"HEYSEL le verità di una strage
annunciata" è l’aggiornamento doveroso e importante del
libro che dopo diciotto anni di assordante silenzio ha
raccontato la strage di 39 tifosi juventini del 29
maggio 1985 e, soprattutto, il lungo e dimenticato
processo dell’"Associazione fra le famiglie delle
vittime di Bruxelles" contro tutto e tutti. Un Heysel
2.0 che riporta in libreria e all’attenzione generale
una vicenda italiana ed europea che ha segnato per
sempre il calcio, quello prima e quello dopo la tragedia
di Bruxelles. Forse nessuno sa che se oggi gli stadi
designati per le finali di Champions League devono avere
determinati requisiti di sicurezza lo devono a Otello
Lorentini, l’uomo di Arezzo che ha lottato per difendere
la memoria del figlio Roberto, perso sulle gradinate
della Curva Z mentre cercava di salvare un connazionale,
sconfiggendo l’Uefa e condannandola alla
corresponsabilità degli eventi che organizza. Da qualche
tempo a questa parte molte persone mi hanno chiesto del
libro, mi hanno ringraziato per averlo scritto e per
aver raccontato la verità su quella maledetta notte di
Coppa dei Campioni. Attestati che mi hanno consegnato la
certezza dell’importanza della memoria, soprattutto di
fatti drammatici come la morte di 39 persone per una
partita di calcio, operazione che in questo Paese è più
facile irridere e stigmatizzare che apprezzare.
Riproporla oggi, arricchita di interventi di grande
spessore professionale, umano e giuridico, è per me
qualcosa che va al di là della gratificazione
professionale, qualcosa che provo solo quando guardo
dritto negli occhi Otello o Andrea, figlio primogenito
di Roberto, qualcosa che a parole non si può spiegare e
che spero proverete leggendo questo libro.
Questo
è il libro che non avrei mai voluto scrivere. Conoscevo
Roberto Lorentini, era un amico di famiglia, un collega
di mio padre e, ripensandoci oggi, anche molto di più.
Al tempo stesso è il "mio" libro. Non solo perché
conoscevo bene Roberto, non solo perché ero tifoso della
Juventus, non solo perché a Bruxelles avrei dovuto
esserci anch’io, non solo… Ricordo quei giorni come
fosse oggi. La sera del 29 l’appuntamento era con tutti,
o quasi, i compagni di classe a casa di Simone. Una
specie di rito, dato che l’anno prima, sempre a casa
sua, di ritorno dalla gita scolastica avevamo visto
Juventus-Porto, finale di Coppa delle Coppe. Era andata
bene, la Juve aveva vinto, perché non replicare,
nonostante Simone fosse tifoso della Roma e un po’ gli
piaceva gufare. Ricordo il sole di quella giornata, un
po’ livido, ricordo che avevo preparato le bandiere. Ero
scaramantico e avevo il cuore in gola quando decisi di
utilizzare quella nuova, invece dell’altra vecchia e
lisa. Stupidi timori adolescenziali. Dopo sarei andato a
dormire da un mio amico, Francesco, juventino anche lui.
Prima, magari, avremmo fatto baldoria anche noi per le
strade di Arezzo. Il salotto era pieno di ragazzi, si
scherzava, si facevano pronostici, si mangiava qualcosa.
Il ricordo di Atene pesava come un macigno, quella notte
di due anni prima, tredicenne, avevo pianto. Non ricordo
bene quando iniziammo a fissarci sulle immagini
televisive, non si capiva cosa stesse accadendo e il
telecronista non ci aiutava. Ho imparato allora che le
cose brutte della vita ti arrivano addosso e ti
travolgono all’improvviso, quando meno te lo aspetti.
Qualcosa era successo. Avevo il magone, qualunque cosa
fosse successa, anche se nessuno poteva immaginare la
devastante verità, quella partita per me non era più la
stessa. Tutta l’attesa, tutta l’emozione era svanita, si
era come sciolta di fronte al calore delle immagini,
restava solo un disagio difficile da interpretare.
Quando fui chiamato al telefono ero come stordito:
"Francesco, sono la mamma… Roberto è ferito". Ricordo
solo queste parole, io biascicai qualcosa, poi abbassai
l’apparecchio. In realtà Roberto era già morto, le
notizie arrivavano sconnesse e la distanza faceva il
resto. Oggi penso a Otello ma non l’immagino. Non si può
immaginare un uomo che deve avvisare la madre e la
moglie, dire loro che hanno perso la persona più cara al
mondo per colpa di una partita di calcio, non si può.
Non ricordo bene quello che accadde dopo. Iniziò la
partita, guardavo ma ero imbarazzato, non sapevo cosa
pensare, Roberto ferito, la Juventus che gioca. So per
certo che non ho esultato al gol di Platini su rigore,
so per certo d’aver provato disagio per quel penalty che
non c’era e vergogna per l’esultanza degli altri. Quando
siamo usciti Arezzo bianconera festeggiava, le strade
erano bloccate dai caroselli di auto, io camminavo a
testa bassa, accanto a Francesco, anche lui per niente
soddisfatto di quello che vedeva. L’angoscia aumentava.
La prima cosa che
ho fatto quando mi sono svegliato, l’indomani, è stata
quella di telefonare a mia madre: "Francesco, Roberto è
morto, Roberto non c’è più", mi disse con la voce rotta
dall’emozione. Iniziai a piangere mentre
abbassavo il
telefono. Comprai i giornali, volevo capire e vedere. A
scuola, però, fu ancora peggio. Da una parte chi mi
diceva che eravamo dei ladri, i più cattivi esultavano
all’idea che al mondo ci fossero 39 "gobbi" di meno,
dall’altra gli juventini che esultavano, ancora,
beffardamente. Oggi il mio giudizio è severo e
inappellabile, allora, però, eravamo tutti adolescenti,
sciocchi e ignoranti di tante, troppe cose. Gli
insegnanti dicevano stoltezze senza senso, mentre io
cercavo di nascondere il mio dolore, in quell’ambiente
non potevo condividerlo con nessuno. Entrai in un’aula
vuota e ricominciai a piangere sussurrando il nome di
Roberto. Ancora oggi non so perché, ma non avevo voglia
di tornare a casa, pensavo a mio padre sconvolto per
l’accaduto ed ero consapevole che non avrei saputo
consolarlo, non avevo le parole e forse neanche il
diritto. Uscimmo un’ora prima e decisi di andare con gli
altri in una pista di pattinaggio, dietro Porta San
Lorentino, a giocare a pallone. Sentivo il bisogno
fisico di fare qualcosa che mi impedisse di pensare e il
calcio era l’unica che conoscevo e che sapevo fare. Mia
madre quando lo seppe s’infuriò, questo mio gesto le
apparve brutale: "Meglio che il babbo non lo sappia",
sibilò. Io e il babbo non ci parlammo quel giorno, non
avevamo niente da dirci. Io sarei dovuto andare a
Bruxelles, io dovevo essere insieme a Roberto.
Frequentavo il secondo anno del Liceo scientifico ed ero
reduce da un esame di riparazione, inglese e latino.
Avevo recuperato la prima materia, ma non la seconda, si
prospettava un’altra estate di studio. Il 5 nell’ultimo
compito segnò il mio destino, niente promozione, ma per
me in quel momento voleva significare, soprattutto,
niente Bruxelles, niente Juve. Ancora oggi non so come,
ma la cosa fu pubblicata su un giornale locale, cioè il
mio 5 e tutto il resto. Parole che metto insieme al
peggio, tutto il peggio che s’è poi scatenato intorno
alla strage dell’Heysel. Perché di strage dolosa si
tratta, non di tragedia, parola che in genere si accosta
alla fatalità. Al funerale, in Duomo, c’era tutta
Arezzo, lo strazio rendeva i volti sfigurati, le parole
colpivano senza pesare. Di quei giorni, oltre alla
memoria di Roberto e a un’idea diversa del calcio e
della Juventus, mi è rimasto addosso il disagio, per
quanto nascosto negli anfratti dell’anima, d’essere
andato a giocare a pallone il mattino dopo, all’uscita
di scuola. Se oggi mi sono liberato di questa sensazione
lo devo a Otello Lorentini, padre di Roberto e
presidente dell’"Associazione fra le famiglie delle
vittime di Bruxelles", che ha cresciuto Andrea e
Stefano, i due nipoti, a cuore e calcio. Una cosa
normale per tanti, una cosa eccezionale per chi ha perso
l’unico figlio sulle gradinate di uno stadio. Per tutte
le cose scritte fino a qui e per mille altri motivi
questo è il "mio" libro. Innanzi tutto devo confidare
che come uomo non riesco a perdonare chi ha esultato,
chi è sceso in strada, chi ha virtualmente calpestato i
39 morti dell’Heysel. A maggior ragione nutro, ancora
oggi, rancore per tutti coloro che hanno gioito per
quelle vite brutalmente stroncate, per quelle scritte
che sono comparse sui muri di tutta Italia, per quelle
frasi che da "juventino" ho dovuto subire e subisco.
Nessuno di loro sa che una piccola parte di me è morta a
Bruxelles insieme a Roberto, ma questo pensiero non mi
aiuta ad essere meno duro. Non so, forse non voglio,
perdonare. Chi si riconosce in queste parole abbia la
forza e il coraggio di chiedersi se è un uomo. Il
sentimento è amplificato all’ennesima potenza quando
penso all’esultanza dei giocatori bianconeri, alla
panchina della Juventus, che al gol schizza in campo
ubriaca di gioia e di rabbia, al giro di campo, al
resto. Non ci sono scuse o teorie sociologiche che
tengano, l’unica via d’uscita è la vergogna. Sapevano
dei morti, sapevano tutto. Chi ha il coraggio, ancora
oggi, di negare, vada a rivedersi nelle immagini
televisive e nelle fotografie. Scriveva, nei giorni
immediatamente successivi la strage, l’Osservatore
Romano: "L’uomo allo stadio di Bruxelles è stato
tremendamente offeso anche dopo che i tanti Caino,
sparsi sulle gradinate, lo avevano ammazzato. Per
calmare i Caino non si è rispettato il sangue degli
Abele: si è giocato mentre i morti erano ancora lì
scomposti nella violenza appena subita; si è tifato; si
è gioito. In una giornata in cui tutti e tutto sono
stati sconfitti, è assurdo pensare che alcuni si
ritengano vincitori ed è amaro vedere volti sorridenti
per una vittoria senza senso. Nella serata di mercoledì
29 maggio 1985 lo sport è stato sconfitto e
mortificato". Giocare, lo sappiamo tutti, era
necessario, esultare no. Maurizio Naldini, su La
Nazione, annotava: "… A Bruxelles, mercoledì notte, si è
giocata una partita di calcio e si è festeggiato un
successo, mentre il sangue colava dalle gradinate, i
cadaveri ancora non avevano un nome, i feriti non
cessavano di lamentarsi. Per quale centurione vittorioso
dovevamo celebrare questo rito ? Forse per Paolo Rossi,
per Trapattoni, per i colori bianconeri ? C’era chi
piangeva l’amico e chi urlava nello stesso istante per
il gol di Platini, c’erano donne che cercavano i loro
morti, migliaia di famiglie in angoscia, e giovani
tifosi che sventolavano le bandiere del successo. Tutti
insieme, accalcati nello stesso stadio. È questo che ci
da’ nausea e disagio. Mentre la televisione proseguiva
implacabile con le sue immagini, potevamo accorgerci che
la soglia fra dolore ed entusiasmo, non era fra la curva
Sud e la Nord, fra le gradinate più basse e quelle più
alte. Era invece, purtroppo, labile e inconsistente, in
ognuno di noi.
Certo la partita si doveva
giocare, non poteva essere altrimenti. Se si fosse
chiesto alla folla di lasciare lo stadio senza aver
prima consumato i giochi, il rito di tante pallonate
intelligenti, la tragedia sarebbe stata forse ancora più
grande. Era giusto far giocare l’incontro perché era
l’unico modo per tenere sotto controllo una situazione
sfuggita colpevolmente di mano. Era giusto anche, anzi
era ammirevole, che i giocatori della Juventus uscissero
in mezzo alla gente per spronare alla calma, per
riportare alla ragione gli scalmanati. E ancor più
convincenti ci sono apparse le frasi di Scirea quando ha
detto "Giochiamo per voi, giochiamo perché ci hanno
chiesto di farlo". A quel punto gli atleti ci sono
apparsi dei professionisti costretti comunque a far bene
il loro mestiere. Ma alla fine la loro esultanza, il
loro abbracciarsi e sbracciarsi, i loro sguardi
sorridenti, francamente non ci sono piaciuti. Né ci è
piaciuta la frase di Pizzul, certamente stremato da una
lunghissima radiocronaca che mai avrebbe pensato di
fare, quando ci ha detto che il significato sportivo
della gara era riuscito per qualche minuto a farci
dimenticare la tragedia. No, caro Pizzul, la tragedia
non si poteva dimenticare. Ed era talmente intensa,
assillante, provocatoria, da rendere stupido tutto il
resto, e non solo i poliziotti belgi che brillavano per
la loro insipienza, vuoti come lattine di birra. Ci
appariva stupido Paolo Rossi che alzava le mani al
cielo, stupidi quanti applaudivano, stupida la coppa e i
significati che si erano voluti attribuirle. Dopo quanto
era accaduto, non c’era più spazio se non per il dolore.
E non bastano novanta minuti, non bastano neppure a un
campione, per dimenticare una strage che si è svolta
sotto i suoi occhi…". Qualche anno dopo Prandelli
dichiarerà: "Ancora una volta furono le autorità e il
delegato Uefa a premere perché andassimo sotto la curva
dei nostri tifosi, per "festeggiare" la vittoria. Lo
facemmo a malincuore, soltanto perché ci
avevano
spiegato che quello sarebbe stato un modo per
rasserenare gli animi. Ecco perché ci infastidirono le
polemiche divampate in Italia su quella Coppa e su
quelle scene di esultanza che non erano vere, non
potevano essere vere. Ho letto che Platini ha dichiarato
di essere morto a Bruxelles il 29 maggio ’85…", mai
espressione fu più infelice nei confronti di chi era
morto veramente. Semmai, del numero 10 francese, era più
consona all’occasione questa dichiarazione: "Al circo
quando muore il trapezista entrano i clown in pista. Noi
non siamo dei clown, credo, ma il discorso è lo stesso".
Penso, infatti, a Giuseppina Conti, all’epoca
adolescente come me, di lei hanno scritto: "Per Platini
e compagni era disposta a qualsiasi sacrificio. La
Juventus era la sua passione, voleva vederla vincere
quella Coppa dei Campioni tanto agognata…". Anch’io la
pensavo come lei e mi piace credere, con tutto il
rispetto che ho per il dolore altrui, che oggi lei la
penserebbe come me. Da quella sera, infatti, ho sempre
desiderato che la Juventus restituisse quella coppa e
che negli almanacchi, che per lavoro ho sfogliato sino
allo sfinimento, comparisse la scritta: non assegnata.
Giampiero Mughini scrisse che era troppo facile
restituire le coppe altrui, ma quella sarebbe stata
anche "mia" e se qualcuno dubitasse dell’onestà
intellettuale basta che chieda in giro quanto ero tifoso
della Juventus. Ciò non toglie che persone ridicole sono
tutte quelle che in quei giorni e negli anni seguenti si
sono solamente preoccupate, per mero interesse
antisportivo, di cancellare dal palmares della Juventus
quel trofeo, che in effetti non c’è, perché non ci può
essere coppa, trofeo, vittoria, calcio e sport quando ci
sono 39 morti sugli spalti, uccisi dagli hooligans
inglesi e dalle mancate misure di sicurezza di
Gendarmeria, Governo e Federcalcio belga da una parte, Uefa dall’altra. Sciacalli, sciacalli tutti quanti.
Penso, da giornalista e da amante del calcio, che il
gesto, e io credo nei gesti, di restituire quella Coppa
dei Campioni abbia senso anche oggi. Me l’ha confermato
Otello Lorentini, al quale l’esultanza bianconera non è
mai andata giù: "Apprezzerei, ancora oggi sarebbe un bel
gesto". L’Heysel rappresenta una macchia che la
Juventus, con qualsiasi dirigenza, non potrà mai
cancellare, a maggior ragione dopo quello che fu detto
all’indomani della conquista della Coppa
Intercontinentale: "Bruxelles è stata cancellata",
grazie del pensiero, ma questo non è il nostro, tanto
meno quello dei familiari delle vittime. Nel dicembre
dell’85 Otello Lorentini gridava: "Noi continuiamo a
chiedere, smuovere, informarci, ma sembra che tutto cada
nel vuoto. Nei prossimi giorni sottoscriveremo lo
statuto dell’associazione: ma guai a dimenticare,
sarebbe un errore imperdonabile per tutti, non solo per
noi famiglie colpite direttamente dalla tragedia". E il
timore che questo accadesse era più che fondato, come
scriveva Riccardo Scottoni su Reporter: "Non
sbagliavamo: come le vittime di tante vicende non
sportive esistono 39 famiglie che giustizia e
risarcimento hanno avuti promessi e fino ad oggi si sono
ritrovate con un pugno di mosche. Se si esclude qualche
tifoso inglese e alcuni funzionari della polizia belga
nessun responsabile è stato individuato, né cercato
(dopo quasi 7 mesi, n.d.a.). Inoltre abbiamo appreso che
quei 10-20 miliardi di risarcimento che furono promessi,
allo stato dei fatti, si sono ridotti a poche centinaia
di milioni. C’è chi storce il naso quando si parla di
soldi per "pagare" una morte. Sbaglia. E dimentica che
ci sono dei bambini che hanno il diritto di vivere,
almeno economicamente come gli altri. Nei giorni
susseguenti la tragedia scrivemmo che lo sport avrebbe
fatto di tutto per dimenticare e far dimenticare, il più
presto possibile. Ma non credevamo che avrebbe fatto
mancare anche la solidarietà alle vittime. Invece è
successo anche questo e i complici, in quest’opera, sono
molti". Per questo il libro ha un senso, perché solo la
memoria restituisce dignità al dolore, l’oblio lo
scolpisce e la rabbia l’inaridisce con tutto quello che
vi sta intorno.
Capisco anche che per molti
l’Heysel è ormai una tragedia lontana dai cuori e dalle
menti, ma ci sono drammi che non dovrebbero essere mai
dimenticati, perché dietro a ogni dramma c’è una persona
e il rispetto per la sua vita, per il suo essere stato
in vita. Mi scuso, invece, con chi ha cercato di fare i
conti con quel dolore e leggendo queste pagine sentirà
riaprire delle ferite che pensava cicatrizzate. Il
dolore è personale e non può essere condiviso, ma quando
la tragedia è pubblica si trasforma, agli occhi degli
altri, in qualcosa di più complesso che spero d’aver
reso nel migliore dei modi. In questo libro ho voluto
raccontare l’Heysel e, in particolare, la battaglia
legale che l’"Associazione fra le famiglie delle vittime
di Bruxelles" ha portato avanti, tra silenzi e
meschinità d’ogni genere, tra gli altri, dei notabili
del calcio italiano e internazionale. Una battaglia
legale che ha fatto giurisprudenza, condannando in
Cassazione l’Uefa alla corresponsabilità per tutti gli
eventi sportivi che portano il suo marchio. Per certi
aspetti, questa vicenda, ricorda le tante altre della
storia d’Italia fatte di pressioni e omissioni, con una
differenza: le responsabilità sono state individuate e i
responsabili, una parte di essi, condannati, rendendo,
per quanto possibile, giustizia a chi ha perso la vita
per una partita di calcio. Una giustizia senza gioia
pensando a come i belgi si sono comportati con gli
italiani e i loro morti, pensando a come si sono
comportati alcuni giornalisti italiani, difesi poi a
spada tratta dall’azienda e dal sindacato. Perché
nessuno può sentirsi giustificato per quello che ha
fatto quella sera e nei giorni seguenti, solo chi ha
avuto rispetto per il dolore può alzare il volto e
guardare l’orizzonte con gli occhi interrogativi,
chiedendosi ancora oggi perché. La mia vuole essere una
fotografia, come quelle in bianco e nero, quelle che
raccontano la storia delle persone comuni, proprio
quando il calcio, l’ambiente calcio, ha cercato di
cancellare ogni ricordo di quella notte, di quella sera
di maggio in cui, probabilmente, lo sport è morto per
sempre. Questo è il libro che non avrei mai voluto
scrivere… Se adesso molte persone lo sfogliano, se
grazie a queste pagine ricordano, se stanno riflettendo
su quello che è accaduto all’Heysel e su tutto quello
che nel calcio è accaduto dopo, lo devo solamente a
Otello Lorentini. Grazie alla sua forza, grazie alla sua
disponibilità, grazie al materiale che ha conservato e
che ancora oggi conserva ho potuto scriverlo. Ringrazio
tutta la famiglia Lorentini, la moglie di Roberto,
Arianna, e i suoi due figli, Andrea e Stefano, per la
comprensione e la pazienza. Quando Otello Lorentini mi
ha consegnato tutto quello che aveva raccolto, mi ha
detto: "Questa è la mia vita". Questo libro glielo
dovevo e lo dovevo soprattutto a Roberto, al suo ricordo
e al ricordo di quelli che come lui sono morti allo
stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio del 1985.
Maggio 2010
Fonte: "Heysel e
dintorni" (Blog di Francesco Caremani)
La prefazione di Walter
Veltroni
È una mano pietosa e indignata,
quella di Francesco Caremani che ci guida in quel 29
maggio 1985, il giorno in cui lo sport dismise i panni
dell’amicizia e della gioia per vestire quelli del
dolore e della violenza. Avvenne, a Bruxelles, ciò che
in molti avrebbero potuto facilmente prevedere ed
evitare, e non vollero o non seppero farlo. Quel giorno
lo stadio del gioco diventò lo stadio della morte, una
morte trasmessa in diretta e in mondovisione. Una morte
che si mescolò col gioco del pallone (e per questo fu
più crudele e più odiosa) che portò via il soffio della
vita a chi avrebbe voluto semplicemente applaudire,
vincere o perdere con la propria squadra, coi propri
beniamini. E invece persero tutti, nonostante la coppa
alzata, il giro del campo, nonostante i sorrisi, i "non
sapevamo", nonostante il gol. Nonostante la vittoria,
persero tutti, in quella sera luttuosa all’Heysel,
quando il battito del cuore improvvisamente cessò per
trentanove persone. Erano italiani in gran parte, ma il
necrologio riporta anche quattro nomi belgi, due
francesi e uno irlandese. Il più giovane aveva undici
anni e si chiamava Andrea. Seicento furono i feriti. Le
cronache ci raccontarono che la violenza degli hooligans
inglesi non rispettò nemmeno i poveri corpi senza vita,
oltraggiati col furto, con la denigrazione. La pietà
muore più volte, e ciò che chiamiamo bestiale è,
purtroppo, proprio dell’Uomo, non della ferinità, poiché
solo l’Uomo può adoperare con consapevole raziocinio la
crudeltà, l’offesa, il gesto delittuoso fine a se
stesso. Scriveva Salvatore Quasimodo in "Uomo del mio
tempo", nel 1946, cogli orrori della guerra davanti agli
occhi: "(…) Hai ucciso ancora,/ come sempre, come
uccisero i padri, come uccisero/ gli animali che ti
videro per la prima volta./ E questo sangue odora come
nel giorno/ Quando il fratello disse all’altro
fratello:/ "Andiamo ai campi". E quell’eco fredda,
tenace,/ è giunta fino a te, dentro la tua giornata
(…)". Anche all’Heysel si udì quell’eco, nelle urla
degli hooligans, nel silenzio della polizia belga, nei
piani di sicurezza mal attuati. È facile alzare la mano
sugli innocenti, sui più deboli, sugli inermi. Questo ci
insegna la strage dell’Heysel: il Male ha una sua feroce
semplicità, lo si incontra anche nel luogo che per sua
fattura dovrebbe invitare all’amichevole aggregazione,
come uno stadio. E invece no: il gioco è il pretesto, la
violenza è il fine. Quegli hooligans cercavano lo
scontro, questo ci racconta il libro, e cercavano
d’uccidere, dopo aver fatto crescere l’eccitazione con
fiumi di alcol. Nelle pagine successive i lettori
troveranno ricostruzioni esatte e agghiaccianti. Un
testimone così racconta: "Queste cose dovete scriverle.
Quelli del Liverpool avevano pistole, forbici, coltelli,
spranghe. Hanno ammazzato un ragazzo con un lanciarazzi,
ho visto tutto con i miei occhi… È cominciato tutto col
lancio di razzi. Dalla zona degli inglesi ne è arrivato
uno, poi un altro e un altro ancora. Il quarto razzo ha
colpito in pieno un tifoso. Era a venti metri da me.
L’ho visto cadere, era una maschera di sangue. Nessun
poliziotto è intervenuto".
I lettori troveranno
spiegazioni, opinioni, denunce. Troveranno le cronache
dei processi, i pareri degli avvocati. Troveranno le
parole di Otello Lorentini, l’anziano padre di Roberto,
uno dei morti dell’Heysel cui è dedicato il libro.
Roberto è morto mentre tentava di salvare un bambino
ferito con la respirazione bocca a bocca. Quando
Caremani chiede il motivo per cui ha deciso di
costituire l’Associazione tra le famiglie delle vittime
di Bruxelles, Lorentini risponde che non poteva
sopportare che si pensasse anche solo per un attimo che
"39 persone erano morte da sole, per pura fatalità".
Arrivando alla fine del libro, quelle parole saranno una
delle chiavi di lettura dell’intera vicenda, perché quel
giorno della fine di maggio del 1985 furono gli uomini e
non il Fato a decidere come in un’antica arena romana se
avesse dovuto esserci il pollice verso, e fu così che
morirono gli innocenti dell’Heysel: qualcuno li uccise,
qualcuno lasciò fare. Caremani è un ottimo giornalista.
Ci emoziona, ci commuove anche, eppure ci avverte a ogni
passo di non lasciarci distogliere dal dolore, perché
oltre il dolore deve esserci giustizia. Non è un lieto
fine, quello che l’autore ci racconta, né potrebbe
esserlo, poiché non c’è letizia per chi ha perso i
propri amici e familiari, ma c’è un risultato importante
che l’impegno di Otello Lorentini e di altri riescono a
raggiungere: la condanna della Uefa non è solo un atto
giudiziario, ma indica un dovere di assunzione di
responsabilità. Caremani sa bene che la giustizia degli
uomini non è infallibile, ma è conscio di come quella
sentenza rappresenti davvero un fatto storico per la
giurisprudenza. Questo libro è prezioso e bellissimo. Lo
è perché ci ammonisce a non dimenticare, e perché narra
puntualmente e con notizie verificate tutto ciò che è
accaduto; ma lo è anche perché è un libro d’inchiesta
che ha dentro la passione del diario, della pagina
biografica. Caremani dichiara che questo è il libro che
non avrebbe voluto mai scrivere, eppure ciò che è
avvenuto ha trasformato queste pagine nel "suo libro".
Dentro e dietro il cumulo di dimenticanze, di
superficialità, di pressappochismo, di mancanze, di
colpe, l’autore indaga con la passione di chi ha
ricevuto il testimone più scomodo: quello della memoria.
Egli raccoglie indizi, ascolta e riferisce, forse
affinché quel suo dolore si asciughi almeno un poco, e
davvero quel dolore, quel nodo scuro, quel groppo alla
gola che Caremani si portava dentro, si trasformano in
coraggio e tenacia. La rabbiosa voglia di sapere diventa
forte denuncia civile, diventa un pezzo di storia da
leggere e conservare, diventa testimonianza lucida e
critica di un massacro evitabile. Voglio bene a questo
libro: è un grande atto d’amore verso trentanove
innocenti, e un monito a non perdere la strada
dell’umanità e della pietas.
Maggio 2010
Fonte: HEYSEL Le verità
di una strage annunciata (Bradipolibri
2010)
Introduzione di Roberto
Beccantini
Non esiste libro più attuale di
questo. Già il titolo, "HEYSEL, le verità di una strage
annunciata", fa capire che siamo sempre a metà del
guado. E sono passati venticinque anni. Francesco
Caremani ha deciso di ritornare sulla tragedia che
affiorò dalla pancia di Juventus-Liverpool, il 29 maggio
1985. Idea nobile e grande. Mi ha chiesto, Francesco,
cosa volessi fare della mia introduzione. Ho deciso di
lasciarla tale quale. Non per pigrizia, ma perché non la
considero "vecchia". Era il 2003, quando uscì il libro.
Il 2 febbraio scorso abbiamo celebrato, in sordina, il
terzo anniversario dell’uccisione dell’ispettore di
polizia Filippo Raciti, morto il 2 febbraio 2007 allo
stadio Cibali di Catania, durante il derby con il
Palermo. Violenza da stadio, con il calcio ora mezzo ora
fine. Siamo il Paese degli slogan ("Tolleranza zero") e
dei tornelli. Siamo quelli che un nero non può essere
italiano (Mario Balotelli). Siamo sempre quelli. Ho
citato parole e fatti successivi all’Heysel e, dunque,
alla prima edizione delle sue "Verità". Tutto passa,
tutto si tiene. Al di là degli aggiornamenti, curati
dall’autore, resta il dramma di una carneficina che ci
ha insegnato poco, fedeli all’"homo homini lupus" del
filosofo inglese Thomas Hobbes. Non bisogna abbassare la
guardia. "Gli stadi italiani sono in mano agli ultrà",
parole e musica di Fabio Capello. L’ha detto, e
ripetuto, "dopo", non "prima". In mano agli ultrà e,
aggiungo io, alle televisioni, spesso non meno
estremiste e faziose dei nuovi barbari. L’Heysel rimane
una ferita immane che riga la memoria e sfigura molte
coscienze che, non solo in Italia, sanno di averla fatta
sporca. Ritornarci sopra significa scacciare la
tentazione indecente di metterci una pietra sopra.
Venticinque anni e trentanove morti dopo.
Premetto: sono juventino e ho
sposato Liliana con la musica di "You’ll never walk
alone", l’inno del Liverpool, la squadra inglese del mio
cuore. Lo era prima dell’Heysel, lo è rimasta dopo.
C’ero anch’io, quella sera. Lavoravo per la Gazzetta
dello Sport, avevo contribuito a preparare un inserto
celebrativo che, come tale, sarebbe uscito soltanto in
caso di vittoria. Naturalmente, non uscì. Ricordo che
faceva caldo e che all’improvviso, in una porzione di
stadio alla mia sinistra, si scatenò l’inferno.
Trentanove morti sono il prezzo dell’apocalisse e
possono diventare la ragione di un libro, questo. Un
libro scomodo, va detto subito. E di parte. Ma della
parte giusta. Francesco Caremani ha scavato fra lacrime
e autopsie, spiegando come e perché allo sdegno e al
dolore provocati dalla carneficina, evitabilissima, si
siano aggiunti altro sdegno e altro dolore, per le
lungaggini di una burocrazia troppo distratta e per il
disimpegno di un apparato sportivo che si è chiamato
fuori dalla tragedia con disgustoso senso di
irresponsabilità. Era il 29 maggio del 1985. L’Heysel è
stato buttato giù e ricostruito, adesso si chiama stadio
"re Baldovino", e del settore Z, il famigerato settore
Z, trappola fatale e mortale, è scomparsa ogni traccia.
In realtà, l’Heysel e il suo "gulag"
vivranno sempre.
Mai come quella sera sarebbe bastato un briciolo di
efficienza organizzativa per scongiurare l’eccidio. Le
autorità belghe e l’Uefa peccarono di omessa
prevenzione. La furia degli hooligans inglesi completò
l’infame opera. Lo straziante paradosso è che l’ecatombe
di Bruxelles è servita più agli inglesi che a noi, più
agli aggressori che agli aggrediti. A ogni incidente,
non si parla che del loro modello e delle loro leggi, dure, severe, immediate. Noi ci abbiamo capito poco. E
siamo sempre lì, a morderci la coscienza, un decreto e
un emendamento, un emendamento e un decreto. Se non
proprio l’io narrante, Otello Lorentini, che all’Heysel
perse il figlio, Roberto, è una sorta di Virgilio che
scorta l’autore nell’inferno del "durante" e del "dopo".
Lorentini è stato il presidente dell’Associazione
costituita fra le famiglie delle vittime di Bruxelles.
Ha trasformato la sofferenza, indicibile, in energia
propositiva e riparatrice, ha sfidato tutti, e a tutti
ha bussato, pur di evitare che "quella povera gente
morisse una seconda volta". Non è stato facile, e ci è
voluto tempo. Qualcosa, alla fine, ha ottenuto.
Imbarazzi, diffidenze e reticenze ne hanno accompagnato
la strenua azione di rottura. Al posto di Giampiero
Boniperti avrei nascosto e poi
riconsegnato a chi di
dovere quella stramaledetta coppa. La partita venne
giocata esclusivamente per scongiurare altre risse,
altri lutti. Fu vinta su un rigore non meno inesistente
della inesistenza del diritto a considerare ufficiale
una recita così macabra e così fuori del mondo (il mondo
civile). Impossibile dimenticare certe scene di
esultanza, impossibile non stigmatizzarle: anche se dal
pulpito i fendenti costano meno e vengono meglio. La
memoria va allenata, e queste pagine sono palestra per
esercizi che la pigrizia degli italiani tende
sistematicamente a schivare, soprattutto se portatori di
ricordi agghiaccianti e di atteggiamenti non proprio
edificanti. Al di là dei risarcimenti, e del poco o
molto che è stato fatto, non bisogna mai arrendersi
all’inerzia. L’Heysel è un peso che ci portiamo dentro.
Non riusciremo mai ad appoggiarlo da qualche parte. Non
sarebbe neppure giusto. Trentanove morti per una partita
di calcio. Forse (anche) per biglietti smerciati alla
carlona, sicuramente per ubriachezza molesta e carenza
di ordine pubblico. La campana del destino prima o poi
suona per tutti, ma quando i rintocchi assordano uno
stadio, non resta che ribellarsi. O documentarsi, come
ha fatto Francesco. Senza astio, senza paura, senza
secondi o terzi fini. Pane al pane. L’Heysel è stato una
tragedia. La speranza è che la contabilità del sangue e
delle urla aiuti a prevenirne altre. Perché il tempo sia
galantuomo, serve che lo siano anche gli uomini, e le
loro istituzioni. Leggete queste pagine: non scoprirete
novità sconvolgenti. Scoprirete, semplicemente, com’è
stato duro accendere una candela di giustizia. Una
candela, non un lampadario.
Maggio 2010
Fonte: HEYSEL Le verità
di una strage annunciata (Bradipolibri
2010)
Presentazione di Andrea
Lorentini
Quando Francesco Caremani,
l’autore di questo libro, mi ha chiesto di scrivere
alcune righe di presentazione ho accettato ben
volentieri perché la violenza nello sport e nel calcio
in particolare è qualcosa che mi tocca da molto vicino.
Sono vittima di questa violenza: mio padre è deceduto
allo stadio Heysel di Bruxelles quella tragica sera del
29 maggio 1985. Io, bambino di appena tre anni, non ho
ricordi particolari di mio padre, ma dai racconti dei
miei familiari traspare un uomo generoso a tal punto da
sacrificare la vita per aiutare, nella sua qualità di
medico, i connazionali feriti sugli spalti. Vado
enormemente fiero di questo suo gesto, la sua immagine
d’uomo altruista, buono e affettuoso mi accompagnerà per
tutta la vita. Nonostante ciò lo sport è la mia più
grande passione e sono diventato giornalista per poter
raccontare il calcio nella sua espressione più pura,
poiché lo ritengo un importante veicolo d’incontro
culturale e un significativo collante per la nostra
società. Il calcio e la violenza sono due aspetti che
non hanno e non devono avere niente in comune; calcio
significa divertimento, salute, socializzazione, sano
agonismo; il calcio aiuta a crescere, insegna il
rispetto per l’avversario e queste sono regole di vita
che un uomo si porta dentro per sempre. Della mia
"esperienza" di calciatore ricordo tutto con molto
piacere; quegli anni mi hanno arricchito profondamente,
mi hanno fatto vivere un’adolescenza meravigliosa.
Sconfiggere la violenza è un dovere morale e civile di
ogni uomo; purtroppo, ancor oggi assistiamo a episodi di
teppismo, a scene di violenza e d’intolleranza che non
hanno niente a che vedere con il calcio. È e sarà una
lunga battaglia, ma mi auguro che con l’impegno di tutti
il gioco del pallone sia soltanto puro e semplice
momento di festa. Il calcio è vita perciò, a chi ne è
protagonista attivo, chiedo di trasmettere la gioia di
vivere che questo sport porta con sé, con la speranza
che tutto ciò che gli nuoce sia sconfitto. Mi auguro che
questo libro apra una profonda riflessione affinché la
società prenda coscienza che una tragedia come quella di
Bruxelles non debba ripetersi mai più.
Maggio 2010
Fonte: HEYSEL Le verità
di una strage annunciata (Bradipolibri
2010)
L'Heysel di Francesco
Caremani
di Giulio Gori
Tutto parte da una vicenda
personale. E’ il 30 maggio 1985 e Francesco, un
ragazzino di Arezzo di poco più di 15 anni, riceve dalla
madre una notizia che sembra quasi non avere senso:
"Roberto è morto, Roberto non c’è più".
Roberto Lorentini è una delle 39 vittime
dell’Heysel ed è un caro amico della famiglia Caremani.
E’ da questo dolore privato che nasce "Heysel. La verità
di una strage annunciata" che molti anni dopo,
Francesco Caremani, diventato giornalista, scriverà per
raccontare l’inchiesta su una tragedia con troppi
responsabili, ma anche per testimoniare l’eroica lotta
per la giustizia di Otello Lorentini, il padre di
Roberto. L’"Heysel" di Caremani è la storia di un’enorme
montagna di vergogna. Dallo stadio vecchio
e inadeguato che diventa una trappola mortale, alla
ridicola organizzazione dell’evento sportivo; dalle
tante, troppe resistenze opposte alla ricostruzione
della verità dei fatti, fino a indegni inviti a
"metterci una pietra sopra". Per non parlare di quelle
esultanze, inopportune, dei giocatori bianconeri che
calpestano tra sorrisi e braccia alzate la dignità delle
vittime e dei loro famigliari. E’ il racconto di una
battaglia giudiziaria che dei semplici ma risoluti
cittadini conducono, infine vincendola, contro le
istituzioni civili e sportive; e della lotta per far sì
che la tragedia non finisca nell’oblio. "Heysel. La
verità di una strage annunciata" è un libro che fa male.
Da un lato ci sono i nomi e i fatti, indicati con
precisione e coraggio; come quando Otello risponde a
Boniperti: "Anch’io l’ho messa la pietra, ma di marmo
sopra la tomba di mio figlio". Dall’altro nette ci sono
anche le responsabilità di noi tifosi, che a volte con
troppa superficialità pensiamo al 29 maggio 1985 come la
data di una vittoria calcistica, di un trofeo da mettere
in bacheca. Sotto questo aspetto, Caremani è risoluto,
la Juventus dovrebbe restituire quella Coppa dei
Campioni. Se, sotto il profilo del precedente, questa
scelta forse non sarebbe opportuna, perché restituire un
trofeo a seguito di una tragedia potrebbe rappresentare
in futuro un incentivo alla violenza per le tifoserie
sconfitte, sul piano umano e sportivo non c’è invece
modo per sentire "nostra" quella vittoria. "Questo è il
libro che non avrei voluto scrivere" dice Francesco Caremani.
Per noi, invece, quella è la Coppa che non avremmo mai
voluto vincere.
29 maggio 2013
Fonte: Juventibus.com
Tanta emozione
ricordando l’Heysel
di Benedetta Montagnoli
Pubblico numeroso ad
ascoltare lo scrittore Caremani, Pizzul e Vignola
MANTOVA - Le verità di una
strage annunciata. L’autore del libro, Francesco
Caremani, ci tiene al plurale "perché ci sono tante
piccole verità che riguardano la gestione del prima e
del dopo la partita". Sala degli Stemmi gremita ieri
sera e momenti da brividi durante il ricordo narrato e
la visione dei filmati della strage dell’Heysel del 29
maggio 1985 a Bruxelles. Una tragedia che si tende a
dimenticare e che si riannoda col presente relativamente
agli stadi non all’altezza della situazione e della
cultura sportiva poco presente nel nostro paese.
L’autore aretino non era all’Heysel, ma vi morì un amico
di famiglia e la vicenda l’ha segnato profondamente. Il
popolare telecronista Bruno Pizzul e l’ex calciatore
Beniamino Vignola parlano di una preparazione alla
partita inadeguata e di un’atmosfera che già al
pomeriggio lasciava presagire qualcosa di brutto. Alla
serata presenti personalità del calcio dilettantistico
mantovano, come i delegati Figc Rasori e Bertazzoni.
L’assessore Tonghini ha portato il suo saluto.
5febbraio 2013
Fonte:
Gazzettadimantova.it
Notiziario di
TeleMantova del 5.02.2013:
intervista a Bruno Pizzul e
servizio sulla serata evento in
ricordo della tragedia dello
stadio Heysel del 4.02.2013
Durante la trasmissione
di Telemantova "Il Calcio sui
Maccheroni" del 24.1.2013 Giulio
Giovannoni e Stefano Aloe
annunciano la serata evento in
ricordo della tragedia dello
stadio Heysel con ospiti Bruno
Pizzul, Beniamino Vignola e
Francesco Caremani, autore del
libro "Heysel, la verità di una
strage annunciata". Moderatori
della serata : Stefano Aloe e
Gianni Veronesi. Presente anche
l'assessore allo sport Enzo
Tonghini.
Heysel, una storia da
non cancellare
di Massimiliano Morelli
Francesco Caremani, aretino,
giornalista e scrittore, è un buon padre di famiglia ed
è considerato nel mondo dei giornali, il cosiddetto
"uomo macchina". Quello che si rimbocca le maniche
quando un collaboratore si dimentica di mandare un
articolo e si mette a scriverlo, quel pezzo "assente";
quello che impagina il giornale, che fa i titoli, che
scatta fotografie e corregge le bozze. Praticamente un
innamorato del suo lavoro, con buona pace di chi c'è
capitato per caso nell'editoria. Non era presente
all’Heysel, nel 1985, per una semplice coincidenza. Ma
su quella tragedia, che gli ha tolto affetti, ha scritto
un libro-verità. Sono trascorsi 27 anni dalla tragedia
dell’Heysel, e finalmente il libro è stato presentato
anche in Belgio. Qual è la sua percezione per quel che
riguarda l'attenzione dei belgi nei confronti del
disastro del 1985 ? "Ho presentato il libro in Belgio
grazie all'avvocato Daniel Vedovatto, all'epoca legale
dell'Associazione tra i familiari delle vittime di
Bruxelles, e grazie all'Associazione Amici Banca Monte
Paschi della
capitale belga. Con questo cosa voglio dire
? Voglio dire che l’attenzione degli italiani in Belgio
verso la tragedia dell'Heysel è ancora molto alta e il
ricordo tristemente vivo. I belgi ? Bah, per loro è solo
una vergogna nazionale da cancellare, senza riuscirci".
Errori ne furono commessi a valanga nel corso di quella
maledetta sera. Senza voler togliere il gusto della
lettura a chi approfondirà l'argomento, chi sbagliò
quella sera ? "Prima di quella sera sbagliarono
clamorosamente l'Uefa e le istituzioni politiche e
sportive belghe scegliendo il peggior stadio d'Europa,
per una finale di Coppa dei Campioni. E solo per
meschini motivi d'incasso. Quella sera sbagliò la
polizia belga, assolutamente impreparata, e gli
hooligans. Per me: mandanti e assassini". Lei doveva
essere lì, a Bruxelles, quel 29 maggio... "Ero amico
della famiglia Lorentini (Roberto è morto tentando di
salvare un connazionale e per questo è medaglia
d'argento al valore civile), avevo fatto una scommessa
con mio padre, ma un 5 a latino ha segnato il mio
destino, chissà...". Quali sono state le reazioni
all'uscita del suo libro ? Intendo quelle della
Juventus, dell'Uefa, delle istituzioni locali... "Totale
indifferenza, sia dell'Uefa che delle istituzioni
sportive italiane e, con grande stupore e tristezza
personale, della Juventus. Ad Arezzo, invece, abbiamo
avuto due vittime (Roberto Lorentini e Giuseppina Conti)
e il ricordo è ancora molto forte, la città l'ha accolto
con grande attenzione e rispetto". Lo stadio nel
frattempo ha cambiato anche denominazione, da Heysel a
stadio di Re Baldovino. E’ una sensazione, o davvero i
belgi cercano in qualche maniera di cancellare il
passato ? "lo credo che se potessero lo abbatterebbero,
lo cancellerebbero. Alla fine lo stadio è sempre lì, poi
c'è la targa e la stele a memoria delle 39 vittime
dell'Heysel. Mi ripeto, non riusciranno mai a cancellare
la memoria di quella strage e la vergogna per la totale
incompetenza di un Paese intero". L'Inghilterra adottò
da quell'epoca provvedimenti importanti nei confronti
dei tifosi, e oggi pare che si vedano i risultati. In
Italia, invece, ho l'impressione che si sia rimasti
all'anno zero. Una semplice sensazione ? "Lo dice anche
Roberto Beccantini nell'introduzione: i carnefici hanno
imparato più delle vittime. Attenzione, però, in
Inghilterra hanno tolto la violenza dagli stadi non
dalla società e, comunque, i provvedimenti sono stati
presi dopo la strage di Hillsborough non dopo quella
dell’Heysel, dei nostri morti non gli importò mai
niente, purtroppo. Imbarazzante, alla luce di tutto
questo la situazione del calcio italiano e dei suoi
stadi dopo l'85, come se niente fosse successo, mah…".
Qual è stata la reazione dei parenti delle vittime alla
pubblicazione del libro ? "Emanuela Casula, che ha perso
padre e fratello, ha detto che il mio libro è la sua
personale Bibbia. Otello Lorentini (allora presidente
dell'Associazione tra i familiari delle vittime di
Bruxelles e voce narrante del libro) prima di mandarlo
in stampa mi ha detto: "Bene Francesco, questa è la
verità di quello che è accaduto quella sera e dopo".
Alcuni mi hanno "rimproverato" la crudezza del racconto
e l’idea di restituire quella coppa".
29 novembre 2012
Fonte:
Sportclubmagazine.it
Heysel - Le verità di
una tragedia annunciata
di Federico Pancaldi
Gli inglesi pagarono caro quel
29 maggio 1985 di barbarie hooligan allo stadio Heysel
di Bruxelles, che portò alla morte di 39 tifosi
juventini (i feriti furono centinaia): pagarono gli
hooligans a livello penale; pagarono i clubs inglesi a
livello sportivo, con cinque anni di esclusione dalle
competizioni internazionali; e per un tragico gioco del
destino pagarono gli stessi tifosi del Liverpool quattro
anni dopo, nel 1989, quando 92 di loro persero la vita
nello stadio Hillsborough di Sheffield in circostanze
agghiaccianti, molto simili a quelle dell’ Heysel. Chi
pagò con molto ritardo e inadeguatamente per le degeneri
organizzazione e gestione di quella finale di Coppa dei
Campioni – "la partita del secolo" tra Juventus e
Liverpool trasformatasi nella "tragedia del secolo", per
usare le parole di Marino Bartoletti - furono, invece,
la Uefa e le autorità belghe. Nel suo libro, Heysel. Le
Verità di una Strage Annunciata (Bradipo Libri),
Francesco Caremani ha pochi dubbi: "Gli inglesi furono i
carnefici, la Uefa e le autorità belghe i mandanti". In
uno stile vivido, appassionato, Caremani racconta la
lunga battaglia processuale condotta dall’avvocato
Daniel Vedovatto e dalle famiglie delle vittime italiane
per vedere riconosciute le verità di quel pomeriggio: le
responsabilità della Uefa che scelse quello stadio
decrepito, delle autorità belghe che deliberatamente
ignorarono la pericolosità degli hooligans del
Liverpool, e dell’imbelle polizia belga che non
contrastò il loro assalto alla curva juventina. Una
battaglia vincente quella di Vedovatto, che portò alla
condanna dell’Uefa e dei responsabili belgi della
sicurezza nel 1991. Una battaglia determinante che -
sostiene Caremani - fece sì che da allora si
sviluppassero "tutte quelle misure di sicurezza che oggi
circondano eventi sportivi di questo genere". Caremani
racconta la tragedia dell’Heysel come di una strage il
cui significato per le famiglie delle vittime - tra cui
quella dell’amico aretino Roberto Lorentini - trascende
le piccolezze dello sport. Da tifoso juventino, non ha
ritrosie a denunciare il comportamento della società
bianconera: dalla decisione di permettere lo svolgimento
della partita, ai festeggiamenti per la vittoria della
Coppa, alla lunga rimozione forzosa della memoria di
quei fatti. Caremani, però, induce soprattutto a
trasformare il rispetto verso la memoria delle 39
persone perite all’ Heysel in un debito monito a non
sottovalutare quei fatti sociali che circondano il
calcio, e che vanno ben oltre gli aspetti sportivi ed
economici: partendo proprio dal tifo organizzato.
25 ottobre 2012
Fonte: Ilcatenaccio.es
Francesco Caremani
in Trasmissione
del 15.10.2012
Francesco Caremani
ricorda a Bruxelles la tragedia dell'Heysel
"HEYSEL, le verità di una
strage annunciata", il libro scritto da Francesco
Caremani (Bradipolibri editore), con la voce narrante di
Otello Lorentini, la prefazione di Walter Veltroni e
l’introduzione di Roberto Beccantini, è stato presentato
a Bruxelles, martedì 9 ottobre, presso l’Espace Banca
Monte Paschi Belgio, in Avenue d’Auderghem. Davanti a un
centinaio di spettatori, alle autorità belghe e
italiane, insieme con l’autore erano presenti l’On.
Gianni Pittella, membro della Commissione cultura e
istruzione presso il Parlamento europeo, Carolina Morace,
opinionista e grande ex del calcio femminile italiano, e
l’avvocato italo-belga Daniel Vedovatto, già legale
dell’Associazione dei familiari delle vittime di
Bruxelles; ha moderato l’incontro Enrico Tibuzzi,
responsabile ANSA ufficio di Bruxelles. Ospite d’onore
Antonio Tajani, vice presidente della Commissione
europea. Il 29 maggio sono passati 27 anni dalla strage
dell’Heysel, dove morirono 39 persone, di cui 32
italiani, prima di assistere alla finale di Coppa dei
Campioni Juventus-Liverpool. Il libro, presentato per la
prima volta in Belgio, è stato quindi l’occasione per
ricordare ciò che è accaduto e anche per parlare di
sicurezza nello sport e relativa legislazione, in Italia
e in Europa. Dimostrazione anche di quanta strada è
stata fatta dalla pubblicazione di "HEYSEL, le verità di
una strage annunciata", attraverso un percorso di
memoria, troppo spesso bistrattata, e dignità dei
familiari delle vittime, che grazie a Otello Lorentini e
all’avvocato Daniel Vedovatto hanno ottenuto giustizia
facendo condannare l’Uefa, in un processo lungo,
estenuante e anch’esso dimenticato troppo presto e
troppo in fretta. Una condanna che ha fatto
giurisprudenza, poiché da quel momento il massimo
organismo di calcio europeo è diventato responsabile
delle manifestazioni che organizza.
12 ottobre 2012
Fonte: Sporteconomy.it
Assurdo Heysel: 39
morti per una partita di pallone
di Massimiliano Morelli
Ci sono storie che un
giornalista mai e poi mai vorrebbe raccontare. Ma ci
sono storie, le stesse, che devono essere raccontate.
Siamo schietti, spieghiamo subito che in questo caso,
diventa ancor più difficile l’impresa per il cronista in
questione, perché l’autore del libro Heysel, le verità
di una strage annunciata (Bradipolibri, 15,00 euro, pp.
248), è un giornalista sportivo. Dunque tutto avrebbe
immaginato, tranne che un giorno si sarebbe trovato a
descrivere una finale di coppa dei campioni che si
trasformò in massacro. Francesco Caremani, aretino,
classe 1969, s’è servito della voce narrante di Otello
Lorentini, della prefazione di Walter Veltroni e
dell’introduzione di Roberto Beccantini per descrivere
uno dei giorni più tristi del football, la partita
Juventus - Liverpool datata 29 maggio 1985. Ecco, sono
trascorsi 27 anni dalla strage dello stadio belga dove
morirono 39 persone. Trentadue erano tifosi italiani. Il
libro in questione sarà presentato a Bruxelles, martedì
9 ottobre. Davanti agli invitati, alle autorità belghe e
italiane, insieme con l’autore saranno presenti Antonio
Tajani, vice presidente della Commissione europea;
Gianni Pittella, membro della Commissione cultura e
istruzione presso il Parlamento europeo e Carolina
Morace, opinionista e grande ex del calcio femminile
italiano; e con loro l’avvocato italo-belga Daniel
Vedovatto, già legale dell’Associazione dei familiari
delle vittime di Bruxelles. Il libro, presentato per la
prima volta in Belgio, si trasforma in una occasione
utile per ricordare ciò che è accaduto; e permetterà
anche di parlare nel merito della sicurezza nello sport
e delle relative legislazioni, in Italia e in Europa.
Una vera e propria dimostrazione anche di quanta strada
è stata fatta grazie alla pubblicazione del libro,
realizzato attraverso un percorso di memoria, troppo
spesso bistrattata, e di dignità dei familiari delle
vittime, che grazie a Lorentini e Vedovatto hanno
ottenuto giustizia facendo condannare l’Uefa, in un
processo lungo, estenuante e anch’esso dimenticato
troppo presto e in fretta. Una condanna che ha fatto
giurisprudenza, poiché da quel momento il massimo
organismo di calcio europeo è diventato responsabile
delle manifestazioni che organizza.
9 Ottobre 2012
Fonte: Ilpuntonto.com
Servizi di Massimiliano Morelli per la
Trasmissione Sportiva di OLIMPOPRESS (TV online)
del 5.10.2012
Heysel, le verità di
una strage annunciata
Caremani racconta
l’unica inchiesta italiana sulla strage
Il 29 maggio 1985 allo stadio
Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei
Campioni Juventus-Liverpool, muoiono 39 tifosi
bianconeri. Muoiono nel settore Z, schiacciati e
soffocati dalla calca, sotto i colpi degli hooligans
inglesi instupiditi dall’alcool, con la connivenza
decisiva delle autorità belghe, della polizia locale e
dell’Uefa, incapaci di prevedere e d’intervenire. Una
tragedia annunciata che si è abbattuta con disperante
drammaticità sul calcio come sport e sulle coscienze di
tutti noi come uomini prim’ancora che come sportivi.
"L’Heysel - ricorda Roberto Beccantini nell’introduzione
- rimane una ferita immane che riga la memoria e sfigura
molte coscienze che, non solo in Italia, sanno di averla
fatta sporca". Tutti hanno raccontato quello che è
successo prima di Juventus-Liverpool, molti hanno
raccontato il durante e il dopo, anche il proprio, ma
nessuno s’è mai veramente addentrato nelle scomode
verità. "Questo libro è prezioso e bellissimo - scrive
Veltroni nella prefazione. Lo è perché ci ammonisce a
non dimenticare, e perché narra puntualmente e con
notizie verificate tutto ciò che è accaduto; ma lo è
anche perché è un libro d’inchiesta che ha dentro la
passione del diario, della pagina biografica". Gli
effetti personali rubati, l’arroganza delle autorità, la
lunga, faticosa e snobbata battaglia legale portata
avanti dall’Associazione delle vittime, da Otello
Lorentini che in Belgio ha perso l’unico figlio Roberto;
medaglia d’argento al valore civile per essere morto
tentando di salvare un connazionale. L’umanità
calpestata di 39 famiglie tra meschinità d’ogni genere.
Questo libro è un atto dovuto alla memoria e alla
dignità di 39 persone che hanno perso la vita per
assistere a una partita. Per ricordare ciò che
l’ambiente calcio ha cercato troppo spesso e troppo in
fretta di dimenticare. "Leggete queste pagine -
sottolinea Beccantini: scoprirete com’è stato duro
accendere una candela di giustizia. Una candela, non un
lampadario".
24 settembre 2012
Fonte:
Sportmediaset.mediaset.it
Libri-Sarà presentato a Bruxelles"HEYSEL, le verità di una strage annunciata"
"HEYSEL, le verità di una
strage annunciata", il libro scritto da Francesco
Caremani (Bradipolibri editore), con la voce narrante di
Otello Lorentini, la prefazione di Walter Veltroni e
l’introduzione di Roberto Beccantini, sarà presentato a
Bruxelles, martedì 9 ottobre. Davanti agli invitati,
alle autorità belghe e italiane, insieme con l’autore
saranno presenti l’On. Gianni Pittella, membro della
Commissione cultura e istruzione presso il Parlamento
europeo, Carolina Morace, opinionista e grande ex del
calcio femminile italiano, e l’avvocato italo belga
Daniel Vedovatto, già legale dell’Associazione dei
familiari delle vittime di Bruxelles; modera l’incontro
Enrico Tibuzzi, responsabile ANSA ufficio di Bruxelles.
Ospite d’onore sarà Antonio Tajani, vice presidente
della Commissione europea. Il 29 maggio sono passati 27
anni dalla strage dell’Heysel, dove morirono 39 persone,
di cui 32 italiani, prima di assistere alla finale di
Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool. Il libro,
presentato per la prima volta in Belgio, è quindi
l’occasione per ricordare ciò che è accaduto e anche per
parlare di sicurezza nello sport e relativa
legislazione, in Italia e in Europa. Dimostrazione anche
di quanta strada è stata fatta dalla pubblicazione di
"HEYSEL, le verità di una strage annunciata", attraverso
un percorso di memoria, troppo spesso bistrattata, e
dignità dei familiari delle vittime, che grazie a Otello
Lorentini e all’avvocato Daniel Vedovatto hanno ottenuto
giustizia facendo condannare l’Uefa, in un processo
lungo, estenuante e anch’esso dimenticato troppo presto
e troppo in fretta. Una condanna che ha fatto
giurisprudenza, poiché da quel momento il massimo
organismo di calcio europeo è diventato responsabile
delle manifestazioni che organizza. L’appuntamento è per
martedì 9 ottobre 2012, ore 18.30, all’Espace Banca
Monte Paschi Belgio, Avenue d’Auderghem 22/28, B-1040
Bruxelles; seguirà un ricevimento. Omissis (N.D.R. Mail
Banca).
21 settembre 2012
Fonte: Sporteconomy.it
Francesco Caremani a
Fidenza
Alla "Vecchia Talpa" la
presentazione di "HeyselLe verità di una strage
annunciata" di Francesco Caremani nella serata di sabato
24 marzo 2012 alla libreria di Luca Frazzi, introdotto
da Remo Gandolfi.
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Heysel, storia di una
strage annunciata – Il libro di F. Caremani
di Barza
Barzainter cerca da anni di
farvi sorridere, ma oggi voglio condividere con voi una
riflessione seria. Ieri sera si sono incontrate Italia e
Inghilterra nei quarti di finale dell’Europeo con un
finale emozionante. Durante il commento spesso si è
parlato della grande sportività dei tifosi inglesi che
tifano per la loro squadra nella buona e nella cattiva
sorte. Vero, questa è la parte del tifo buono, ma
purtroppo il tifo non è solo quello. Mi hanno infatti
anche colpito le immagini del grande numero di stewart
(saranno stati almeno un centinaio se non di più…) che
presidiavano e controllavano proprio la curva dei
supporter inglesi e così il mio pensiero,
inevitabilmente, è volato al 29 Maggio 1985, una data
infausta per il calcio, la data in cui persero la vita
39 angeli. Una tragedia che in tanti, in troppi troppo
spesso dimenticano o, ignobilmente, deridono o ne
calpestano la memoria… E allora oggi voglio parlarvi del
libro che ho appena terminato di leggere e che ne
racconta fino in fondo la storia, Heysel storia di una
strage annunciata, il libro del bravissimo giornalista
aretino Francesco Caremani. Il libro è un autentico
pugno nello stomaco, una lettura che ti colpisce nelle
emozioni e nei sentimenti, perché ancora oggi non si
riesce a credere come il calcio possa aver generato una
tragedia simile. E la tragedia purtroppo non è accaduta
solo sul campo: ha toccato le famiglie dei morti e dei
feriti, calpestati prima da chi voleva dimenticare, poi
dalla burocrazia, poi da chi, come l’UEFA o il
borgomastro di Bruxelles, non voleva che fosse fatta
giustizia… E’ però più di tutti la determinazione di un
uomo, Otello Lorentini che farà sì che almeno un po’ di
giustizia sia fatta. E’ a lui e all’Associazione tra i
Familiari delle vittime dell’Heysel, da lui fondata, che
infatti si deve se ora l’UEFA è responsabile di tutto
ciò che accade nelle manifestazioni da lei organizzate.
Prima non era così e non lo sarebbe stato neanche dopo
il primo grado. E’ solo alla determinazione e la voglia
di giustizia di Otello, oltre a quella del bravissimo
avvocato belga Daniel Vedovatto e all’onestà dei giudici
che hanno scritto le sentenze, che si deve il fatto che
la sentenza venisse ribaltata in appello.
Otello
Lorentini è un sopravvissuto dell’Heysel ed è il padre
di Roberto, medaglia d’argento al valore civile, che ha
trovato la morte sugli spalti dell’Heysel perché, da
buon medico e da padre di famiglia, pur essendosi già
messo in salvo era tornato sugli spalti di quel
maledetto settore Z, per soccorrere e praticare la
respirazione bocca a bocca a un bambino che era rimasto
ferito. Sarà l’ultima immagine che quel povero papà avrà
di suo figlio, morto da eroe, ma sempre vivo nel ricordo
in mezzo alla sua famiglia come amano dire i suoi figli,
anche loro testimoni di quella atroce tragedia. Io non
avevo neanche 10 anni quando successero i tristi fatti
dell’Heysel, ma ricordo ancora quella sera, ricordo che
guardando quelle immagini che arrivavano in diretta da
Bruxelles mi chiedevo, con la innocenza di un bimbo,
come mai potesse accadere una cosa del genere per il
calcio e non sapevo ancora che un bimbo di 2 anni più
grande di me avrebbe perso la vita proprio lì… Questo è
un libro che racconta proprio a chi non l’ha vissuta
direttamente o a chi è troppo giovane per averlo fatto
tutto quello che accadde e tutto ciò che generò la
follia di certi animali da stadio, per far si che non si
perda mai la memoria di ciò che avvenne e che il triste
sacrificio di chi non è riuscito a tornare dall’Heysel
(ma anche di chi è rimasto, ma ha avuto la vita
indelebilmente segnata da quel triste giorno) non sia
avvenuto invano. Mai più deve accadere una cosa del
genere. Il libro che Francesco Caremani probabilmente
non avrebbe mai voluto scrivere, è un libro d’inchiesta,
ma anche un libro che vuole raccontare chi erano tutte
quelle persone che sono state ignobilmente colpite prima
e calpestate poi nella loro dignità e come ben dice
Walter Veltroni che ne ha curato la prefazione è un
libro bellissimo e prezioso perché ci ammonisce a non
dimenticare, e perché narra puntualmente e con notizie
verificate tutto ciò che è accaduto. Il libro racconta
le testimonianze private, i racconti dei sopravvissuti,
ma anche quelle pubbliche, dai giornali dell’epoca, ci
racconta come venne condotta l’inchiesta della
magistratura belga, con tutte le magagne che vennero
alla luce, non solo le incredibili manchevolezze del
servizio d’ordine dentro e fuori dallo stadio (gli
stewart davanti alla curva degli inglesi erano molti di
più di tutti gli agenti messi a presidiare l’Heysel), ma
anche delle profanazioni dei cadaveri e dei furti
perpetrati ai danni delle povere vittime, degli atti
ignobili fatti dai belgi ai danni degli italiani, non
solo quella sera, di come il Belgio (e non solo,
purtroppo…) volesse mettere una pietra sopra su tutto
facendo finta che non fosse mai accaduto, cercando, fra
le altre cose, di impedire nel 1990 anche la posa dei
fiori davanti al maledetto settore Z a Baresi in un
Malines-Milan giocato nello stesso stadio. (Baresi, per
la cronaca, li mise lo stesso, dimostrandosi uomo vero).
Ci racconta di Roberto Lorentini e della giovane Giusy
Conti, i due aretini che hanno perso la vita quella
sera, della enormi difficoltà incontrate durante il
processo, della latitanza della società Juve (perpetrata
praticamente fino all’avvento di Andrea Agnelli…) nello
stare vicino all’Associazione tra i familiari delle
Vittime dell’Heysel e di come, dopo anni duri,
finalmente un po’ di giustizia sia stata fatta, oltre a
quanto non sia stato assolutamente semplice fare sì che
il ricordo non venisse calpestato anche dopo 10 e 20
anni… Questo è un libro che a mio avviso dovrebbero
leggere tutti, soprattutto coloro che si accalorano,
anche troppo, per una partita di calcio, che dovrebbe
rimanere sempre quello che è, uno sport, non una
battaglia. Ci sta arrabbiarsi, ma c’è un limite che a
mio avviso non dovrebbe essere mai superato. Facciamo
sì, ricordandoci ogni giorno che il calcio è solo uno
sport, che i 39 angeli non siano morti invano. La Juve
ha voluto ricordare gli Angeli dell’Heysel nella notte
dell’inaugurazione del nuovo stadio in uno dei momenti
più toccanti della serata a cui ho avuto la fortuna di
partecipare. Ricordo la commozione e le lacrime che
solcavano i volti delle persone che avevo vicino. So che
Andrea Agnelli ha detto che nel J-Museum vi sarà uno
spazio dedicato gli Angeli, bene io avrei due proposte:
il ritiro della maglia n. 39 della Juventus in memoria e
propongo che quella coppa sia messa nel museo della
Juventus, avvolta in un drappo nero e con i nomi dei 39
angeli scritti sotto. Non era una coppa da festeggiare,
ma ora deve rimanere da memento perché questa storia non
si ripeta mai più !
25 giugno 2012
Fonte: Barzainter
L'Heysel 26 anni dopo
fa ancora più male
Un libro spiega perché
ne "La verità di una strage annunciata" Francesco
Caremani ricorda la tragedia ma anche tutte le
umiliazioni successive.
A volte l'esercizio doloroso e
difficile di tenere viva la memoria incontra la
diffidenza, l'ostilità e il sincero fastidio di quanti
vorrebbero, per cattiva coscienza o per quieto vivere,
cancellare tutto con uno schiocco di dita e andare
avanti. Come i dittatori sul punto di trattare la resa,
chiedendo in cambio impunità e amnistie. Così i padroni
del vapore avrebbero preferito stendere un velo sulla
notte dell'Heysel. Derubricarla a fatalità, tragico
incidente, scherzo del destino. E passare subito oltre:
questa è una storia da dimenticare, è una storia da non
raccontare, avrebbe detto De André. Perché è una storia
che ha sbriciolato favole, apparenze, ipocrisie, ha
spezzato vite e illusioni, in un intreccio ignobile di
violenza e stupidità che non ha avuto ragione del
coraggio dei familiari delle vittime. Tra questi, Otello
Lorentini, padre di Roberto, uno dei 39 morti (fu ucciso
mentre tentava di salvare un ferito praticandogli la
respirazione bocca a bocca; gli fu assegnata una
medaglia d'argento al valore civile: se fosse stata
d'oro, sarebbe stato obbligatorio un vitalizio... ): la
sua ostinata battaglia per ottenere giustizia è al
centro della ristampa del libro di Francesco Caremani,
Heysel. La verità di una strage annunciata. Riunendo gli
altri familiari in un'associazione, Lorentini ha
affrontato un lungo viaggio nel dolore, accompagnato
dalla vigliaccheria di quanti avrebbero potuto dire e
fare e hanno preferito il silenzio, frasi di
circostanza, omissioni e bugie. Fino alla clamorosa
vittoria giudiziaria della condanna definitiva
dell'Uefa, che da allora è sempre corresponsabile di ciò
che accade negli impianti in cui si disputano le partite
dei propri tornei. Una sentenza che, condannando anche
lo Stato belga e la Federazione belga, rispecchiava
l'indignazione di Federico Sordillo, presidente della
Figc nell'85: "O le forze dell'ordine hanno ingannato la
Federazione belga non mantenendo ciò che avevano
promesso, o la Federazione belga ha ingannato tutti noi
non avendo mai richiesto un certo tipo di tutela e di
collaborazione alle forze dell'ordine". Ma prima del
verdetto, una lunga e ignobile sequenza di umiliazioni:
i festeggiamenti dei giocatori in campo mentre sugli
spalti si consumava la tragedia, le commemorazioni in
tono minore e controvoglia, quando non addirittura
vietate, l'indifferenza, la solidarietà rifiutata, la
decisione di porre i bidoni dell'immondizia sotto la
targa dello stadio, completamente ristrutturato e
ribattezzato Re Baldovino, la lentezza e la negligenza
della giustizia belga, le frasi offensive di chi voleva
far passare i familiari delle vittime come sciacalli, o
di quelli che la pensavano come Carmelo Bene ("che
volete che sia per un po' di morti", disse al Processo
del lunedì). Restano, ai giorni nostri, i cori di tifosi
ostili alla Juventus, conti alla rovescia da 39 a zero e
altre raffinatezze, che si ripetono senza suscitare
scandalo: solo poche righe nelle cronache con la
precisazione che si tratta di "pochi esagitati". È così
che quei morti vengono uccisi di nuovo.
23 giugno 2011
Fonte: L'Unità
Heysel, una strage
annunciata di Francesco Caremani
Recensionedi Luigi Mastrangelo
Dopo aver letto poche pagine,
vorresti smettere. Eppure non è una recensione negativa,
questa a Francesco Caremani (Heysel. Le verità di una
strage annunciata, Bradipolibri, Torino, 2010, pp. 227),
tutt'altro. Il libro è ottimo tecnicamente, scritto con
buona fluidità e pieno di informazioni documentate e
testimonianze attendibili, arricchite dalla prefazione
di Walter Veltroni. Il desiderio di chiuderlo e metterlo
via viene dal contenuto, un vero pugno nello stomaco del
lettore che, però, non osa lamentarsi di fronte al
dolore vero, quello delle 39 vittime e degli oltre
quattrocento feriti del 29 maggio 1985 a Bruxelles. Quel
giorno, nell'inadeguato stadio belga macabro teatro
della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e
Liverpool, si consumò "la morte del calcio" e, ancor
peggio, quella di tanti esseri umani convenuti in un
luogo, solo teorico, di sport. Tra di loro, anche due
tifosi di Francavilla al Mare, Rocco Acerra e Nino
Cerullo, oltraggiati dalla furia degli hooligans e,
nelle tristi operazioni successive, dalla superficialità
delle autorità e dei medici legali belgi. Proprio le
procedure adottate dagli organizzatori locali e dalla
federazione calcistica europea sono state ricostruite,
grazie alla tenacia dell'associazione dei parenti delle
vittime, evidenziando le (ir)responsabilità di quanti
hanno concorso a trasformare una partita in una
terribile mattanza. Tanta solerzia nella richiesta di
giustizia da parte degli italiani, probabilmente, non è
stata gradita in una città, particolare non irrilevante,
sede delle istituzioni europee. Lo testimonia la vicenda
di un altro tifoso, Ercole D'Alma (alcuni giornali
locali scrissero Sergio Dalma, altri D'Ambra),
elettricista di Bruxelles originario di Pescara: in
occasione della partita, incredibilmente giocata ancora
all'Heysel, tra Milan e Malines cinque anni dopo, venne
malmenato senza motivo dalla polizia locale solo perché
"voi italiani siete come gli inglesi".
19 aprile 2011
Fonte:
Quotidianodabruzzo.it
Caremani: "Heysel
tragedia immensa da non dimenticare mai"
Ospite in radio di "Tutti pazzi
per la Juve" è questa volta Francesco Caremani, autore
del libro edito da Bradipolibri "HEYSEL, le verità di
una strage annunciata". Caro Francesco, benvenuto su
RADIO POWER STATION. Tu sei l'autore del libro "Heysel,
la verità di una strage annunciata". "Sì, in verità può
sembrare un titolo presuntuoso, ma sono tante piccole
verità messe insieme che raccontano quella immane
tragedia" Francesco, facci un sunto del libro.
"Sinteticamente: come ho scritto, l'incapacità delle
autorità del Belgio e dell'UEFA di organizzare una
finale di Coppa dei Campioni, non ci dimentichiamo che
in quel momento Juventus e Liverpool erano le squadre
più forti del mondo. Poche finali infatti sono
paragonabili a quella, era stata definita infatti la
finale del secolo. Tutto questo però era stato
organizzato in uno stadio assolutamente inadeguato,
oltretutto in ristrutturazione, infatti gli inglesi
hanno potuto trovare diversi calcinacci di ogni tipo.
Oltretutto loro non erano nemmeno stati perquisiti
all'ingresso dello stadio, cosa che invece è avvenuta
per i tifosi italiani. Quel settore poi doveva essere
neutro, ma in qualche modo dei biglietti erano arrivati
in Italia, in circostanze ancora oggi misteriose. Io ero
andato col gruppo di Arezzo (N.D.R. Francesco Caremani
non è stato all’Heysel, si tratta di una trascrizione o
interpretazione errata dell’autore dell’articolo
nell’intervista), che insieme a quello di Bassano del
Grappa e Cagliari è stato l'unico ad avere dei morti.
Uno di questi ha ricevuto poi la medaglia d'argento al
valor civile per essere morto tentando di salvare un
connazionale". C'è ci dice malignamente che gliel'hanno
data d'argento e non d'oro per non pagare la pensione
alla famiglia... "Guarda, io ho scritto il libro a
quattro mani con Lorentini, che ha un significato molto
profondo per me, è una cosa che da un grande valore al
libro. Infatti Lorentini è stato il presidente
dell'associazione delle famiglie dei caduti dell'Heysel,
ed è l'unico che ha seguito direttamente i processi,
riferendo
poi agli altri. E proprio lui mi ha confermato
che qualcuno molto discretamente gli aveva detto che la
medaglia era stata data d'argento e non d'oro proprio
per questo. Le famiglie infatti non hanno mai chiesto
nulla, sono state lasciate da sole, e questo libro spero
serva non a consolarle, ma a rafforzarne la memoria. Il
mio libro è diverso da tutti gli altri che sono usciti
sull'argomento: oltre a raccontare l'evento, racconta
anche il dopo, perché infatti è il dopo che secondo me
ha creato questo vuoto durato quasi 20 anni. Infatti è
solo dopo 20 anni che qui ad Arezzo siamo riusciti a far
intitolare due piazze ai caduti, a far tenere
un'amichevole in loro memoria tra le primavere di
Juventus e Liverpool, e a far erigere una lapide". Non
so se c'eri lo scorso Maggio alla giornata della memoria
a Torino. "No, non c'ero, ma grazie ai racconti che mi
sono stati fatti e ai video che ho potuto vedere, ho
capito che è stata una giornata incentrata molto sulla
memoria e non sull'orgoglio Juventino, e di questo vi
ringrazio. Non sarà mai troppo quello che faremo per
ricordare 39 angeli innocenti".
29 Novembre 2010
Fonte: Juvenews.net
Francesco Caremani
Heysel - La verità di
una strage annunciata
di Alberto Rossetto
Il libro in questione in realtà
è la ristampa riveduta ed aggiornata di quello uscito
nel 2004, ma soprattutto è un atto dovuto alla memoria
ed alla dignità di chi ha perso la vita per assistere ad
una partita di calcio. Memoria e dignità che autorità
belghe ed assassini inglesi hanno da subito cercato di
annientare e far dimenticare attraverso arroganza ed
impreparazione i primi, con alcool e violenza i secondi.
Non a caso l'autore si avvale della testimonianza di
Otello Lorentini, presidente dell'Associazione delle
vittime dell'Heysel che faticosamente, con dolore e
coraggio, sbatte in faccia al lettore le crudeli
meschinità subite dalle trentanove famiglie delle
vittime, la lunga, difficoltosa e per certi versi
snobbata battaglia legale intrapresa. Una strage
annunciata e puntualmente verificatisi per la cecità
dell'Uefa nel far giocare una finale di Coppa dei
Campioni con una tifoseria a rischio in uno stadio
inadeguato e gestita ancora peggio sia dalla stessa Uefa
che dalla polizia belga. Quella apertasi il 29 maggio
1985 è una ferita che non si rimarginerà mai e poco
importa se, come detto all'inizio, il volume è una
ristampa, anzi ben venga, perché ciò che conta è tenere
sempre la viva la memoria di quelle povere vittime.
Semmai l'unico elemento che stride in questa sorta di "J'accuse"
calcistico, sono gli interventi di Roberto Beccantini
(ormai ex giornalista de La Stampa ma che con la
presenza dell'Avvocato non godeva certo di quegli spazi
concessigli da altri) e Valter Veltroni (ex sindaco di
Roma che si ricorda della "sua" Juve solo dopo la
scadenza del mandato politico), due personaggi che si
definiscono tifosi juventini, ma che con la juventinità
nulla hanno a che vedere, come ben si è visto nei loro
comportamenti post farsopoli.
16 settembre 2010
Fonte:
Bianconerionline.com
Heysel, con Veltroni e
Caremani
Presso la Sala delle Feste del
Consiglio regionale della Toscana, in Via Cavour 18 a
Firenze, Walter Veltroni e Francesco Caremani presentano
i loro libri: "Quando cade l’acrobata, entrano i clown"
e "HEYSEL le verità di una strage annunciata", 25 anni
dopo la strage di Bruxelles, prima della finale di Coppa
dei Campioni Juventus-Liverpool. Sarà presente Andrea
Lorentini, giornalista e figlio di Roberto, vittima
della curva Z e medaglia d’argento al valor civile, per
essere morto mentre tentava di salvare un connazionale.
Coordinerà il Consigliere regionale Enzo Brogi. Il 29
maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della
finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, sono
morte 39 persone. Muoiono nel settore Z, schiacciate e
soffocate dalla calca, sotto i colpi degli hooligans
inglesi instupiditi dall’alcool, con la connivenza
decisiva delle autorità belghe, della polizia locale e
dell’Uefa, incapaci di prevedere e d’intervenire. Una
tragedia annunciata che si è abbattuta con disperante
drammaticità sul calcio come sport e sulle coscienze di
tutti noi come uomini prim’ancora che come sportivi. Una
ferita aperta e mai rimarginata, perché non si può e non
si deve morire di calcio. Quattro le vittime toscane:
Bruno Balli di Prato, Giuseppina Conti di Arezzo,
Giancarlo Gonnelli di Ponsacco e Roberto Lorentini di
Arezzo. Da quei drammatici ricordi sono nati due libri,
quello di Francesco Caremani, giornalista aretino, che
ha ripercorso la cronaca del durante e, soprattutto, del
dopo Heysel, e l’altro dell’Onorevole Walter Veltroni,
scritto come monologo teatrale, in onore alla memoria
delle 39 vittime. Per ricordare ciò che l’ambiente
calcio ha cercato troppo spesso e troppo in fretta di
dimenticare.