello che accadde è stato ricostruito con crescente precisione per l'enorme impressione e commozione che provocò, quanti erano presenti in quello stadio allora fatiscente e inadeguato e la miriade di telespettatori impietriti dal susseguirsi di immagini via via più crude vissero una serata terribile. Confesso di avere più volte coltivato la speranza di poter cancellare dalla mia memoria quelle tragiche sequenze che mi videro coinvolto in quanto responsabile della telecronaca diretta di un evento sportivamente molto atteso ma che poi ebbe tragica conclusione. Ma mi rendo subito conto che quello che accadde, proprio per la sua assurdità e ferocia, non può e non deve passare nel dimenticatoio, dovendo trasformarsi in monito per una diversa e più responsabile partecipazione alle vicende sportive. In effetti poi, anno dopo anno, constato di esser stato colpito da una vera e propria ferita nella mia coscienza di uomo, prima e più ancora che nei ricordi di cronista impegnato in un complesso compito. Mai infatti ho sentito di peso di quel lavoro svolto in modo inconsueto e in un contesto particolarissimo, mi sono piuttosto sentito schiacciato dall'assurdità di essere arrivato in una bella e civile città europea per raccontare le emozioni di una partita di pallone e aver invece dovuto dire di 39 morti e centinaia di feriti. Credo che sia inutile insistere sugli errori, omissioni e leggerezze della autorità belghe, così come non mi pare il caso di riandare a certe polemiche riguardanti la mia telecronaca, da alcuni giudicata troppo portata a compiacimenti di natura sportiva, quasi a sminuire l’aspetto luttuoso. Accadde quel che mai e poi mai sarebbe dovuto accadere, ma come ho spesso detto e ripetuto, sono rimasto profondamente deluso e addolorato dalla constatazione che quei tragici eventi anziché generare, almeno per un po' di tempo, una presa di coscienza degli appassionati di calcio, inducendoli a comportamenti più cortesi ed educati, si trasformarono in indecorosa occasione per insultare le vittime e la squadra di appartenenza, auspicando il ripetersi di altre carneficine del genere. Assurda espressione del mai abbastanza censurato tifo contro. Parche si giocò quella maledetta partita, perché i giocatori scesero in campo pur sapendo sia pure in parte l'accaduto, perché poi gli juventini non lasciarono la coppa vinta in qualche modo davanti alla curva Zeta, perché io feci la telecronaca anziché trincerarmi In luttuoso silenzio ? Sono interrogativi ai quali ognuno può dare una risposta e che il prossimo anno torneranno di attualità. Certo è che vivere i ricordi di quel Juventus-Liverpool a stadi vuoti, e per ora non di soli spettatori, assume un sapore del tutto particolare. In ogni caso Heysel da non dimenticare, per me come per tutti.

28 maggio 2020

Fonte: La Stampa

A-Z

MICHEL PLATINI

L'incubo Heysel

Arriviamo allo stadio due ore e mezzo prima della partita, l'atmosfera è tranquilla. Le tribune stracolme, entriamo in campo per salutare i nostri tifosi. Chi avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo di lì a qualche ora ? Fine di un sogno - Heysel resterà per sempre la partita che non avrei mai voluto giocare, la fine di un sogno, quello in cui il calcio - nonostante i soldi, gli interessi, le televisioni - rappresenta ancora un gioco, un divertimento. Quella tragica notte ha cambiato per sempre la mia percezione. Primo ritardo - Mezz'ora prima della partita, stiamo completando il riscaldamento nei corridoi sotto le tribune, quando giungono le prime notizie. Confuse, vaghe, avvolte da mille cautele. Ci sono stati degli scontri tra le tifoserie, un tifoso è morto, la partita verrà posticipata di 15'. Duplice ansia - Mi sento invaso da una duplice ansia: da una parte l'impazienza di giocare al più presto la finale della Coppa dei Campioni contro il Liverpool, dall'altra l'angoscia per l'insensatezza di ciò che si sta verificando. Accanto a me, Antonio Cabrini cerca invano di mettersi in contatto con la moglie. Zbigniew Boniek, solitamente tra i più spensierati prima di ogni partita, è una maschera di cera. Assurda tragedia - Le notizie continuano ad arrivare a strappi, disordinate, senza conferme. La nuova comunicazione ufficiale ci informa che il calcio d'inizio slitterà di un'ora e mezzo. Ora i morti sarebbero due, anzi tre, anzi si tratterebbe di feriti gravi. La verità è che noi siamo all'oscuro della tragedia in atto. Solo rientrati in albergo, dopo la partita, prendiamo coscienza della gravità del bilancio. Un'assurdità che mi accompagnerà per il resto della mia vita. Partita vera - Una volta in campo - sfidando l'accusa di cinismo - giuro che è stata partita vera. Almeno questa è la mia impressione. Certo, entrambe le squadre hanno cercato di limitarsi nelle inutili proteste, ma al momento del gol, la nostra gioia è stata sincera. Incontenibile. Non abbiamo saputo trattenerci dall'esultare, a conferma della nostra ingenuità. Giusto giocare - Per ragioni di ordine pubblico il trofeo ci viene consegnato nello spogliatoio, mentre noi vogliamo condividere la gioia con i nostri tifosi, così torniamo sotto le tribune. Un gesto sicuramente da evitare, se avessimo saputo cosa era successo. A chi sostiene ancora oggi che quella finale non doveva essere giocata ricordo la minaccia di incidenti ancora più gravi. Giocare è stato anche un modo per stemperare quella folle tensione che si respirava all'interno dello stadio. Gravi responsabilità - Le responsabilità risiedono piuttosto altrove. L'Heysel non era uno stadio adatto per una simile partita. Il giorno prima, visitando l'impianto nell'ultimo allenamento di rifinitura, eravamo rimasti stupefatti dalle sue condizioni fatiscenti. Le barriere tra i settori erano inesistenti. Mancavano le minime misure di sicurezza. Detto questo, non voglio dimenticare le gravissime responsabilità di chi, tra i tifosi inglesi, ha attaccato i tifosi italiani. Heysel mai più - Dopo quella notte il calcio è cambiato radicalmente. Perdendo la sua originaria purezza, al prezzo di decine di innocenti, si è dato regole e controlli più severe. Per chi ha vissuto l'Heysel, viceversa, è come se qualcosa si fosse rotto per sempre. Non ho più voluto tornare in quell'impianto, non saprei reggere l'emozione.

28 marzo 2006

Fonte: Uefa.com

A-Z

PAOLA POPPI

29 MAGGIO 1985 - 29 MAGGIO 2015

di Paola Poppi

Sono passati trent’anni e ancora oggi non mi sembra vero che sia potuta accadere una simile tragedia. Da allora, ogni anno il 29 Maggio il mio primo pensiero è per le persone che non ci sono più, per le loro famiglie. Ogni anno il 29 Maggio rivivo i momenti e le emozioni di quella giornata che, man mano che passa il tempo si trasformano, ma non si confondono e restano ben distinti e scolpiti nella memoria. Ogni anno i ricordi diventano sempre più nitidi e me li tengo stretti nella mente e nel cuore per rispetto di chi non è tornato. Ci alziamo presto, facciamo colazione e siamo allegri e fiduciosi: la Coppa dalle grandi orecchie ci sembra vicina. Verso le 9 lasciamo l’albergo dove abbiamo pernottato. Io sono partita da sola, non conosco nessuno, ma lego subito con un gruppo di ragazzi di Bologna, Roberto, Antonio e Gabriele. Sono simpatici, tifosi sì, ma tranquilli. Con me sono molto protettivi e di questo gliene sarò sempre grata. Mentre raggiungiamo il pullman, incrociamo un gruppo di tifosi del Liverpool, che vogliono riposarsi un po’ prima di raggiungere lo stadio. Mi sembrano ubriachi. Una ragazza giovane, bionda, dallo sguardo un po’ perso e gli occhi gonfi di sonno mi passa vicino. Farfuglia qualcosa. L’allegria si stempera in moderata preoccupazione. Partiamo per Bruxelles. Il nostro albergo è vicino al Mare del Nord. Ci vuole un po’ di tempo. Sul pullman si chiacchiera e si scherza. Ogni tanto si alza un coro propiziatorio. Siamo ancora sereni e fiduciosi. A mezzogiorno arriviamo a Bruxelles. La Grand Place è un po’ bianconera e molto rossa. Foto di gruppo tra tifosi delle due squadre, scambio di sciarpe, cori, ma la birra scorre a fiumi e preferiamo non partecipare a questo gemellaggio etilico. Pranziamo in un ristorante greco. I miei nuovi amici apprezzano il cibo. Io mando giù a fatica due bocconi e lascio lì il piatto quasi pieno. Ritorniamo verso la Grand Place: è semivuota di persone, ma piena di bottiglie vuote. Nel primo pomeriggio, finalmente, partiamo per lo stadio. Ancora chiacchiere, risate, cori e Forza Juve. Arriviamo allo stadio:  la prima cosa che vediamo è l’Atomium, quasi nessuno sa cosa sia e io, da brava maestrina, spiego. Quanta gente !  È la finale di Coppa dei Campioni, dai, è normale che ci sia tanta gente !  Non è normale, però, che la gente vada alla partita con le casse di birra in mano. Siamo piuttosto preoccupati e ci teniamo lontani dai tifosi più agitati. Raggiungiamo la zona davanti alla porta d’ingresso. Mi guardo intorno, scambio un’occhiata con miei ragazzi (saranno sempre i miei ragazzi, anche se da molti anni non ci sentiamo più). Abbiamo avuto tutti lo stesso pensiero: "Ma questo è uno stadio da finale di Coppa dei Campioni ?"  No, non lo è ! Adesso sì che siamo veramente preoccupati. E non abbiamo ancora visto niente ! Ancora non ci siamo dispersi in piccoli gruppi o a coppie, trascinati da ogni parte dalla folla. Ancora non abbiamo avuto gli incontri ravvicinati con i cavalli della polizia belga. Ancora non siamo stati sollevati da terra. Ancora non… Alle 7 di sera, per mano all’unico ragazzo che è riuscito a starmi vicino, entro all’Heysel; è già stracolmo di gente e non sono entrati ancora tutti. Forse siamo già in troppi.

Di fronte a noi, nella curva opposta, la Z sapremo dopo, c’è un po’ di agitazione. Parte qualche razzo. La gente si muove. La distanza è troppa per capire meglio. Quando pensiamo che il peggio sia passato, in pochi minuti il campo da gioco si riempie di persone che urlano, scappano, piangono. Non è possibile ! Cosa sta succedendo ? Cosa è già successo ? Un’ora e mezzo di ritardo, stadio militarizzato con colpevole  e tardiva ostentazione di forza: non potevano pensarci prima a organizzare un servizio d’ordine minimamente decente per difendere le persone ? Nessuno si era accorto che gli hooligans erano arrivati da tre giorni e da tre giorni la città e i paesi vicini vivevano come in una specie di coprifuoco ? Inizia la partita. Tra la tragedia e la partita, gli appelli dei due capitani che invitano i tifosi a mantenere la calma e assicurano che la partita  si sarebbe giocata di lì a poco. Ciao, caro Scirea. Anche in quel momento hai dimostrato la tua integrità morale. Si gioca. Proviamo un po’ di sollievo. Non sappiamo ancora e pensiamo che se si gioca, forse, non è successo nulla di grave. Cosa sia veramente successo lo sapremo  più tardi dalla radio del pullman che ci porta all’aeroporto in una Bruxelles quasi deserta. Tristezza, non rabbia, ma tanta tristezza in tutti noi. Non si può morire per una partita di calcio ! Sabato scorso allo Juventus Stadium hanno ricordato in modo commovente e suggestivo tutte le persone che non ci sono più. Mi auguro che anche a Berlino, prima della finale tra Juve e Barcellona ci sia un momento per ricordare tutti. Mi piacerebbe che la Juventus chiedesse all’UEFA un minuto di raccoglimento. Il 29 Maggio per me è un giorno fatidico. Fino a tre anni fa il 29 Maggio era l’Heysel. Dal 2012 il 29 Maggio è anche il terremoto. Sono due date legate da un filo di smarrimento e di angoscia. Sono stati due tradimenti: il 29 Maggio 1985  il tradimento del calcio, del mio calcio, il 29 Maggio 2012 il tradimento della mia terra, l’Emilia, che credevamo immune dal terremoto e che invece ha fatto crollare tutte le nostre certezze. Trent’anni dal 29 Maggio 1985, tre anni dal 29 Maggio 2012: non posso e non voglio dimenticare !  Paola Poppi, Crevalcore (Bologna)

29 maggio 2015

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

... PAOLA POPPI ...

25 anni fa l'Heysel

di Paola Poppi

25 anni fa l’Heysel. C’ero anch’io. Non l’ho mai dimenticato. Non ho mai voluto dimenticare. Da 25 anni, ogni 29 Maggio, il pensiero torna lì e ogni 29 Maggio il pensiero tornerà lì, anno dopo anno. Ero nella curva opposta alla Z. Un caso. Per questo, come dico sempre, sono qui a raccontare. Ero partita da sola, in aereo, da Bologna nel tardo pomeriggio del 28. Non conoscevo nessuno. Sull’aereo ho conosciuto alcuni ragazzi, Roberto, Antonio, Gabriele, che subito mi hanno come "adottata". Mi sono stati vicini. E’ stato importante. L’unico ricordo bello di quelle due giornate. Al nostro arrivo a Bruxelles non capiamo bene perché ci trasportino in un albergo sul Mare del Nord. Sembra una sistemazione rimediata sul momento. Pazienza, non è quello il motivo per cui siamo lì. E’ già tardi, ma i ragazzi vogliono cenare. Usciamo dall’albergo a gruppi. C’è chi prende il taxi e va ad Ostenda. Al rientro racconterà di una città sotto "coprifuoco". Gli Hooligans sono lì da due giorni. Il taxista li lascerà a piedi poco prima dell’ingresso in città. Noi cerchiamo un ristorante vicino all’albergo. Il paese è deserto. Non c’è anima viva in giro. Ci siamo solo noi, un gruppo di juventini in cerca di un posto dove mangiare. Non ho dimenticato la porta chiusa a chiave del ristorante e il proprietario che in francese chiede se siamo Italiani o Inglesi. Quando rispondo che siamo Italiani, l’uomo apre la porta, poi la richiude in fretta alle nostre spalle. Non ho dimenticato gli hooligans ubriachi che alle 9 del mattino dopo cercavano un posto dove dormire. Stravolti, strafatti di birra. Saliamo sul pullman che ci porta a Bruxelles. Grande Place. Tifosi juventini e tifosi del Liverpool si scambiano le sciarpe. Cantano. E bevono birra, troppa birra. Il clima è disteso, quasi festoso. Noi quattro ci teniamo "alla larga", non si sa mai. Pranziamo in un ristorante greco, poi di nuovo sul pullman, verso lo stadio. Sorpresa. Brutta sorpresa: non è uno stadio da capitale europea. Speriamo bene ! Scendiamo dal pullman. Quanta gente ! Passano alcuni inglesi con casse di birra. Un addetto ci indica il nostro settore. Ci mettiamo in fila. Siamo in dieci, io e nove ragazzi. Mi fanno come da scudo, perché capiamo subito che c’è troppa gente e cerchiamo di non separarci. …Uno, due tre, quattro, cinque secondi e spariscono tutti. I miei piedi sono sollevati da terra. Roberto mi tiene stretta per un braccio e restiamo insieme solo noi due. Il tempo passa e non si va avanti. C’è movimento. La folla ondeggia. Si apre una specie di corridoio, ma si riempie subito. Capiamo perché: poliziotti a cavallo. Non ho dimenticato il cavallo a pochi centimetri da me e il poliziotto che smistava i tifosi sempre seduto sul suo cavallo. Son tutti matti ! Si può andare tra la folla con i cavalli ? Confido nell’intelligenza dell’animale, non in quella di chi ha dato quelle disposizioni. Sto ferma, immobile e tengo d’occhio il cavallo. E’ passata un’ora e mezza. Siamo bloccati. Alle 7, finalmente, siamo davanti alla porta d’ingresso, sembra quella di un pollaio. Apro la borsa per il controllo, ma l’addetto mi fa segno di andare avanti. Nessun controllo a nessuno. "Il peggio è passato" - penso. Ora siamo dentro. C’è il sole. Gradinate in terra battuta. Non è uno stadio da capitale europea. …Uno, due, tre piccoli razzi volano da una parte all’altra nelle curva opposta, poi… Il finimondo. Campo da gioco pieno di gente, poliziotti a cavallo che respingono gli "invasori", tentativo di "spedizione punitiva", per fortuna fallito, di un gruppo di juventini scalmanati. Sembro dentro a un film. Non ho dimenticato il ragazzo toscano, scappato in tempo dalla curva Z e finito in mezzo a noi che sconvolto diceva: – Vogliono ammazzarci tutti ! Non ho dimenticato quel gruppo di ragazzi che voleva uscire dallo stadio, ma che è stato costretto a tornare indietro, perché le porte erano chiuse. Chiusi dentro, come in trappola. E adesso ? Cosa facciamo ? Stiamo lì. Aspettiamo. Pensiamo sia successo qualcosa di grave, ma non possiamo immaginare una tale tragedia. Chissà a casa, mia madre e le mie sorelle che non volevano che io partissi, mio padre che non è venuto con me, come a Basilea l’anno prima, per paura dell’aereo. Non c’erano mica i telefonini per dire che stavamo bene ! Non ho dimenticato i poliziotti in tenuta anti-sommossa arrivati con grave ritardo che hanno circondato il campo da gioco. Non ho dimenticato la voce di Scirea che invitava alla calma. Povero caro Scirea. E’ tardi. Si gioca ? Giocano. La partita. Il giro di campo con la coppa. Tutto per l’ordine pubblico. Tutto per evitare una tragedia più grande. Alla fine lo stadio si svuota. Non ci sono più hooligans sugli spalti. Usciamo: non c’è un poliziotto in giro. Raggiungiamo il pullman che ci deve riportare all’aeroporto e lì sappiamo cosa è successo. 39 morti ! Non si può ! Non si può morire per una partita di calcio ! Non si può morire così ! Non ho dimenticato niente di quel 29 Maggio. E non ho dimenticato le immagini viste il giorno dopo alla TV. Ho sempre pensato e lo penso anche oggi che se non si fosse giocata la partita nessuno sarebbe uscito vivo da quello stadio, ma ho anche sempre pensato che la Juventus dovesse rinunciare alla coppa. Fa ancora in tempo. "Quando cade l’acrobata, entrano i clown" ha detto Michel Platini allora, scrive oggi Walter Veltroni. E’ un bel libro. Dipinge in modo autentico e commosso quel giorno. Leggerlo aiuta a ricordare le persone morte all’Heysel. Leggerlo aiuta a non dimenticare. Un abbraccio ai loro famigliari. Paola Poppi, Crevalcore (Bologna)

29 Maggio 2010

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

CLAUDIO POZZI

Una bottiglia frantumata e tanto sangue: la strage iniziò così

Il racconto di Claudio Pozzi che si trovava nel settore Z dello stadio Heysel, quello travolto dall'ondata di hooligans che lasciò a terra 39 morti, nella tragica finale di Coppa Campioni 1985.

Quel 29 maggio del 1985 avevo 30 anni e da 25 anni le immagini che ho visto sono impresse indelebilmente nella mia memoria. Eravamo partiti con un pullman da Busto Arsizio con il Club Amici della Juve; in realtà avevamo perso le speranze qualche giorno prima quando ci dissero che i biglietti erano finiti, ma poi si liberarono alcuni posti nel maledetto settore Z e riuscimmo a partire. Dopo 15 ore di viaggio arrivammo nei pressi dello stadio attorno alle 16 e la prima cosa che notai erano gruppi di inglesi sdraiati nei prati attorno allo stadio già ubriachi. L'emozione per la partita, però, non ci fece soffermare troppo su quelle immagini: volevamo vedere la nostra Juve alzare la coppa e nulla più. L'umore era alle stelle, la giornata bella e noi juventini eravamo in tantissimi. Quando ci avvicinammo allo stadio ricordo che la struttura dell'Heysel mi impressionò per quanto appariva vecchia e poco adatta ad una finale di Coppa dei Campioni. Si entrava da grandi portoni che immettevano alle scale, una volta percorse le quali si sbucava nella parte più alta dell'anello; da lì si doveva ridiscendere i gradoni per arrivare al proprio posto. Ero accompagnato da quattro amici e insieme ci siamo messi uno accanto all'altro: erano le 18 circa. Quella è l'ultima immagine normale che ho nella memoria, tutto il resto non aveva più niente a che fare con una partita di calcio. Attorno alle 19 lo stadio cominciò a riempirsi e dal nostro settore vedevamo i settori dedicati ai tifosi del Liverpool pieni di hooligans scatenati che avevano cominciato a lanciare cori e slogan contro gli italiani. Notai subito che la rete che divideva i settori X e Y, dedicati agli inglesi, era del tutto inadeguata a contenere una delle tifoserie più agitate del mondo. Poi c'era un cordone di agenti più simili a vigili urbani che ai nostri poliziotti in tenuta anti-sommossa e infine noi del settore Z, la parte estrema della curva. Alla nostra destra c'era un muro - quello che poi crollò - che ci divideva dallo spazio vuoto prima della tribuna. I primi lanci di bottiglie cominciarono a metterci sul "chi va là": eravamo a circa 50 metri in linea d'aria e la maggior parte degli oggetti si fermava prima di noi, ma realizzai che il peggio stava per arrivare quando una di queste bottiglie si frantumò sulla faccia di un tifoso alle nostre spalle. Sentimmo il suo urlo di dolore, ci voltammo e il sangue gli aveva già ricoperto il viso. La folla cominciò a spingere in quel momento. I tifosi inglesi saltarono la rete, superarono senza tanti problemi il cordone di polizia, invasero il settore Z e solo pochi tifosi juventini affrontarono questa orda barbara.

La maggior parte, migliaia di persone, cominciò ad indietreggiare verso di noi e la pressione si faceva sempre più forte. In un batter d'occhio persi tre del mio gruppetto e rimasi solo con un altro ragazzo. Ci ritrovammo a ridosso di quel maledetto muro e con grande fatica riuscii a salirci sopra e a saltare giù, sotto di me c'erano 4-5 metri di vuoto. Non so nemmeno se la decisione di saltare la presi io o se fu la spinta di quella moltitudine di persone a farmi volare in basso. Anche il mio amico saltò ma si fece male ad un piede; nulla di grave per fortuna rispetto a quello che capitò a centinaia di altri tifosi. Poco dopo eravamo fuori dallo stadio e non avevamo ancora realizzato cosa fosse successo. Sentivamo urlare, erano grida di sofferenza, lamenti terribili. Ci allontanammo di qualche metro per cercare di capire cosa stesse succedendo e soprattutto cercavamo gli altri tre amici che avevamo perso nella calca. Dopo un po' cominciarono a uscire i primi feriti, sdraiati su transenne adibite a barelle o sui cartelloni pubblicitari usati allo stesso modo. Mi misi le mani nei capelli: prima uno, poi due, tre, quattro persone. Il viavai non finiva più. Sempre più preoccupati per i nostri amici rientrammo nello stadio perché era chiaro che le regole erano saltate, infatti nessuno ci controllò all'ingresso. Avevamo saputo che all'altoparlante annunciavano i nomi delle persone che si erano perse e così riuscimmo a far annunciare quelli dei nostri amici. Li ritrovammo nei pressi del nostro pullman e ci dissero che avevano camminato sui corpi di altre persone; in quel momento si fermò un'auto scura dalla quale l'uomo al volante ci chiese cosa stesse succedendo, dentro quell'auto scorgemmo la figura dell'avvocato Gianni Agnelli: "Vediamo uscire continuamente feriti - dissi all'autista - ci sono stati scontri con i tifosi inglesi". L'auto partì e sparì dietro lo stadio. Avevo perso le scarpe, me ne resi conto solo in quel momento. Rientrammo una terza volta nello stadio, sempre senza essere controllati e guardammo il secondo tempo di quella partita. Solo alla fine del match la percezione di quello che era successo si fece concreta e violenta: pensavamo ci fossero stati solo feriti ma dalla televisione dell'autista del pullman apprendemmo che c'erano state decine di morti. Il viaggio di ritorno fu silenzioso. Quella sera avevamo vinto la coppa ma avevamo perso molto di più: il senso di quello che avevamo fatto era sparito, non sapevamo come reagire di fronte ad una simile tragedia. Tornato a casa, a Oggiona Santo Stefano, tutti mi chiedevano di cosa avevo visto e per mesi quelle immagini mi perseguitarono; ancora oggi provo un profondo senso di smarrimento davanti ad una simile tragedia che non aveva senso allora quanto oggi, 25 anni dopo.

28 maggio 2010

Fonte: Varesenews.it

A-Z
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