24 maggio 1964: la tragedia
dell’Estadio Nacional de Lima
Ma quale mostro abbiamo partorito ?
Quale male ? Questa creatura ormai è
assolutamente senza controllo. Maledetti
gli inglesi che in quel di Sheffield
inventarono il calcio, partorendo un
qualcosa che ben presto scapperà di mano
a tutti quanti noi, ormai completamente
incapaci di domarlo e dominarlo.
Maledetti gli argentini, un po’ perché
gli argentini c’entrano sempre, che lo
vogliate o no, ed un po’ perché mai si
fanno gli affari loro. Ma soprattutto
perché questo sport qua, loro, lo hanno
portato in Sudamerica. E poco importa di
chi sia stata la colpa: se sia stato il
Buenos Aires F.C., il club più antico
del Sudamerica, ormai scomparso, nel
lontano 1867 (sì perché c’è stato un
periodo in cui tutta Buenos Aires era
racchiusa sotto due soli colori, il blu
ed il bianco), oppure uno tra il
Gimnasia La Plata od il Quilmes, in
eterna lotta per decidere chi sia il
club esistente più vecchio d’Argentina,
visto che risalgono al 1887 entrambe ed
entrambe rivendicano questo primato che
non prevede medaglie. Questo adesso, in
questo inferno, però, proprio non ha
importanza. Maledetti i brasiliani e la
loro allegria, quei maledetti danzatori
di samba che di questo sport ne hanno
fatto una religione terrena,
un’esperienza mistica. Un rituale sacro.
Maledetti. Maledetti gli uruguaiani, i
primi a creare il mito in questo
continente ed a vincere un mondiale, ed
anche perché sono coloro che oggi hanno
mandato questo incompetente ad
arbitrare, tale Angel Eduardo Pazos.
Maledetto tutto quanto il Sudamerica,
con la sua pazzia. Il suo calore. Il suo
carattere. Maledetto il fùtbol, non più
sport ormai, ma solo e soltanto un
traboccante delirio pagano. Dio abbia
pietà, se proprio deve, solo del Perù.
Del mio Perù.
Sembra impossibile che Chico, il ragazzo
della storia, appena un paio d’ore prima
felice e sorridente, libero e
spensierato per le vie del suo barrio,
anche se sarebbe più giusto dire "Distrito",
perché è così che chiamano i quartieri a
Lima, "Distritos", di "San Miguel",
adesso, stia pensando tutto questo. A
dieci anni. In mezzo all’inferno. In
mezzo ad una marea di persone deliranti,
urlanti, feroci, eppure, così
incredibilmente solo. 24 maggio 1964.
Ore 12:30. Chico ha appena finito di
pranzare, si alza dal tavolo di casa sua
e come ogni santissimo giorno, che cada
una pioggia torrenziale o che il sole
più rovente cuocia letteralmente la
terrena piena di polvere, apre la porta
di casa sua, saluta il suo cane Arajo e
corre all’angolo di "Calle 9" e "Calle
12", proprio a ridosso del "Parque de la
Leyendas", il parco zoologico che viene
inaugurato proprio in quei giorni, per
far parte di quei venti bambini che ogni
santissimo giorno si sfidano all’ultimo
sangue con quella "pelota" di stracci.
Chico è felice di tutto questo.
Felicissimo. Quello poi è un giorno
particolare. Suo padre Alberto, dopo
enormi sacrifici, sì perché un manovale,
in Perù, negli anni ’60, non è che
guadagnasse molto bene, e neanche adesso
per dire la verità, è riuscito ad
acquistare due biglietti, uno per lui,
uno proprio per Chico, per andare a
vedere giocare il Perù. A dire la verità
Chico avrebbe preferito assistere ad una
partita dell’"Alianza de Lima", la
squadra del suo cuore e quella della sua
famiglia, quella fantastica formazione
che si veste di strisce bianche e blu
verticali tutto l’anno, tranne che ad
ottobre, quando, in onore del "Senor de
los Milagros", il patrono della squadra,
l’Alianza si veste completamente di
viola. Solo in Sudamerica. I prezzi per
esaudire questo desiderio sono però
eccessivi, ed il padre Alberto nel caso
sarebbe costretto a portare con sé anche
gli altri quattro suoi figli, tifosi
sfegatati del colosso peruviano ma non
attratti dall’idea di vedere la
nazionale. Sarebbe una spesa troppo
importante per la sua famiglia. Il Perù,
per fortuna, interessa solo a Chico,
contento di entrare per la prima volta
ad uno stadio, anche se non si tratta
dell’Alianza. Della sua Alianza. Ma non
importa. Oggi, per la prima volta,
entrerà dentro una stadio vero, con un
campo verde vero, e non di quelli solo
visti in qualche rara foto dal barbiere
ogni qual volta accompagna il nonno, o
di quelli solo immaginati in mezzo a
tutte quella polvere di "Calle 9". No
signore. Oggi sarà tutto fantasticamente
reale. Chico non sta nella pelle, tanto
che "obbliga" il padre a presentarsi
allo stadio quasi due ore prima della
partita.

Lo stadio in questione è "L’Estadio
Nacional de Lima", più comunemente
chiamato in città "El Coloso de Josè
Diaz", lo stadio che di lì a qualche ora
diventerà teatro della più grande
tragedia calcistica della storia. La
partita in programma è Perù U21 contro
Argentina U21, match valevole per le
qualificazioni alle olimpiadi di Tokyo
che si terranno il mese dopo proprio in
Giappone. L’Argentina parte favorita.
Gli argentini partono sempre favoriti. È
nel loro DNA. Che poi non arrivino quasi
mai al traguardo, salvo un breve periodo
di tempo quando sul campo, con la "camiseta
albiceleste", scorrazzava un certo Diego
Armando Maradona, beh questa è un’altra
storia. All’ "albiceleste" quel giorno a
Lima bastava anche un punto per
qualificarsi. Al Perù serve invece solo
e soltanto la vittoria. L’impresa. Il
clima, al "Coloso" è rovente già molto
prima dell’inizio del match, non tanto
per il calore che i peruviani mettono
nell’incitare la loro squadra. No no. Il
clima è rovente anche perché quel
giorno, alla partita, in uno stadio che
può contenere sì o no 50.000 persone
circa, in realtà se ne presentano
68.000. Vi potete immaginare l’ambiente.
Una polveriera a cielo aperto. Basta una
minima scintilla. Chico e suo padre
prendono posto nel settore
immediatamente alla sinistra del campo,
dietro la porta che nel primo tempo
assisterà agli attacchi degli argentini.
Fanno fatica a farsi spazio tra la
folla. La calca è disumana. Un’ora prima
del calcio di inizio, se un alieno si
fosse voluto divertire ed avesse voluto
far cadere uno spillo su dal cielo verso
lo stadio "Nacional", questo non avrebbe
mai toccato terra, vista la densità di
persone concentrate quel giorno,
specialmente in rapporto allo spazio
effettivo. È il Sudamerica. Ed il
Sudamerica, specialmente in quegli anni
lì, è un mondo a sé. Mai vista una cosa
del genere prima di allora. Anzi sì. Una
volta sì a dire la verità. C’è stato un
giorno in cui in uno stadio sono state
stivate molte più persone di quelle che
potevano entrare. Quel giorno fu
quattordici anni prima ed è passato alla
storia come "Maracanazo". Una tragedia
anche quella. Sportiva e non solo… No
no, maledetti gli inglesi e quel mostro
che ormai vive di vita propria. Il
calcio. Non è più controllabile nella
mente di ognuno di noi. Non lo si può
più affermare prima di andare a letto e
metterlo in un cassetto. No. Lui, ormai,
è parte di noi. Il match, intanto al "Nacional",
inizia.

I peruviani partono forte come
da copione, ma gli argentini, nettamente
superiori sia tecnicamente sia
tatticamente, reggono senza troppi
problemi. Il primo tempo finisce a reti
bianche. Si va negli spogliatoi sul
risultato di 0-0. Lo stadio freme. È una
pentola che ha perso la sua valvola di
sfogo. Vuole un gol. Chico ricorderà
anni dopo che ogni volta che il Perù
attaccava durante la prima frazione di
gioco, il boato del pubblico era così
forte da comprimergli il petto come se
si trovasse sopra di un razzo.
Spaventoso. La partita riprende. La
cantilena però è praticamente la stessa
dei primi quarantacinque minuti: il Perù
in attacco col cuore, Argentina ordinata
e tranquilla che parte di rimessa. Quasi
neanche si accorge di quegli undici
ragazzi allo sbaraglio e senza logica
calcistica che non sanno bene neanche
loro cosa stanno cercando. "Ma questi
dove hanno imparato a giocare ?"
L’Argentina controlla. L’Argentina
controlla sempre. Anzi riesce
addirittura a trovare il vantaggio dopo
un quarto d’ora dal secondo tempo con Nèstor Manfredi, giocatore del Rosario
Central che francamente non avrà una
superba carriera calcistica, ma che quel
giorno, da azione di angolo, si gira e
lascia partire un bolide di destro sotto
la traversa peruviana. 0-1. Chico
racconterà in seguito che per un minuto
abbondante al "Coloso" non si sentì
volare neanche una mosca. Si potevano
percepire soltanto i respiri dei
calciatori dell’Argentina che tornavano
a centrocampo dopo la rete. Contenti, ma
neanche più di tanto. La partita
riprende e va avanti ed il Perù tenta
l’impresa, ma coi piedi, diciamocelo
francamente, sono quel che sono, fino a
che, a cinque minuti dalla fine,
l’attaccante peruviano Victor Lobatôn,
la mette. 1-1. Un gol di una bruttezza
inaudita: brutto, di rapina, molto
fortunoso, che sembra quasi uscito dalle
tattiche del peggior allenatore del
mondo. Ma questo ai peruviani proprio
non interessa. Adesso il Perù ci crede,
ci crede davvero, se non che, l’arbitro,
l’uruguaiano che abbiamo citato prima,
Angel Eduardo Pazos, inspiegabilmente,
anche se in Sudamerica tutto sembra
inspiegabile ma realtà tutto ha una sua
logica ben definita, fidatevi, annulla
la rete. Apriti cielo. È la fine del
mondo. La scintilla è arrivata. La
polveriera è esplosa. Nel giro di pochi
secondi, la storia del calcio
sudamericano cambierà per sempre. Un
uomo di più di cento chili, di cui non
si è mai conosciuta realmente
l’identità, ma che passerà alla storia
con l’appellativo di "El Negro Bomba",
scavalca le recinzioni, entra in campo e
tenta di frantumare l’arbitro con le sue
mani. "Hijo de puta. Tu es un hijo de
puta", urla inveendo contro di lui.
Appena la polizia si accorge della sua
invasione, lo placca, scioglie i cani ed
inizia a picchiarlo selvaggiamente con i
manganelli. Sugli spalti succede l’
apocalisse. Nessuno gradisce il
trattamento riservato al "Negro Bomba".
Molti altri tifosi invadono il campo,
uno addirittura con un collo di
bottiglia rotto e viene fermato ad un
paio di metri dall’arbitro.

L’uruguaiano
in completo nero fischia la fine della
partita e scappa negli spogliatoi,
intuendo ciò che stava per accadere,
seguito dalle due squadre. Dagli spalti
vola di tutto verso il campo. La polizia
risponde con i gas lacrimogeni. Il
pubblico, nel disperato tentativo di
sopravvivere, si lancia verso l’alto per
cercare aria respirabile, ma ormai il
gas è arrivato anche qui. Le scene a cui
si assiste sono allucinanti. Nel caos
più completo, con gli occhi devastati
dai lacrimogeni, le vie respiratorie
completamente bloccate ed una visibilità
pari a zero, su quegli spalti succede
letteralmente di tutto. Le donne vengono
usate come scudo. I bambini vengono
calpestati come neanche si fa con le
bestie. Gli amici denudati per usare i
loro vestiti come filtri antigas. Il
pubblico che prima era salito fino agli
ultimi posti del Nacional, torna giù in
massa schiacciando coloro che tentavano
di salire. Chico ricorda benissimo quei
momenti "Sono morto e poi risorto. Non
so perché sono qua, oggi, a raccontarvi
questa storia. Non so perché Dio ha
scelto me. So che ci deve essere un
prescelto. C’è sempre un prescelto.
Forse non è stato il Signore a
scegliermi, ma in cambio ha voluto il
sacrificio di mio padre. Mi prese, mi
portò in un angolo dello stadio e mi
coprì col suo corpo filtrando l’aria e
prendendosi i calci al posto mio. Ogni
figlio ringrazia il padre per avergli
dato la vita. Io lo ringrazio per
avermela salvata. Non lo scorderò mai.
Sarà per sempre il mio eroe".
Quel giorno, quel 24 maggio 1964, all’Estadio
Nacional de Lima morirono più di 320
persone. Qualcuno parla di 318, altri di
322. Neanche delle guerre, a volte,
hanno causato così tante vittime. Come
se non bastasse, nell’immediato post
partita, e nei giorni seguenti, parte
una vera e propria caccia all’uomo:
molti agenti di polizia vengono
catturati e linciati. Per trenta giorni
il governo del Perù sospende le libertà
costituzionali e attua il coprifuoco. Fu
la fine del mondo. L’immenso filosofo
tedesco Friederich Nietzsche diceva
"Tutte le grandi cose devono indossare
maschere mostruose e terrificanti per
potersi imprimere nel cuore
dell’umanità". Ecco, molti altri mostri
hanno invaso il calcio in seguito, con
nomi ben più terribili e famosi:
Hillsborough, Heysel, Bredford, Lenin, o
Luzniki se preferite (la tragedia russa
del 1982 che il governo russo ha sempre
cercato di insabbiare) solo per citarne
alcuni, ma nessuno, e ripeto nessuno,
prima di quel giorno, a parte Ibrox nel
1902, aveva deciso di manifestarsi nel
mondo del fùtbol così, e forse,
speriamo, non lo farà neanche mai più.
Quel giorno, squarciò per sempre il
mondo del calcio latino, quel giorno
Chico, conosce contemporaneamente il più
grande sorriso ed il più grande dolore
della sua vita. Si perché quel giorno,
quel 24 maggio 1964 cambiò per sempre la
sua vita e quella di migliaia di
persone, oggi dimenticate. Mai esiste
nella mente degli amanti del calcio.
Sparite per sempre come un pezzo di
carta argentata sospinta dal vento.
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E
Dio, quasi come se si fosse in seguito
sentito in colpa per quella tragedia
senza precedenti, come per scusarsi per
quel sangue innocente versato
assolutamente senza un senso quel
giorno, per colpa di quella creatura
ormai senza controllo, decise di
rimediare il più possibile e di rivedere
la fama del 24 di maggio. In parte
sembra esserci riuscito. In questo
giorno, infatti, nel 2000, fu disputato
uno dei più bei "Superclasicos" di
sempre, con un 3-0 del Boca leggendario
nei quarti di finale di Libertadores,
impreziosito da un "tunnel" di Juan
Roman Riquelme a Yepes da antologia del
calcio e da un gol di Palermo nel
recupero da brividi, tornato dopo un
lunghissimo stop , che diede la
qualificazione agli "xeneizes". Sempre
in questo giorno, nel 2014, si disputerà
il primo derby storico, con due squadre
della stessa città, in finale di
Champions League tra Atletico Madrid e
Real Madrid. Come se non bastasse,
sempre il 24 maggio, del 1966, nascerà
un uomo di nome Eric Cantona. La
reincarnazione del "Dio calcistico"’.
Una leggenda. Uno dei più forti e
controversi calciatori di sempre. Il
cielo ha cercato proprio un rimedio a
quella tragedia ormai passata. Lo ha
cercato fortemente, e forse, un po’ c’è
riuscito. Sì, perché quel 24 maggio del
1966, a due anni esatti dalla strage
dell’ "Estadio Nacional de Lima", cambiò
anch’esso la storia del football e la
vita di molte altre persone. Due su
tutte: quella dell’intero popolo del
Manchester United, visto come un unico
organismo, che conoscerà colui che
eleggeranno in seguito "Calciatore del
Secolo", e quella di Matthew Simmons,
fino alle 9:00 pm ora inglese, del 25
gennaio 1995 un anonimo tifoso del
Crystal Palace, sud di Londra. Ma
questa, forse, è un’altra storia…
24 maggio 2014
Fonte:
Diotifaboca.wordpress.com
Fonte Fotografia Bambino:
Pensarecamminando.com
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