"Mio padre era
bellissimo" è la più classica delle storie d’amore:
quella tra un padre e un figlio che non hanno avuto
il tempo di conoscersi, che non si sono potuti amare
come sarebbe stato giusto, come avrebbero voluto.
Nicola è un bambino di nove anni, passa i pomeriggi
a sognare di vincere il Giro d’Italia, di giocare a
calcio come Michel Platini, non può sapere cosa
significa morire, non conosce il senso della frase
che si sente ripetere: "tuo padre è venuto a
mancare". Da quel giorno il mondo intero diventa
incomprensibile, inadatte sono le parole per dirlo,
inappropriati i sogni che Nicola continua a fare.
Francesco Savio è nato il 25 dicembre del 1974 a
Brescia. Ha esordito nell’antologia Dylan revisited
(Manni 2008) con il racconto Passi falsi. Lavora
alla libreria Feltrinelli di Piazza Duomo a Milano.
Questo è il suo primo romanzo.
Recensioni e
altre informazioni
sul Blog di Francesco Savio
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Un ricordo
dell’Heysel
di Francesco Savio
I pomeriggi ospedalieri erano nettamente
diversi da quelli a cui ero abituato, a causa
dell’assenza della bicicletta e del calcio, del
gelato e della salamina, dei documentari e delle
fotografie. La cosa che li accomunava era invece la
biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a
casa. Per ingannare il tempo aprivo, sopra il
tavolino per mangiare a letto, un quadernone a
quadretti che conteneva le principali manifestazioni
calcistiche d’Europa, tutte svolte da me. I vari
campionati venivano disputati con il tiro dei dadi
che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale
imparzialità. Solo un paio di volte, quando la
squadra per cui tifavo nella realtà così in
prossimità del successo da non poter lasciarselo
sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa un
improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima
di farlo avevo osservato il mio vicino di letto, un
povero bambino al quale dovevano allungare una
gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una
gamba più corta dell’altra ? Eppure fin da quando
era venuto al mondo il bambino vicino era nato con
una gamba più corta dell’altra e periodicamente
doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni,
fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse,
ad avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva.
Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo
come erano andate le cose, di questa piccola
correzione in semifinale. Alla fine la Juventus
aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo in lieve
senso di colpa. Era giusta questa vittoria ? Ogni
tanto le infermiere passavano e controllavano cosa
stavo facendo, poi mi chiedevano di illuminarle
sulla possibilità di recupero in campionato della
Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli
rispondevo, ma le speranze erano poche. La Juventus
sembrava avere la testa altrove, le due milanesi
facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di
Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una
faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe
visto alla fine. Una sera da ingessato all’ospedale
era la sera della finale di Coppa dei Campioni fra
Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si
giocava allo stadio "Heysel" di Bruxelles. Non avevo
la televisione ma, grazie a Dio, il bambino
"allungabile" vicino di letto, abituato a lunghi
soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva girata
quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io
ero fortunato perché il mio braccio sarebbe tornato
normale mentre lui con le sue gambe avrebbe sofferto
per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva
fatto venire immediatamente la biligornia. Era
l’undicesima operazione di allungamento che faceva.
Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi ero
risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile
mi aveva chiamato per dirmi che era successo
qualcosa di veramente brutto. La partita non
cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini
orribili. Uomini schiacciati da altri uomini
tendevano le braccia disperatamente da una delle
curve di pietra dello stadio, verso qualcuno che
potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le
gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il
bambino allungabile osservavamo il capitano del
Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla
cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era
toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea,
annunciare: "Giocheremo questa partita solo per
permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi.
Non rispondete alle provocazioni. State calmi,
giocheremo". Il telecronista Bruno Pizzul alternava
lunghi silenzi a frasi sconcertanti: "L’evento
agonistico non ha più importanza…". "Sono morte
trentanove persone…".
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Giunta per la terza volta
in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non
riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica
che le mancava per diventare la prima squadra in
Europa a trionfare nelle tre manifestazioni
calcistiche più importanti del continente. I miei
compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato fuori
la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato
Agnelli pagava gli arbitri ma riusciva a farlo solo
in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la
Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata,
ma era così brutta che mi ero di nuovo addormentato.
Perfino Platini giocava male. "Ehi sveglia! Sveglia!
Rigore per la Juve ! Il bambino vicino di letto mi
aveva chiamato apposta e appena in tempo per il
rigore di Platini. Michel si era asciugato la fronte
dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva
posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con
la schiena, era indietreggiato di un paio di passi
fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva
appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con
il corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa.
Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di
piatto. Gol. Platini aveva cominciato a correre per
esultare, schivando l’arbitro e anche un compagno
che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il
braccio destro verso una delle tribune dello stadio.
Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio
verso il cielo dopo averlo apparentemente
"ricaricato" preparandone lo slancio con l’altro.
Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più
sorridere, con un’espressione più rabbiosa, prima
che i compagni lo sommergessero. "Ma non è una
partita vera…" aveva sentenziato il bambino con una
gamba più corta. Platini aveva esultato in un modo
che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei
giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro.
Il sorriso di gioia atletica, il suo braccio
lanciato verso l’alto. La Juventus era campione
d’Europa. La tragedia in cui persero la vita
trentanove persone, provocata dal crollo del muretto
sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò
alla storia come la "strage dell’Heysel". La maggior
parte delle vittime perse la vita per fenomeni
legati alla compressione degli organi vitali. La
partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni
successivi i giornali mischiarono notizie sportive e
cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e
articoli che facevano prevalere l’orrore a danno
della gioia. La Juventus era così la prima società a
iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte
le competizioni organizzate dall’UEFA, ma il rigore
sembrò quasi una riparazione per quello che gli
italiani presenti allo stadio avevano subito. Era
punizione. La cavalcata dell’attaccante polacco
Zbigniew Boniek, raggiunto da un lungo lancio
millimetrico di Michel Platini, era stata sì
interrotta con un fallo da parte di un difensore del
Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai
capelli rossi e con il bottone della maglietta
allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro
aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus
aveva vinto per uno a zero. Era il caso di
restituire la coppa ? Le autorità belghe chiesero
l’estradizione di ventisei teppisti inglesi ritenuti
responsabili della strage. Capocannonieri del torneo
furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del
Goteborg con sette reti.
? ? 2009
Fonte: Mio padre era bellissimo
(Italic 2009)
Fonte Immagine e Testo:
Francescosavio.blogspot.it