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Italia, primavera del 1975. Nei
pressi di Mantova, Pier Paolo Pasolini sta girando Salò
o Le 120 giornate di Sodoma. Poco distante, nei dintorni
di Parma, Bernardo Bertolucci lavora al film Novecento.
Nel giorno del compleanno di Bertolucci, il 16 marzo,
viene organizzata una partita di calcio tra le due
troupe. Il campo è quello della Cittadella, a Parma,
intorno al quale sono raccolti tutti i protagonisti di
questa storia: Pasolini, Bertolucci, ma anche Alberto,
un bambino intimorito dalla solitudine, e Vincenzo, un
terrorista nero con una agghiacciante missione da
compiere. Alberto Garlini racconta attraverso le vicende
dei suoi protagonisti la perdita dell’innocenza di un
intero Paese, di cui la figura di Pasolini è l’emblema.

La Coppa maledetta
di Alberto Garlini
Un’ora prima della finale
iniziò la strage. Un bel fresco primaverile che calava
sui riflettori, sui tetti di Bruxelles. Il cielo color
arancio pareva il riverbero del rosso delle bandiere
inglesi, delle maglie, delle canotte, delle pitture
tribali sui volti barbarici. Nel settore Z dell’Heysel i
tifosi juventini erano stati mischiati agli hooligans,
ubriachi dalla sera precedente. A dividerli solo una
rete di metallo e dieci poliziotti belgi. Una bomba a
orologeria, una bomba pronta a esplodere. Provocazioni.
Qualche pisciata sulla bandiera bianconera, qualche
sfottò. Gli juventini reagirono spaventandosi, strinsero
i figli, dissero alle mogli di allontanarsi con un
ultimo abbraccio. La paura li uccise. Gli inglesi
odorarono la paura, sentirono la paura dell’altro gruppo
come un afrodisiaco dell’orda, come il sapore del calore
di una cagna. Capirono di non avere a che fare con
ultras armati, ma con famiglie in gita domenicale, che
qualche speculazione aveva portato lì, a farsi
massacrare. E se c’era da massacrare, si doveva
massacrare. La prima onda sembrò un’illusione ottica,
come se l’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse
agitando. I rossi si spostavano verso i bianconeri,
ritmicamente, dal punto più lontano a quello più vicino
alla tribuna centrale. Una ola che portava morte.
Presero ad attaccare armati di bottiglie rotte, spranghe
e legni raccolti in un cantiere edile incautamente
lasciato accessibile a pochi passi dallo stadio. I
vecchi mattoni delle gradinate si sbriciolavano come il
pane e fornivano proiettili da lanciare, la rete fu
strappata, i poliziotti si dileguarono presi dal panico.
Gli juventini per sfuggire agli attacchi si pressarono
scompostamente al muretto alla loro destra,
schiacciandosi gli uni con gli altri. Non c’erano vie di
fuga o erano del tutto insufficienti a quella emergenza:
solo una porticina di ottanta centimetri in entrata e
un’altra di uguali dimensioni verso il campo.
Quest’ultima oltre tutto presidiata dai poliziotti belgi
che non intervenivano alle scorribande degli inglesi, ma
bastonavano selvaggiamente gli italiani che cercavano
scampo sul verde del prato. Gli ordini erano ordini, si
dovevano evitare le invasioni. Rimaneva un’unica
possibilità, schiacciarsi contro il muretto. E così la
gente moriva, tagliata, bastonata, pestata, asfissiata.
Negli spogliatoi si sapeva dei morti: non se ne
conosceva il numero preciso, né le circostanze nei
dettagli, ma si sapeva della strage. In seguito la
versione ufficiale avrebbe negato l’evidenza, affermando
che non erano giunte notizie della gravità di
ciò
che accadeva. Ma i giocatori sapevano, come potevano non
sapere ? Arrivavano frotte di tifosi negli spogliatoi
per farsi medicare. Gente piangente, insanguinata
ovunque, sul volto, lungo il corpo, senza scarpe senza i
giubbotti, con tracce di unghie stampate sulle spalle,
come tentativi di rimanere attaccati alla vita. I
brividi, il freddo, il tremore, lo shock. (...) Platini
e Scirea facevano la spola fra l’infermeria e l’arbitro
per portare medicinali, garze, e quello che poteva
servire. Anche tè caldo, anche sciarpe, anche solo una
parola di conforto. Intanto qualcuno più coraggioso
usciva alla luce del verde, ritornando con ragguagli
mostruosi. (...) L’attimo dopo il litigio, dopo la
morte, quando non c’è più azione, ma il residuo
dell’azione. Quando lo schiaffo è schioccato, ma resta
il residuo dello schiocco. Quando il lutto è nella zona
di nessuno della ridicolaggine. Quando al tribunale dei
morti l’innocenza non è ancora provata. Angeli ridenti,
angeli disperati. I corpi sopra i corpi, accatastati
come quarti di animali sulla pista d’atletica. Gli
uomini agonizzanti, l’incredulità che stringeva mani
inerti, un medico italiano che bestemmiava. Le transenne
usate come barelle da infermieri che tentavano
tracheotomie. Tanto sangue, gole aperte. Assurdi
gendarmi a cavallo che andavano su e giù roteando i
manganelli. E poi vedere una donna dalla maglia bianca
chiudere il ventre aperto del marito, e una ragazza in
verde morire serafica con uno sguardo felice, e un padre
calvo reggere la testa di un bimbo morto. E i massaggi
cardiaci, le urla concitate, l’andirivieni isterico,
l’esplosione delle persone, il volo impazzito degli
uccelli impauriti, e questo frastuono di fondo e i canti
degli inglesi, ubriachi epici, come dopo le grandi
carneficine medioevali. E infine un cane, un cane
bianco, che faceva la guardia a un cadavere come fosse
quello del suo padrone. "Quando il trapezista muore,
entrano i clown..." disse Michel Platini in una
intervista dopo l’Heysel. Aggiunse: "Noi non siamo
clown..." ma nessuno gli credette. Ad avere progettato,
costruito e realizzato nei dettagli quel massacro erano
state le stesse persone che davano i soldi ai
calciatori. Le stesse identiche persone che avevano gli
assegni, i bonifici e pacchetti di carte da centomila
nelle ventiquattr’ore. Persone ben conosciute, quelle
che prendevano l’ottantatré per cento dell’incasso.
Biglietti in eccesso, stadi inadeguati, percentuali
pubblicitarie, ingaggi, iperboli giornalistiche si erano
trasformati in corpi morti, in carne macellata. Una
magia che stava negli uffici delle varie burocrazie, nei
pacchetti da centomila nelle mani dei calciatori. Nelle
macchine che si compravano, nelle donne che si
scopavano. Gli juventini decisero di non giocare. Si
riunirono, Scirea interpretò lo spirito del gruppo e
tutti se ne andarono sotto le docce, per lavarsi e
rivestirsi. Erano profumati e pronti per il pullman
quando arrivarono i dirigenti della squadra, il delegato
Uefa e l’arbitro. Discussioni, molte parole,
accavallate. Rispetto, prima di tutto, il rispetto non
manca mai, in un discorso che vuole fregarti. Nessuna
preclusione, ma ragioni di opportunità. Sia chiaro.
Ordine pubblico, forze dell’ordine insufficienti, animi
sovraeccitati, scontri all’uscita. Altre parole, altri
timori. Le persone che davano i soldi ai calciatori
volevano che i calciatori giocassero, che capissero la
necessità della partita. Temevano conseguenze peggiori
in caso di annullamento del match. "Ma come possiamo ?".
"Non è una vera finale, è un espediente...". "Ma come
possiamo ?". Gaetano Scirea fu scortato al microfono
dello stadio. Si udì dall’altoparlante una specie di
sospiro. La sua voce: "La partita verrà giocata per
consentire alle forze dell’ordine di organizzare
l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete
alle provocazioni. Giochiamo per voi...". Giochiamo per
voi. Con quella voce tremula, vecchia. Un nido di
rondine incollato ostinatamente al tetto. E la partita
si giocò. Sui morti. Condannando per sempre quelle anime
alla vergogna, al ridicolo. A vagare nell’inquietudine e
nell’angoscia dei processi e delle sentenze per
l’oltraggio subito. E alla fine ci fu anche la coppa.
Vinse la Juve per uno a zero, per un rigore inesistente.
E la coppa arrivò negli spogliatoi in una bara di legno,
e la bara si aprì e la coppa girò pure sotto le tribune,
alzata dalle mani festose, sul sangue dei morti, per il
giro d’onore. E i calciatori festeggiarono. E la
panchina saltò in aria al gol, per la felicità. Mentre
trentanove corpi ancora caldi, venivano squartati come
maiali nelle autopsie dei medici belgi.
Novembre 2004
Fonte: FUTBOL BAILADO (Sironi editore)
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