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MICHEL PLATINI PARLIAMO DI CALCIO
Con Gérard Ernault.
Edizione italiana a cura di Tony Damascelli
"Il calcio è un amore che non
prevede tradimenti, separazioni, divorzi. È un’eterna
passione di baci e lacrime. Il calcio è un gioco prima
di essere un prodotto. Il calcio è uno sport prima di
essere un mercato. Il calcio è uno spettacolo prima di
essere un affare. Prima di partire per l’avventura che
avrebbe segnato la mia carriera, papà e mamma mi
vedevano giocare a pallone tra i tavolini del Café des
Sportifs di Joeuf, di cui erano proprietari. Qualunque
cosa mi capitasse tra i piedi - un’arancia, un gomitolo
di lana, una palla - ero un giocoliere, con le gambe,
con i piedi, provavo, riprovavo, dribblavo ombre,
avversari ipotetici. Avevo soltanto 3 anni, ma il
viaggio era già incominciato".
Parliamo
di calcio è una commedia che sfiora l’inferno, affronta
il limbo e sogna il paradiso. È l’esplorazione di un
mondo che gli amanti del calcio non conoscono, vale a
dire la storia vera di questo sport, il suo fascino
mondiale, la sua universalità, le sue radici, le sue
trasformazioni, il suo potere, i suoi limiti, le sue
leggi, la sua naturale bellezza, i suoi inganni, le sue
sofferenze, le sue tragedie, i suoi trionfi. Le pagine
coinvolgono illustri protagonisti del gioco, da Kopa a
Di Stéfano, da Puskás a Cruijff, da Maradona a Pelé ma
anche da Camus a Montesquieu, a Pascal, abbracciando
l’agone e la cultura, il letterato e il tifoso, il mondo
che gioca e ha giocato con una palla e il suo mistero. È
un’opera di studio e di scoperta, non un semplice
racconto di cose di football. Ne risulta l’amore
assoluto che Michel Platini ha per il pallone che è cosa
assai differente dal calcio, un rapporto infantile,
genuino, immediato, puro, che, tuttavia, deve fare i
conti con una realtà aspra, quella del denaro facile,
dei nuovi poteri che, comunque, non violenteranno mai lo
spirito originario di questo sport unico. Il viaggio è
lungo ma veloce e rapido. La storia del calcio non si
conclude con l’ultima pagina, l’ultima parola. Si ferma
lo spazio di un pensiero. E continua. Come la storia di
Michel Platini".
(Dalla presentazione di Tony
Damascelli)
Michel Platini è una leggenda
del calcio del XX secolo. Vero fuoriclasse, "Le Roi" ha
cominciato la sua carriera da professionista con il
Nancy AC nel 1973. Negli anni ottanta, mentre indossava
la maglia della Juventus, ha vinto consecutivamente tre
Palloni d’oro, unico giocatore nella storia del calcio
mondiale. Da allenatore ha guidato la nazionale francese
dal 1988 al 1992, è stato co-organizzatore della Coppa
del Mondo FIFA 1998 in Francia, mentre dal 2007 è
presidente dell’UEFA.
21 ottobre 2014
Fonte: Rcsmediagroup.it
Il cielo nero di
Bruxelles
Estratto dal libro
"Parliamo di calcio" di Michel Platini con Gérard
Ernault
Sul mio comportamento
all’Heysel uno potrà pensare quello che vorrà, ma sulla
purezza no, no, no. Ho già rivelato un giorno che,
sapendo che c’erano dei morti e avendoli come cancellati
dal mio spirito o respinti, ecco che il mio gesto mi
sembrava oggetto di psichiatria. L’ho ribadito a
Marguerite Duras qualche mese dopo. Se il mio
comportamento era sintomo di una "scienza" particolare,
questa era più la psichiatria che la filosofia. Se si va
sul terreno della psichiatria si scopre che gli uomini
non sono degli eroi, figuratevi gli sportivi. Senza
dubbio non sei un grande sportivo se non ti lasci andare
in un grande avvenimento senza dimenticare tutto ciò che
ti circonda e al tempo stesso ribellandoti a ciò che ti
circonda. Il senso di colpa più palpabile, più duraturo,
non è tanto nel gesto inappropriato, quanto nel fatto
che la partita si sia svolta in una situazione così
luttuosa. La morte di uno spettatore francese, un mio
tifoso venuto a vedermi, mi ha ossessionato. Lui
era il
riassunto di tutti gli altri morti. Lui era per me,
prima dell’Heysel, un tifoso come tanti che avevo
conosciuto, quelli che mi parlavano, che mi chiedevano
gli autografi e posavano con me nelle fotografie, ma
all’Heysel era diventato il volto del dramma. Il volto
della mia colpa, anche. Due ricordi mi perseguitano. Una
percezione incompleta, molto incompleta, quasi una
nebbia di una vita esterna che si racchiude nella nostra
vita interiore, nello spogliatoio, nella partita, nelle
ultime consegne, nel ritiro, nel silenzio. In quale
partita, in quale avvenimento ci ritroviamo ? Poi arriva
l’ordine di giocare, in contrasto con il nostro
desiderio di non giocare, facendoci intendere che ci
sono due, forse tre morti. Alcuni di noi vogliono
giocare, non perché si trattava del nostro lavoro, ma
perché era il nostro dovere se volevamo evitare che lo
stadio e forse la città andassero a ferro e fuoco. Così
Jacques Georges, allora presidente dell’Uefa, ci ha
illustrato la situazione. Abbiamo incominciato a
giocare, a livello emotivo, come se nulla fosse
accaduto, senza un attimo di pausa, football immediato,
duro, totale, esattamente quello choc tattico e mentale
che ci si poteva aspettare fra due squadre pronte a
darsele in una finale.
Quasi automi alla ricerca di una
normalità. Noi tutti eravamo calati in pieno rituale,
più o meno meccanico, e nell’oblio di certe circostanze.
E mi domando: è un oblio cosciente o incosciente ? Ho
voluto vendicare i tifosi della Juventus ? Ho voluto,
malgrado tutto, approfittare, un momento, un momento
solo, di una schiarita nel cielo nero di Bruxelles ?
Esorcizzare il dramma, rubando un momento di non dramma
? Dimostrare che il gioco è più forte della morte ?
Oppure ho soltanto voluto "qualcosa" ? Che cosa,
esattamente ? Trent’anni dopo, non è ancora chiaro nel
mio spirito ciò che è accaduto, forse non lo sarà mai, e
trent’anni dopo vorrei dire che non lo rifarei. Non
avrei dovuto attendere trent’anni, trenta minuti
sarebbero stati sufficienti. Non sono mai tornato
all’Heysel. Ma con il tempo ho cambiato idea. Lo sento
sempre di più necessario. Ma vorrei che questa visita
non avesse alcuna cornice di stampa e fotografi. Vi
andrò per raccogliermi in preghiera in quel cimitero che
è lo stadio, per me, il cimitero di tanti bambini,
donne, uomini. Credo che nel silenzio avrò da dire molte
parole a tutti loro. E a me stesso.
20 ottobre 2014
Fonte: La Repubblica
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