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Bruxelles, 30 anni dopo
di Matteo Lucii
Bruxelles,
30 anni dopo. Lo stadio è vuoto, ed è molto diverso da allora.
Non fa paura. Era l'Heysel, adesso gli hanno dato un nome
regale. Sembra più piccolo, forse lo è. Ricerco i posti di
allora: l'entrata angusta, le gradinate basse, le reti da
pollaio, il muretto. È tutto cambiato. Non fa paura. Passeggio
sul prato, sulla pista di atletica, guardo il settore Z. Non fa
paura. Entro dal cancello giallo, salgo gli scalini e ritrovo il
punto, quasi esatto, dove eravamo. Guardo il settore Y, quello
degli inglesi, vuoto e pulito. Non fa paura. Mi siedo su un
seggiolino che allora non c'era, cercando l'amico Andrea,
conosciuto solo poche ore prima. Anche lui non c'è. Respiro
forte, guardo il prato, sembra più vicino, e forse lo è. Non fa
paura. Chiudo gli occhi, torno ragazzino con un balzo indietro
nel tempo. Adesso Andrea c'è. Ed ho paura. Sento i cori
minacciosi degli inglesi, la tensione di chi chiede di
allontanarsi dalla rete di divisione, i fischi degli altri
settori ai primi striscioni incendiati. Vedo arrivare le pietre,
vedo volare i razzi ad alzo zero, vedo persone colpite cadere a
terra senza reazione. Vedo le reti che oscillano, i primi che
scavalcano, gli altri che lanciano bottiglie. Sento tremare la
curva, come scossa da un esercito di cavalli al galoppo, sento
le urla di spavento e il terreno che cede sotto ai miei piedi.
Vedo il tabellone della curva opposta, dalla mia nuova
posizione, sdraiato e schiacciato da corpi pesanti di gente
sconosciuta. Sento i lamenti, le richieste di aiuto, l'agonia di
chi pensa di non farcela e lo strazio di chi si è reso conto
dell'accaduto. Vedo gli inglesi che ripiegano, lasciandosi
dietro morti e feriti, incapaci di qualsiasi umanità. Sento il
respiro che si strozza, una volta, due volte, mentre sul
tabellone di fronte vedo me, da piccolo, su una piccola
bicicletta con le ruotine.

Sento forze insospettate che mi strappano dal punto di non
ritorno, e gambe tremanti che mi portano nel parco. Mi lascio
cadere in ginocchio. Sono vivo. Riapro gli occhi. Sono vivo.
Possiamo cominciare, non ho più paura...
C'è un particolare che mi ha colpito, rivedendo
il
video. Un particolare che non avevo notato le prime
volte, preso dalle emozioni delle immagini. E' la
didascalia sotto il mio nome. Sopravvissuto. Eppure ero
andato, ragazzino, ad una festa, ad una giornata di
sport, non in guerra. E nemmeno avrei dovuto sentirmi
reduce da incidente o da un disastro naturale. Invece è
proprio così: sono un sopravvissuto. Ma a cosa ?
Camminando in quello stadio, guardando quello che non
poteva più essere, ho realizzato che trent’anni,
purtroppo, sono passati invano. E che ci sarà, prima o
poi, un nuovo Heysel. Diverso nelle forme, negli
accadimenti, nelle dinamiche, ma ci sarà. Perché è vero
che le colpe, quel giorno, le ebbero in molti: dagli
hooligans allo stadio fatiscente fino alla polizia
inadempiente e pressapochista. Ma la colpa principale,
che ci piaccia o no, ce l'abbiamo noi. Nessuno escluso.
Ce l'abbiamo quando esponiamo striscioni vergognosi
sulle disgrazie degli avversari, come se i morti non
fossero di tutti. Ce l'abbiamo quando cantiamo a
squarciagola cori infami sui tifosi con i colori diversi
dai nostri. Ce l'abbiamo quando quei cori non li
fischiamo. Ce l'abbiamo quando stampiamo le magliette
con scritto -39, e quando non ci rifiutiamo di
stamparle. Ce l'abbiamo quando pensiamo di essere
simpatici a firmarsi #juvemerda oppure #amoliverpool. Ce
l'abbiamo quando paragoniamo i fiorentini agli ebrei,
quando vorremmo una nuova Superga. Ce l'abbiamo quando
smettiamo di incitare i nostri colori per offendere
quelli altrui. Ce l'abbiamo allo stadio, al bar, davanti
alla televisione. Ce l'abbiamo quando non riusciamo a
capire che si può essere sportivi rimanendo tifosi. Ce
l'abbiamo perché non abbiamo capito che a volte, per
caso o per fortuna, a tutto questo si può sopravvivere,
ma che a volte, per fato o per disgrazia, può non
capitarci. E in quel momento, sarà troppo tardi. Per
colpa nostra. #39respect
29 maggio 2015
Fonte: Matteo Lucii (Pagina
Facebook)
©
Icona: Static.vecteezy.com
© Fotografie:
GETTY IMAGES
(Not
for commercial use)
- Repubblica.it

Heysel La notte del calcio 1985-2015
Questo
Video-Documentario di Emanuela Audisio è stato
premiato
ad Abu Dhabi nel dicembre 2015 dall'Aips, l'associazione
internazionale della stampa sportiva piazzandosi al secondo
posto di categoria allo Sport Media Pearl Awards (Oscar
Mondiale del Giornalismo).
In collaborazione con 3D Produzioni - Con la voce
di Michela Cescon - Montaggio Claudio Poli - Interviste
di Francesco Fasiolo e Andrea Sorrentino - Consulenza Angelo
Carotenuto - Sigla e grafica Cristina Poggioli - Riprese
Giacomo Armani, Claudio Poli, Tancredi Reimitz - Produzione
Gloria Bogi - Voce maschile Alarico Salaroli - Doppiaggio
First Line Service.
(AVVISO: IMMAGINI MOLTO
FORTI)
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Heysel, 30 anni di tragedia
Quella coppa maledetta nel docufilm
di Repubblica
di Emanuela Audisio
Juventus-Liverpool 1985, la partita
più attesa finisce con 39 morti. "La notte del calcio": da Tardelli
a Cabrini il drammatico racconto della finale.
Nessuno
ha rimosso l'Heysel. Anche se tutti cercano di dimenticarlo. Soprattutto
quelli che l’hanno vissuto, che erano lì, e che ancora lo soffrono:
tifosi, giocatori, giornalisti, telecronisti, dirigenti. Il racconto
della partita che finì prima di iniziare in un questo documentario
che torna a Bruxelles e ripercorre le ore drammatiche di quel 29
maggio 85. Non solo la vigilia arruffata, non solo il crollo del
muro nel settore Z, ma anche il dopo: il rientro delle bare, lo
scambio di cadaveri, le polemiche, il processo, ma anche le sentenze,
che danno solo un’ammenda a chi organizzò male l’evento. Niente
vie di fuga, porte strette, almeno dieci uscite di sicurezza bloccate
da lucchetti di cui nessuno trovò le chiavi, tre cancellate metalliche
trasformate in trappola mortale tanto che i vigili del fuoco dovettero
spezzare le catene con le cesoie per far passare i soccorsi. Parlano
i testimoni di quella drammatica finale di Coppa Campioni. Paolo
Rossi: "Non si sarebbe dovuto giocare. Non c’è da essere fieri di
quella Coppa. Non rifarei quel giro di campo. 39 morti meritano
rispetto". Marco Tardelli: "L’Inghilterra dopo l’Heysel ha fatto
sparire gli hooligans, da noi invece gli ultrà
ancora
comandano. Il nostro calcio urla tolleranza zero, ma permette tutto".
Antonio Cabrini: "Abbiamo giocato quella partita solo per motivi
di ordine pubblico. Ci avevano detto che c’era un solo morto. Siamo
responsabili perché non abbiamo avuto subito le dimensioni di quella
tragedia, ma siamo stati anche noi vittime. Non abbiamo perso la
vita, ma ci è stato rovinato un momento
sportivo che poteva essere
bello, il traguardo di una vita, e che invece ora è un ricordo doloroso
e senza gioia". Bruno Pizzul, telecronista Rai di quella finale.
"Per me è stata una serata di imbarazzo e di difficoltà. Alcuni
ragazzi mi chiesero di avvisare i loro genitori, ma io non potevo
farlo, per riguardo alle altre famiglie. E ancora mi rammarico di
non essere stato più severo con chi festeggiava". Parlano anche
i sopravvissuti. Matteo Lucii, allora aveva poco più di 16 anni:
"L’Heysel era uno stadio inadeguato. Mi sono ritrovato schiacciato
da due file di persone. Non so come ho trovato la forza per rialzarmi,
sopra avevo un peso di 250 chili. Dopo ho cercato un telefono, ma
nessuno mi permetteva di chiamare". E Antonio Conti, papà di Giusy,
17enne che lì perse la vita. "Le ho lasciato la mano perché non
volevo trascinarla come me, quando mi hanno travolto. Ho perso conoscenza
e quando ho ripreso i sensi lei non c’era più. Era sotto una coperta,
l’ho riconosciuta dalle scarpette". Heysel. La notte del calcio.
1985-2015.
26 Maggio 2015
Fonte: La Repubblica
(Testo
© Fotografie)

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