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LIBRI e HEYSEL 2009
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Mio padre era bellissimo  2009  Francesco Savio
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"Mio padre era bellissimo" è la più classica delle storie d’amore: quella tra un padre e un figlio che non hanno avuto il tempo di conoscersi, che non si sono potuti amare come sarebbe stato giusto, come avrebbero voluto. Nicola è un bambino di nove anni, passa i pomeriggi a sognare di vincere il Giro d’Italia, di giocare a calcio come Michel Platini, non può sapere cosa significa morire, non conosce il senso della frase che si sente ripetere: "tuo padre è venuto a mancare". Da quel giorno il mondo intero diventa incomprensibile, inadatte sono le parole per dirlo, inappropriati i sogni che Nicola continua a fare.

Francesco Savio è nato il 25 dicembre del 1974 a Brescia. Ha esordito nell’antologia Dylan revisited (Manni 2008) con il racconto Passi falsi. Lavora alla libreria Feltrinelli di Piazza Duomo a Milano. Questo è il suo primo romanzo.

Recensioni e altre informazioni

sul Blog di Francesco Savio 

Un ricordo dell’Heysel

di Francesco Savio

I pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli a cui ero abituato, a causa dell’assenza della bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina, dei documentari e delle fotografie. La cosa che li accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a casa. Per ingannare il tempo aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un quadernone a quadretti che conteneva le principali manifestazioni calcistiche d’Europa, tutte svolte da me. I vari campionati venivano disputati con il tiro dei dadi che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale imparzialità. Solo un paio di volte, quando la squadra per cui tifavo nella realtà così in prossimità del successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa un improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato il mio vicino di letto, un povero bambino al quale dovevano allungare una gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una gamba più corta dell’altra ? Eppure fin da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato con una gamba più corta dell’altra e periodicamente doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni, fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo come erano andate le cose, di questa piccola correzione in semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo in lieve senso di colpa. Era giusta questa vittoria ? Ogni tanto le infermiere passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero in campionato della Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli rispondevo, ma le speranze erano poche. La Juventus sembrava avere la testa altrove, le due milanesi facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto alla fine. Una sera da ingessato all’ospedale era la sera della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo stadio "Heysel" di Bruxelles. Non avevo la televisione ma, grazie a Dio, il bambino "allungabile" vicino di letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva girata quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io ero fortunato perché il mio braccio sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe avrebbe sofferto per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva fatto venire immediatamente la biligornia. Era l’undicesima operazione di allungamento che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile mi aveva chiamato per dirmi che era successo qualcosa di veramente brutto. La partita non cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da una delle curve di pietra dello stadio, verso qualcuno che potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il bambino allungabile osservavamo il capitano del Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea, annunciare: "Giocheremo questa partita solo per permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non rispondete alle provocazioni. State calmi, giocheremo". Il telecronista Bruno Pizzul alternava lunghi silenzi a frasi sconcertanti: "L’evento agonistico non ha più importanza…". "Sono morte trentanove persone…".

Giunta per la terza volta in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le mancava per diventare la prima squadra in Europa a trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più importanti del continente. I miei compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato fuori la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata, ma era così brutta che mi ero di nuovo addormentato. Perfino Platini giocava male. "Ehi sveglia! Sveglia! Rigore per la Juve ! Il bambino vicino di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per il rigore di Platini. Michel si era asciugato la fronte dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la schiena, era indietreggiato di un paio di passi fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa. Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di piatto. Gol. Platini aveva cominciato a correre per esultare, schivando l’arbitro e anche un compagno che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro verso una delle tribune dello stadio. Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio verso il cielo dopo averlo apparentemente "ricaricato" preparandone lo slancio con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più sorridere, con un’espressione più rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero. "Ma non è una partita vera…" aveva sentenziato il bambino con una gamba più corta. Platini aveva esultato in un modo che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro. Il sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso l’alto. La Juventus era campione d’Europa. La tragedia in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal crollo del muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò alla storia come la "strage dell’Heysel". La maggior parte delle vittime perse la vita per fenomeni legati alla compressione degli organi vitali. La partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni successivi i giornali mischiarono notizie sportive e cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e articoli che facevano prevalere l’orrore a danno della gioia. La Juventus era così la prima società a iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni organizzate dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una riparazione per quello che gli italiani presenti allo stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata dell’attaccante polacco Zbigniew Boniek, raggiunto da un lungo lancio millimetrico di Michel Platini, era stata sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai capelli rossi e con il bottone della maglietta allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto per uno a zero. Era il caso di restituire la coppa ? Le autorità belghe chiesero l’estradizione di ventisei teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage. Capocannonieri del torneo furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del Goteborg con sette reti.

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Fonte: Mio padre era bellissimo (Italic 2009)

Fonte Immagine e Testo: Francescosavio.blogspot.it


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