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L'Heysel e la coppa maledetta "Ma quella sera si doveva giocare"

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO-NOVEMBRE 2003

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ARTICOLI STAMPA e WEB DICEMBRE 2003

Tu dici "Heysel"…

29/05/1985 Juve-Liverpool Stadio "Heysel" Bruxelles

L'Heysel e la coppa maledetta

"Ma quella sera si doveva giocare"

di Maurizio Crosetti

La Juventus si avvicinò alla finale di Bruxelles ovattata in un'atmosfera svizzera. Sette giorni di ritiro a Ginevra, gli allenamenti su un prato che sembrava dipinto col pennarello tanto il verde era netto e nitido, e ogni filo d'erba sembrava fatto a mano. Un mattino arrivò una comunicazione: il principe Emanuele Filiberto avrebbe tanto voluto salutare i giocatori. Il principe era un bambino biondo, rispetto a oggi non viaggiava, non parlava, non guidava moto d'acqua, non pubblicizzava cetrioli e nessun comico lo imitava. Ma il contesto parve ugualmente buffo. Calciatori, dirigenti e giornalisti vennero caricati sui torpedoni e condotti alla residenza dei Savoia, dove li attendeva un bambino con zazzera pettinata da un lato e la giacca blu abbottonata fino al colletto alla coreana. Tutti gli strinsero la mano, in fila, una manina bianca e fredda. Alla fine, un funzionario della Real Casa consegnò a tutti i presenti un dono prezioso: la fotografia autografa del bambinello. L'aria era fresca e dolce. Attorno al lago di Ginevra piroettavano le papere, e quello era più o meno il clima mentale della Juventus: gioiosa, consapevole, rasserenata, niente a che vedere con le due lunghissime vigilie che precedettero le sconfitte di Belgrado ed Atene. "Il Liverpool era forte, ma noi sapevamo di poterlo battere", ricorda Platini. "Ci eravamo già riusciti a Gennaio, al Comunale di Torino, quando si giocò col pallone rosso dopo un'incredibile nevicata. Boniek fu magnifico, quella sera. Due a zero per noi e doppietta di Zibì, così vincemmo la Supercoppa". Alle dieci di mattina del 29 maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano, molti dormivano usando come cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le bottiglie scolate venivano lanciate in terra come bombe a mano, oppure in aria, per gioco. "Prima di mezzogiorno facemmo il sopralluogo allo stadio e ci mettemmo le mani nei capelli: era vecchio, decrepito, e pareva un cantiere. C'erano legni dappertutto, sembravano clave", ricorda Giampiero Boniperti. Non è vero che lui abbia pensato solo alla coppa, alla vittoria, alla bacheca. "Io li ho visti i morti, tutti in fila all'obitorio come in guerra. Me li ricordo i Casula, papà e figlio, uno vicino all'altro. Me li ricordo tutti. E non volevo giocare: mi dissero che non si poteva, che altrimenti sarebbe stato un disastro anche peggiore". Il cielo dietro il settore Z era color aranciata, e pareva il riverbero del rosso delle bandiere inglesi, delle maglie, delle canotte, delle pitture sui volti stralunati. Alle 7 di sera si stava benissimo, c'era un fresco primaverile. La prima onda sembrò quasi un'illusione ottica, come se L'Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse agitando. I rossi si spostavano verso i bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale. E nell'aria volavano clave, aste e persino qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato di rimuovere. "Ci mettemmo un po' di tempo a capire cosa stesse succedendo: all'inizio sembravano solo spintoni", dice Boniperti. Invece Boniek la ricorda così: "Eravamo negli spogliatoi, a un certo punto arrivarono notizie confuse, di scontri tra la folla, però nessuno parlò di morti. Davvero non ci fu l'esatta percezione della tragedia, e in quel momento sarebbe stato impossibile averla". La seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dal Y), e le persone si rotolarono addosso. Tutti morirono per schiacciamento, soffocando, calpestati. "Ci sono dei morti" fu la prima frase che cominciò a circolare in tribuna stampa. Allo stadio arrivò l'Avvocato Agnelli: fermarono l'auto sotto la tribuna, gli dissero cos'era successo, lui tornò in macchina e ripartì. Invece suo figlio Edoardo era rimasto sul prato, come inebetito. "Non riuscivamo a distoglierlo dall'orrore, alla fine l'ho fatto rientrare negli spogliatoi urlando di non muoversi di lì", ricorda Boniperti. Poi si udì dall'altoparlante una specie di sospiro. La voce di Gaetano Scirea "la partita verrà giocata per consentire alle forze dell'ordine di organizzare l'evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi". Mancavano appena quattro anni allo schianto di Gaetano su una strada polacca. "Io parai tutto, come in trance", dice Stefano Tacconi. Non ricordo niente, solo una concentrazione che non era normale, era di più. Dentro avevamo cose che non si spiegano, non si raccontano e non si conoscono". Vinse la Juve grazie a un rigore inesistente: fallo su Boniek fuori area, gol di Platini. Davanti alla tribuna stavano i morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie. C'era tanto sangue, e gole aperte. Assurdi gendarmi a cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in una comica di Ridolini. La tv diede l'esatta misura della mostruosità, ma sul posto le cose erano diverse: i tifosi avevano capito, però non potevano sapere dei 39 cadaveri. Neanche i giocatori lo sapevano, tutto aveva i contorni sfumati del sogno. Tanta gente metteva bigliettini con numeri di telefono in mano ai giornalisti, implorando che chiamassero casa per dire "suo figlio è vivo, suo marito sta bene". E così andò. Dalla tribuna partirono telefonate in tutta Italia. Ancora non esistevano i cellulari e le e-mail. Alla fine tutti si sentirono vuoti, sfiniti, perduti. La coppa dei Campioni venne consegnata alla Juventus negli spogliatoi. Platini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo. Il macabro trofeo scese dall'aereo, a Torino, sventolato da Sergio Brio. "Fu una partita vera" disse e ripete Boniperti, e non ha neanche torto. Perché c'era una lastra di vetro tra le squadre e il mondo, un vetro imbrattato di sangue e molto spesso. Si stava là dietro come per proteggersi, per illudersi che non fosse vero. "Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown" disse Michel Platini. Allora sembrò una bestemmia, invece era qualcosa di assai più orribile e definitivo. Era la verità.

22 maggio 2003

Fonte: La Repubblica

ARTICOLI STAMPA e WEB MAGGIO 2003 

Tu dici "Heysel"...

di Andrea Danubi

Un nome, una storia, una tragedia. Esistono parole che ne contengono mille, centomila. Tu dici "Vajont", "Hiroshima", "Chernobyl" e non devi aggiungere altro. Heysel, appunto. Da allora ho conosciuto tanta gente che odia gli inglesi. Non ha molto senso. Difficile, in ogni caso, combattere contro il pregiudizio e l’ignoranza. Ho sentito le più grandi stupidaggini su quella notte, sulla partita, sugli hooligans. Ovviamente da parte di chi non c’era, perché è molto facile parlare dalla poltrona di casa, quando in "prima linea" c’erano gli altri. La più grande bischerata è quella di sostenere che la partita non andasse giocata. Io rammento bene il clima che si stava creando nei settori M/N/O, cioè la curva opposta a quella degli scontri, quando si sparse la voce - eravamo nel secondo tempo del match - che "c’era qualche morto". Ricordo l’appello del povero Gaetano Scirea (..."Stiamo giocando per voi") e di Phil Neal, che poi scrisse al capitano bianconero queste parole: "Caro Scirea, sono un calciatore professionista. Come te. Non sono un politico, o un diplomatico, o un uomo di legge. Non so scrivere quei discorsi pieni di delicate parole che esprimono il dolore ufficiale e la tristezza di una nazione e in questo caso di una organizzazione come il Liverpool Football Club. Sono soltanto un uomo comune. Posso assicurarti che ho pianto spesso da quando sono tornato da Bruxelles. Mia moglie e la mia famiglia possono dirti che persona triste e sconsolata sia diventato nell’ultima settimana. Ho persino pensato di ritirarmi dal calcio e di non avere più nulla a che fare con questo sport. Molti di noi lo hanno fatto. Mi sono troppo divertito in tanti anni di attività per poter stare a guardare il calcio inglese che finisce nella spazzatura. Ho lottato e cacciato e spinto e avuto da dire con Franco Causio nel nome della Coppa del Mondo. Gli ho stretto la mano, ci siamo abbracciati e scambiati le maglie. La sua l’ho portata ai miei amici italiani che vivono a Liverpool. Non sono più così sicuro che lo spirito col quale abbiamo giocato quella partita bellissima possa sopravvivere, resistere al comportamento di una minoranza di spostati che hanno distrutto la nostra grande notte allo stadio Heysel. Noi due eravamo nello stesso box, abbiamo usato lo stesso microfono per invocare la calma, per pregare che la nostra partita e il nostro calcio avessero un futuro. Oggi sono solo e chiedo a te e agli italiani di perdonare, di avere pazienza, mentre noi lavoriamo per salvare il nome del calcio, qui in Inghilterra". Nelle frasi del capitano "red" tutto il senso di colpa, di vergogna di una nazione, di un club, dei suoi tifosi. Prova a spiegare, oggi, che le bandiere della Juve, gli stemmi bianconeri cuciti sui giubbotti dei "koppities" non sono trofei di guerra, ma il segno di un particolarissimo "gemellaggio etico", se così possiamo chiamarlo. Come se volessero dirci: lo sappiamo, stiamo ancora espiando. Ricordo il pudore e l’imbarazzo del mio vicino di posto, nel mio "debutto" ad Anfield, quando chiacchierando gli dissi che "I was there...". Pochi, in Italia, capiscono. Francesco Caremani, l’autore dell’ultimo libro inchiesta su quella serata, mi dice: "Vai a raccontarlo a chi ci ha perso un figlio, o un fratello, o il marito...". Gli hooligans. I teppisti. La feccia. I supporters britannici in generale, additati al pubblico ludibrio. Una alluvione di luoghi comuni superficiali e ingiusti. E tonnellate di demagogia. La "giustizia" dell’UEFA. Una giustizia pusillanime, vigliacca. Con una lunghissima coda di paglia dimostrata persino 15 anni dopo, agli Europei del 2000, quando i parrucconi del Comitato Organizzatore osteggiarono qualsiasi commemorazione proposta dalla nazionale italiana davanti alla lapide nel nuovo stadio "Re Baldovino". Poi Antonio Conte e Paolo Maldini andarono ugualmente a deporre dei fiori. Juventus a porte chiuse i primi due turni europei dell’anno successivo. Perché ? Me lo spieghino. E niente Supercoppa Europea con l’Everton per il bando ai club di Sua Maestà. Ma che responsabilità avevano i "toffees" ? La Juve poteva almeno giocare contro il Rapid Vienna, la finalista sconfitta. Niente. Mah. Prima fanno disputare finali europee con larghissimo seguito di pubblico in impianti ridicoli, fatiscenti, pericolosi, con otto poliziotti a cavallo: poi cercano di lavarsi la coscienza col pugno di ferro... E nessuno di loro ha pagato, né pagherà. Vorrei qui trascrivere alcuni passaggi dell’editoriale di Italo Cucci, dal Guerin Sportivo del 5 giugno 1985... Avere negato al calcio inglese il contatto con l’altra Europa è come aver assegnato a quei fanatici una medaglia. Semmai dovevano punire soltanto il Liverpool, oggettivamente responsabile dei suoi "animals"; il ritiro del "passaporto" all’Everton e agli altri club riporta indietro non solo tutta l’Europa calcistica ma anche quel grande paese sognato che doveva sorgere sull’abbattimento dei confini e dei nazionalismi (...) non per mero idealismo ma per amore di una sicura fratellanza fra i popoli. Le lacrime dei ragazzi di Fagan nella cattedrale di Liverpool sono vere come quelle che noi abbiamo versato per le vittime dell’Heysel. Mi sento anche di respingere il ruolo di giudice assegnatosi dall’UEFA. Se la mano omicida è stata quella degli "animals" di Liverpool, la mente idiota che ha favorito il massacro è senza dubbio quella dell’ente calcistico europeo affidatosi alla federazione belga senza pretendere il controllo della sua organizzazione, apparsa colpevole fin dalla lontana vigilia, quando ha saputo interpretare soltanto un ruolo burocratico, mancando d’intelligenza e di ogni forma di prudenza. Mentre il signor Millichip, presidente della federazione inglese, comunicava la dura decisione di ritirare le proprie squadre dalle competizioni europee, l’intero gruppo dirigente dell’UEFA doveva dimettersi, imitato dalle autorità calcistiche e dai responsabili dell’ordine pubblico del Belgio. Tutti costoro - ripeto - sono più colpevoli della strage di Bruxelles di quanto lo sia il calcio inglese. In Italia questo doveva essere preteso, dai governanti del calcio come da quelli del Palazzo; si è invece preferito moraleggiare sul piccolo e stupido trionfo improvvisato allo stadio dei giocatori della Juve, sicuramente stravolti dalla terribile vicenda di cui erano stati testimoni. (...) Piuttosto che rivolgersi ai veri colpevoli della strage pretendendo giustizia, si è preferito infierire su chi era andato a cogliere un trofeo nell’Heysel. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felicità. Speriamo invece che le dia l’energia, la determinazione sportiva di riconquistarla fra un anno: solo una coppa così, più vera, potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non sono più tornati dallo stadio di Bruxelles e sono stati portati sul freddo marmo di un obitorio coperti di bandiere e di sciarpe bianconere". Eppure, io dico che il 29 maggio 1985 non è passato invano. Bianconeri italiani e reds inglesi non possono, non devono sentirsi nemici. E il popolo di Anfield, scontato l’embargo e le più pesanti condanne morali, è sempre lì, a sostenere i suoi undici campioni, a urlare "You’ll never walk alone" dalla Kop. Perché, come diceva Bill Shankly, "Questa sciarpa è la vita per qualcuno".

5 dicembre 2003

Fonte: "UK Football, please"

ARTICOLI STAMPA e WEB DICEMBRE 2003 

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