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				Heysel, la 
				notte in cui morì lo sport di Roberto Carnero Perdere la vita per assistere a una 
				partita. Questo assurdo paradosso si è realizzato tante, troppe 
				volte. E per cause diverse: molto spesso quando la tifoseria 
				dello stadio ha finito con il trascendere, senza alcun senso 
				della misura, i propri limiti. Quella dell'Heysel - Bruxelles, 
				29 maggio 1985, quando, prima della finale di Coppa dei Campioni 
				Juventus-Liverpool, morirono 39 tifosi italiani attaccati dagli 
				hooligans inglesi - è una vicenda esemplare ed emblematica. Una 
				storia che però si è cercato di dimenticare in fretta, forse 
				anche perché pesava come un macigno sulla coscienza di coloro 
				che, nonostante si sapesse quanto era accaduto, decisero di 
				giocare comunque la partita. Esultando, alla fine, per la 
				vittoria della Coppa da parte della squadra bianconera e 
				festeggiando il risultato con i cadaveri dei tifosi ancora 
				caldi. Per non parlare di quelli che, anti-juventini nel 
				midollo, gioirono per quei morti. Ma davvero con queste cose lo 
				sport non ha nulla a che vedere. Utile a rinverdire la memoria, 
				per fare i conti con quanto è accaduto, giunge ora un libro 
				firmato da Francesco Caremani. Giornalista sportivo e storico 
				dello sport, Caremani ci offre una ricostruzione precisa di 
				quella giornata e di quanto ne seguì. Poi dalla ricostruzione 
				scaturisce, nitida, una riflessione su tutta la vicenda. E in 
				questa felice dialettica tra scrupolo documentario e 
				coinvolgimento emotivo risiede il pregio principale del libro: 
				l'autore era adolescente, all'epoca dei fatti, e ricorda lo 
				shock della perdita, all'Heysel, di una persona che conosceva 
				bene, un amico di famiglia, Roberto Lorentini, il cui padre, 
				Otello, alcuni mesi dopo, sarebbe stato il promotore 
				dell'Associazione delle vittime. Proprio dal rapporto con Otello 
				Lorentini, che ha fornito a Caremani materiali e documenti, è 
				nata l'idea del volume. Un libro-inchiesta, un libro-denuncia, 
				scritto, come si diceva, per ricordare e per far ricordare: "Per 
				questo - afferma Caremani - il libro ha un senso, perché solo la 
				memoria restituisce dignità al dolore, l'oblio lo scolpisce e la 
				rabbia l'inaridisce con tutto quello che vi sta intorno. Capisco 
				anche che per molti l'Heysel è ormai una tragedia lontana dai 
				cuori e dalle menti, ma ci sono drammi che non dovrebbero essere 
				mai dimenticati, perché dietro a ogni dramma c'è una persona e 
				il rispetto per la sua vita, per il te in cui morì lo sport 
				materiali e documenti, è nata l'idea del volume. Un 
				libro-inchiesta, un libro-denuncia, scritto, come si diceva, per 
				ricordare e per far ricordare: "Per questo - afferma Caremani - 
				il libro ha un senso, perché solo la memoria restituisce dignità 
				al dolore, l'oblio lo scolpisce e la rabbia l'inaridisce con 
				tutto quello che vi sta intorno. Capisco anche che per molti 
				l'Heysel è ormai una tragedia lontana dai cuori e dalle menti, 
				ma ci sono drammi che non dovrebbero essere mai dimenticati, 
				perché dietro a ogni dramma c'è una persona e il rispetto per la 
				sua vita, per il suo essere stato in vita. Rispetto che, nel 
				caso dell'Heysel, è parso essere stato negato. Una delle 
				questioni aperte e più controverse è quella relativa 
				all'opportunità di far giocare la partita dopo quanto era 
				successo. Sappiamo che l'allora presidente del consiglio 
				italiano, Bettino Craxi, non voleva farla disputare, ma che il 
				ministro belga oppose motivi di ordine pubblico. Craxi, a sua 
				volta, opponeva le ragioni di ordine morale. Col senno di poi, 
				forse, la celebrazione, fino in fondo, del rito sportivo, 
				rappresentò il male minore: se i giocatori avessero abbandonato 
				lo stadio senza giocare, la tragedia avrebbe potuto essere 
				ancora più grande. "Giochiamo per voi, giochiamo perché ci hanno 
				chiesto di farlo", disse rivolto ai tifosi Gaetano Scirea. E 
				pare che furono le autorità e il delegato UEFA a insistere 
				affinché i giocatori, al termine della partita, si recassero 
				sotto la curva dei loro tifosi per "festeggiare". Insomma, una 
				commedia portata avanti per necessità, a denti stretti e con 
				prova di professionismo da parte degli atleti bianconeri. Eppure 
				- nota Caremani - davvero fu dissonante l'esultanza di questi 
				ultimi dopo la vittoria, come sembrarono fuori luogo le parole 
				di Bruno Pizzul il quale, al termine di una faticosissima 
				telecronaca, disse che il significato sportivo della gara era 
				riuscito, per qualche minuto, a far dimenticare la tragedia. "Ma 
				quale significato sportivo ?", si chiede Caremani. E conclude, 
				riassumendo il senso del suo lavoro: "La mia vuole essere una 
				fotografia, come quelle in bianco e nero, quelle che raccontano 
				la storia delle persone comuni, proprio quando il calcio, 
				l'ambiente calcio, ha cercato di cancellare ogni ricordo di 
				quella notte, di quella sera di maggio in cui, probabilmente, lo 
				sport è morto per sempre". Ma - aggiungiamo noi - un libro come 
				questo, scritto da uno juventino doc, eppure lucido e impietoso 
				perché onesto, può aiutarlo a rivivere. 18 gennaio 2004 Fonte: L’Unità 
					
						
					
					
					
					
						
						ARTICOLI STAMPA e WEB GENNAIO 
						2004 
						
						 La Coppa maledetta di Alberto Garlini Un’ora prima della finale iniziò la 
				strage. Un bel fresco primaverile che calava sui riflettori, sui 
				tetti di Bruxelles. Il cielo color arancio pareva il riverbero 
				del rosso delle bandiere inglesi, delle maglie, delle canotte, 
				delle pitture tribali sui volti barbarici. Nel settore Z 
				dell’Heysel i tifosi juventini erano stati mischiati agli 
				hooligans, ubriachi dalla sera precedente. A dividerli solo una 
				rete di metallo e dieci poliziotti belgi. Una bomba a 
				orologeria, una bomba pronta a esplodere. Provocazioni. Qualche 
				pisciata sulla bandiera bianconera, qualche sfottò. Gli 
				juventini reagirono spaventandosi, strinsero i figli, dissero 
				alle mogli di allontanarsi con un ultimo abbraccio. La paura li 
				uccise. Gli inglesi odorarono la paura, sentirono la paura 
				dell’altro gruppo come un afrodisiaco dell’orda, come il sapore 
				del calore di una cagna. Capirono di non avere a che fare con 
				ultras armati, ma con famiglie in gita domenicale, che qualche 
				speculazione aveva portato lì, a farsi massacrare. E se c’era da 
				massacrare, si doveva massacrare. La prima onda sembrò 
				un’illusione ottica, come se l’Heysel fosse un setaccio e 
				qualcuno lo stesse agitando. I rossi si spostavano verso i 
				bianconeri, ritmicamente, dal punto più lontano a quello più 
				vicino alla tribuna centrale. Una ola che portava morte. Presero 
				ad attaccare armati di bottiglie rotte, spranghe e legni 
				raccolti in un cantiere edile incautamente lasciato accessibile 
				a pochi passi dallo stadio. I vecchi mattoni delle gradinate si 
				sbriciolavano come il pane e fornivano proiettili da lanciare, 
				la rete fu strappata, i poliziotti si dileguarono presi dal 
				panico. Gli juventini per sfuggire agli attacchi si pressarono 
				scompostamente al muretto alla loro destra, schiacciandosi gli 
				uni con gli altri. Non c’erano vie di fuga o erano del tutto 
				insufficienti a quella emergenza: solo una porticina di ottanta 
				centimetri in entrata e un’altra di uguali dimensioni verso il 
				campo. Quest’ultima oltre tutto presidiata dai poliziotti belgi 
				che non intervenivano alle scorribande degli inglesi, ma 
				bastonavano selvaggiamente gli italiani che cercavano scampo sul 
				verde del prato. Gli ordini erano ordini, si dovevano evitare le 
				invasioni. Rimaneva un’unica possibilità, schiacciarsi contro il 
				muretto. E così la gente moriva, tagliata, bastonata, pestata, 
				asfissiata. Negli spogliatoi si sapeva dei morti: non se ne 
				conosceva il numero preciso, né le circostanze nei dettagli, ma 
				si sapeva della strage. In seguito la versione ufficiale avrebbe 
				negato l’evidenza, affermando che non erano giunte notizie della 
				gravità di ciò che accadeva. Ma i giocatori sapevano, come 
				potevano non sapere ? Arrivavano frotte di tifosi negli 
				spogliatoi per farsi medicare. Gente piangente, insanguinata 
				ovunque, sul volto, lungo il corpo, senza scarpe senza i 
				giubbotti, con tracce di unghie stampate sulle spalle, come 
				tentativi di rimanere attaccati alla vita. I brividi, il freddo, 
				il tremore, lo shock. (...) Platini e Scirea facevano la spola 
				fra l’infermeria e l’arbitro per portare medicinali, garze, e 
				quello che poteva servire. Anche tè caldo, anche sciarpe, anche 
				solo una parola di conforto. Intanto qualcuno più coraggioso 
				usciva alla luce del verde, ritornando con ragguagli mostruosi. 
				(...) L’attimo dopo il litigio, dopo la morte, quando non c’è 
				più azione, ma il residuo dell’azione. Quando lo schiaffo è 
				schioccato, ma resta il residuo dello schiocco. Quando il lutto 
				è nella zona di nessuno della ridicolaggine. Quando al tribunale 
				dei morti l’innocenza non è ancora provata. Angeli ridenti, 
				angeli disperati. I corpi sopra i corpi, accatastati come quarti 
				di animali sulla pista d’atletica. Gli uomini agonizzanti, 
				l’incredulità che stringeva mani inerti, un medico italiano che 
				bestemmiava. Le transenne usate come barelle da infermieri che 
				tentavano tracheotomie. Tanto sangue, gole aperte. Assurdi 
				gendarmi a cavallo che andavano su e giù roteando i manganelli. 
				E poi vedere una donna dalla maglia bianca chiudere il ventre 
				aperto del marito, e una ragazza in verde morire serafica con 
				uno sguardo felice, e un padre calvo reggere la testa di un 
				bimbo morto. E i massaggi cardiaci, le urla concitate, 
				l’andirivieni isterico, l’esplosione delle persone, il volo 
				impazzito degli uccelli impauriti, e questo frastuono di fondo e 
				i canti degli inglesi, ubriachi epici, come dopo le grandi 
				carneficine medioevali. E infine un cane, un cane bianco, che 
				faceva la guardia a un cadavere come fosse quello del suo 
				padrone. "Quando il trapezista muore, entrano i clown..." disse 
				Michel Platini in una intervista dopo l’Heysel. Aggiunse: "Noi 
				non siamo clown..." ma nessuno gli credette. Ad avere 
				progettato, costruito e realizzato nei dettagli quel massacro 
				erano state le stesse persone che davano i soldi ai calciatori. 
				Le stesse identiche persone che avevano gli assegni, i bonifici 
				e pacchetti di carte da centomila nelle ventiquattr’ore. Persone 
				ben conosciute, quelle che prendevano l’ottantatré per cento 
				dell’incasso. Biglietti in eccesso, stadi inadeguati, 
				percentuali pubblicitarie, ingaggi, iperboli giornalistiche si 
				erano trasformati in corpi morti, in carne macellata. Una magia 
				che stava negli uffici delle varie burocrazie, nei pacchetti da 
				centomila nelle mani dei calciatori. Nelle macchine che si 
				compravano, nelle donne che si scopavano. Gli juventini decisero 
				di non giocare. Si riunirono, Scirea interpretò lo spirito del 
				gruppo e tutti se ne andarono sotto le docce, per lavarsi e 
				rivestirsi. Erano profumati e pronti per il pullman quando 
				arrivarono i dirigenti della squadra, il delegato Uefa e 
				l’arbitro. Discussioni, molte parole, accavallate. Rispetto, 
				prima di tutto, il rispetto non manca mai, in un discorso che 
				vuole fregarti. Nessuna preclusione, ma ragioni di opportunità. 
				Sia chiaro. Ordine pubblico, forze dell’ordine insufficienti, 
				animi sovraeccitati, scontri all’uscita. Altre parole, altri 
				timori. Le persone che davano i soldi ai calciatori volevano che 
				i calciatori giocassero, che capissero la necessità della 
				partita. Temevano conseguenze peggiori in caso di annullamento 
				del match. "Ma come possiamo ?". "Non è una vera finale, è un 
				espediente...". "Ma come possiamo ?". Gaetano Scirea fu scortato 
				al microfono dello stadio. Si udì dall’altoparlante una specie 
				di sospiro. La sua voce: "La partita verrà giocata per 
				consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione 
				del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. 
				Giochiamo per voi...". Giochiamo per voi. Con quella voce 
				tremula, vecchia. Un nido di rondine incollato ostinatamente al 
				tetto. E la partita si giocò. Sui morti. Condannando per sempre 
				quelle anime alla vergogna, al ridicolo. A vagare 
				nell’inquietudine e nell’angoscia dei processi e delle sentenze 
				per l’oltraggio subito. E alla fine ci fu anche la coppa. Vinse 
				la Juve per uno a zero, per un rigore inesistente. E la coppa 
				arrivò negli spogliatoi in una bara di legno, e la bara si aprì 
				e la coppa girò pure sotto le tribune, alzata dalle mani 
				festose, sul sangue dei morti, per il giro d’onore. E i 
				calciatori festeggiarono. E la panchina saltò in aria al gol, 
				per la felicità. Mentre trentanove corpi ancora caldi, venivano 
				squartati come maiali nelle autopsie dei medici belgi.  
				 Novembre 2004 Fonte: "Futbol bailado", Sironi 
				editoreARTICOLI STAMPA e 
						WEB NOVEMBRE 2004  |