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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL |
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Una morale per il
calcio
strage
dello stadio Heysel di Bruxelles, avvenuta il 29 maggio
1985, ha cambiato per sempre la storia del calcio,
segnandone una delle pagine più nere. In quelle immagini
di morte e feroce insensatezza, riprese dalla tv e
impresse nel ricordo in modo indelebile, abbiamo visto
il gioco trasformarsi in dramma, l’evento sportivo in
una farsa oscena. In occasione del quarantesimo
anniversario della tragedia, questo appassionato saggio
di Pol Vandromme, in equilibrio tra memoria personale di
ex giocatore e tifoso e riflessione estetica sul calcio,
viene proposto nella prima traduzione italiana di
Massimo Raffaeli, che ne restituisce l’unicità dello
stile, la sua sorprendente qualità letteraria.
Fonte: Vydia Edtore
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Fotografie:
Vydia Edtore
© Lefigaro.fr
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Icona: Free Graphics ©
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Viaggio al termine dell’Heysel
Il lucido e macabro canto alla tragedia di Pol Vandromme.
Nella
sua versione protosemitica è rappresentata come due
rette che non si toccano: dev’essere stato con il
contatto, la tangenza, che la Z si è trasformata
nell’ultima lettera, e nella lettera degli ultimi. È
tutta una questione di intersezioni: con la Z inizia
anche la parola zenith, il punto in cui - in astronomia
- si incrociano la retta perpendicolare al piano
dell’orizzonte, quello in cui si trova lo spettatore, e
la superficie dell’emisfero celeste. A Bruxelles, allo
stadio Heysel, la sera del 29 maggio del 1985,
esattamente quarant’anni fa, "Z" è il nome della tribuna
mista in cui convivono i tifosi delle due squadre che
stanno per disputarsi la Coppa dei campioni: la Juventus
e il Liverpool. È il settore in cui entrano in contatto
due rette che non dovrebbero incontrarsi - non si
sarebbero dovute incontrare - mai: famiglie,
appassionati-non-esaltati, gente che con il mondo
dell’esasperazione del tifo - una parabola che negli
anni Ottanta si impenna vertiginosamente - non ha niente
a che vedere. I fatti di quella sera, che hanno avuto
come teatro la tribuna Z, avrebbero cambiato per sempre
la storia del calcio come eravamo abituati a conoscerlo,
segnandone una delle pagine più buie. Gli hoolingans del
Liverpool, armati di mazze e coltelli, costrinsero i
tifosi pacifici ad arretrare verso il muro alle loro
spalle, che implose su sé stesso. Nella calca moriranno
39 persone - 32 delle quali italiane, altre 600 ne
usciranno ferite.
A
rendere ancora più cupa la serata, però, non sarà solo
il lugubre bilancio, ma la prosecuzione di una farsa
obbediente al principio taylor-fordista del "the show
must go on": la partita si terrà, nonostante tutto. La
Juventus vincerà, ci saranno festeggiamenti, giri di
campo, la commedia dell’arte: un sabba in cui va in
scena la celebrazione della fine dell’innocenza. Il
nonsense di quella serata è narrato in (e sviscerato da)
una pletora di libri: in La notte dell’innocenza, uscito
nel 2015 per Rizzoli e nuovamente nelle librerie in
questi giorni per Einaudi, Mario Desiati scrive: "I fili
d’erba di quel prato hanno visto guerra e sangue fino a
pochi minuti fa, come possono adesso piegarsi sotto i
tacchetti di ferro di ventidue calciatori?". Il dilemma
se lo pone un Desiati bambino, mentre guarda lo
spettacolo in TV. Ma è lo stesso nodo gordiano attorno
al quale si arrovella la riflessione di un già adulto
Pol Vandromme, scrittore belga nativo di Charleroi (che
si definiva "belga di passaggio e provinciale di
Parigi"), Grand prix de l’Académie française nel 1982,
in un testo scritto immediatamente dopo la tragedia, di
getto, di pancia, "in un’unica presa di fiato, pervaso
da timore e tremore", e arrivato in Italia grazie a un
minuscolo editore marchigiano, Vydia Edizioni d’arte,
nella traduzione superba di Massimo Raffaeli
(traduttore, tra gli altri, di Céline e Artaud): Le
gradinate dell’Heysel. Una morale per il calcio (2025).
Le gradinate cui allude Vandromme sono il luogo mitico,
etereo, in cui si trova l’osservatore sull’ideale piano
dell’orizzonte, mentre sulla sua testa sfavilla e
implode lo zenith.
INCREDULITÀ
- "Il calcio è un racconto", scrive
Vandromme in apertura. "La memoria me lo ha recitato
ancor prima che avessi l’età della ragione. È una
memoria d’infanzia. Bisogna crederci. Bisogna credermi.
L’Heysel, un mercoledì sera, ci ha resi increduli". La
sospensione dell’incredulità è una condizione necessaria
in ogni patto tra scrittore e lettore, e lo è stato a
maggior ragione quella sera del 29 maggio tra spettatore
e protagonisti. Dal dramma che si inscena sotto gli
occhi di Vandromme, di tutti, sgorga un flusso di
coscienza tanto acuto quanto contrito, che si arrampica
come edera tra le pagine con una scrittura
"deragliante", come scrive Raffaeli, pieno sì di
rimpianti per l’arcadia mitica di un
calcio-che-muore-quella-sera, ma soprattutto attento a
dipingere, nelle sue sfumature più ferine, il calcio
come macelleria (anche sociale), come calamità naturale,
come Bestia. Un calcio come Méduse gericaultiana in
balia delle onde dei tempi, dell’ipocrisia dei tempi. In
un’intervista concessa ad Adalberto Scemma, Raffaeli
dice di aver fatto un’immensa fatica a tradurre questo
libro, con buona probabilità al di là della lingua
rigogliosa. "Era lì da dieci anni perché grandi editori,
con cui pure collaboro, solo a sentir parlare
dell’Heysel hanno sempre detto di no, inorriditi". C’è
da intendere che il blocco si origini non tanto dal tema
in sé, quanto dalla maniera in cui Vandromme, con una
lucidità che si spinge ai confini del cinismo, senza
troppi giri di parole ci mette di fronte alla
desacralizzazione di un profano sacralizzato: se
Pasolini definiva il calcio "l’ultima rappresentazione
sacra del nostro tempo", quella che prende vita
all’Heysel è un pandemonio, una tregenda, la resa
incondizionata alla Bestia "che colpiva per il piacere
di distruggere".
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Vandromme,
con una lucidità che si spinge ai confini del cinismo,
senza troppi giri di parole ci mette di fronte alla
desacralizzazione di un profano sacralizzato.
La posizione di Vandromme - uomo di una destra
libertina, buisonnière, anticonformista ma non
a-tutti-i-costi - è quella che oggi ascriveremmo ai
movimenti di pensiero che si scagliano
contro-il-calcio-moderno, figlio del mercantilismo
esasperato, del risultato per il risultato, della
mutazione del tifo, "da fenomeno individualmente
passionale e mitemente identitario a credo
fondamentalista, parareligioso e xenofobo, chissà
paramilitare". Nel "glaciale silenzio successivo alla
strage dell’Heysel" Vandromme vede la traduzione in
emblema dell’eclissi di una vicenda secolare, che
prendeva ad assumere - e che ha ancora - "i tratti di
un’involontaria e nera parodia". Il suo voyage au bout
de la nuit, tanto per rimanere "céliniani", è anche un
viaggio à rebours, verso le origini del processo di
incancrenimento: "Non mancavano segni che annunciavano
il disastro", scrive Vandromme: "I giocatori, nelle loro
tenute coperte di reliquie pubblicitarie, erano i re di
una preistorica negritudine. La corte tribale che li
adulava […] brandiva stendardi e raganelle come i loro
antenati le teste sulla picca"; "Era il mercante in
fiera, un concerto di sonagli al passo dei buffoni. Il
calcio era sempre un racconto, ma da jungla nera".
IL
TEATRO DELL’ABBRUTIMENTO E I SUOI ATTORI -
Quel che vede Vandromme, quella sera di maggio
all’Heysel, è "l’apoteosi della Bestia": la sublimazione
di una brutalità innata che, libera dalle costrizioni,
può scatenarsi fagocitante, "ghul e gorgone insieme":
una brutalità "parossistica, da lanzichenecchi. Una
brutalità quintessenziale, un’orchessa da topaia e
latrina". Un maelstrom che risucchia ed ammalia, un
canto di sirena irresistibile tanto più perché
normalizzato. Anzi, peggio: solennizzato. Nel descrivere
i tifosi che irrompono sulla scena del disastro
televisivizzato, Desiati nel suo La notte dell’innocenza
scrive che sono diversi da come vengono iconografizzati
oggi: "sono secchi, magri, scavati, non sembrano
mastodontici, muscolosi o robusti". Sono però,
nondimeno, specie gli inglesi, nelle parole di Vandromme,
"materia shakespeariana senza Shakespeare", che girano
"con la pece bollente e il tizzone in mano". Quel che
vede Vandromme, quella sera di maggio all’Heysel, è
"l’apoteosi della Bestia": la sublimazione di una
brutalità innata che, libera dalle costrizioni, può
scatenarsi fagocitante, "ghul e gorgone insieme".
Quella che si cristallizza all’Heysel, in effetti, è la
congiunzione astrale dei tre satelliti che oscurano il
sole calcistico che batte sul Regno Unito negli anni
Ottanta: la difficoltà di controllare il pubblico
(sebbene nella gestione dell’ordine pubblico, a
Bruxelles, quella sera, ci sarebbe da scrivere molto),
la fatiscenza degli stadi e soprattutto
l’inarrestabilità dell’onda di rabbia sociale racchiusa
in quello che per facilità, non senza un pizzico di
riduzionismo, chiameremo hooliganismo.
L’Inghilterra
aveva già avuto, diciotto giorni prima della tragedia di
Bruxelles, il suo Heysel intimo: l’11 maggio al Valley
Parade di Bradford era divampato un incendio,
cinquantasei persone avevano perso la vita, eppure quel
disastro avvenuto ai bordi dell’Impero non era riuscito
ad avere la risonanza - e a indurre a una rilettura
delle criticità - che avrebbe invece avuto una finale di
coppa, trasmessa in mondovisione. Il calcio, per
Vandromme, è alla stregua di "un ciclone, un tifone,
un’eruzione vulcanica: noi eravamo lì, e ci stavamo
accomodando". A danzare sull’orlo del cratere un’entità
complicata da contenere, pericolosa nella sua
indefinitezza, forte dell’armonia dell’uniformità,
quell’aggrumarsi organico che è sempre stato, nel
Novecento soprattutto, il campanello d’allarme della
sciagura: la folla. "Ogni folla è spaventosa", scrive
Vandromme, "tutto in essa si confonde e si dissolve […],
l’unione confusa e gregaria, l’unità del contronatura".
All’Heysel la folla caratterizzata (quella che fa della
brutalità da stadio qualcosa di sistematico) e la folla
indefinita (che si trova mescolata "intorno a un
bivacco, tanti biglietti per il jamboree, tutti venduti,
mercato nero in funzione, una pacchia") entrano in
combutta, si compenetrano: e la loro scissione atomica
mette a nudo un principio tanto quintessenziale quanto
difficile da accettare, cioè che "la ferocia è la nostra
natura, se non altro una sua parte, tuttavia la più
imperiosa". La folla è sempre foriera di disastro. Noi
siamo il disastro. "All’Heysel abbiamo ricevuto le
ultime notizie sull’uomo", ammette mestamente Vandromme,
"Ce le ha date la folla".
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QUANDO
CADE L’ACROBATA ENTRANO I CLOWN - La
nostalgia per gli Auld lang syne è sempre un termometro
pericoloso: messo a confronto con l’Arcadia perduta, il
dipanarsi degli eventi che costellano la nostra
quotidianità vive nel costante rischio della disattesa,
della delusione. Nell’estetica borghese "vandrommiana"
dello sport-come-diporto, è evidente che la visione
della tregenda Heyseliana sia la macchia di muffa
all’improvviso visibile sul muro, insostenibile agli
occhi. Che non è però solo figlia della degenerazione
sociale degli spettatori dello show calcistico, ma anche
della nuova (depauperata) etica degli attori.
Nell’infanzia di Vandromme "i giocatori avevano un
mestiere, alcuni battevano il ferro, altri estraevano
carbone nei pozzi": erano figli della loro terra e dei
loro tempi, e da loro profondeva la fatamorgana virtuosa
di un uomo vecchio che si denudava per vestire i panni,
allo stadio, dell’uomo nuovo. "Sai, è un avvocato" gli
dicevano di Jean Capelle, l’eroe della sua infanzia: il
fatto che fosse intelligente rafforzava l’apprezzamento
del genio in campo. I calciatori moderni, invece, per
Vandromme, Michel Platini, Zbigniew Boniek, Phil Neal,
Kenny Dalglish, non sono che "flatus vocis dentro al
sinistro orgasmo della Bestia insaziabile". Phil Neal,
il capitano del Liverpool, negli istanti immediatamente
successivi alla tragedia prese la parola: parlò ai
tifosi, richiamandoli alla calma, così come parlò allo
stadio Gaetano Scirea, capitano della Juventus, che con
la voce rauca disse "La partita verrà giocata per
consentire alla polizia di organizzare la protezione
durante l’uscita dallo stadio". "Restate calmi", chiosò,
"giochiamo per voi".
Ma
quella partita non sarà che "la messa solenne dopo il
sabba", certo imposta dai più alti vertici della Curia
calcistica, ma della cui celebrazione, nondimeno, i
calciatori saranno in qualche modo complici, chissà
quanto inconsapevoli; proprio quei calciatori che
"avevano carezzato la Bestia per il verso del pelo, e
mormorato all’Insaziabile le parole che invitano alla
calma"; "Platini al colmo della gioia dopo il calcio di
rigore vincente, il tumulto di una felicità dirompente,
i bengala e le luminarie, il giro d’onore sotto gli
evviva, l’isteria, la scempiaggine infernale". Di fronte
alla nausea, ai corpi senza vita ancora caldi, alla
"putrefazione che colava sui vivi". Per cercare di
spiegare il nonsense di quella serata, Vandromme usa una
metafora che tornerà nelle parole di Michel Platini
durante un’intervista concessa a Marguerite Duras per
Libération, nel 1987: Platini disse "quando cade
l’acrobata, entrano i clown"; Vandromme, due anni prima,
scrive "al circo, quando l’acrobata manca il trapezio,
lo spettacolo continua. Il cadavere dietro le quinte, i
clown in scena".
COSA
CI LASCIA L’HEYSEL - A quarant’anni di
distanza, l’isteria collettiva con la quale il calcio ha
saputo reinventare modi di gettare la polvere sotto il
tappeto persiste. Ci sarebbero state altre tragedie (Hillsborough),
altre nonchalance, altri asservimenti-al-male-minore,
alla tecnocrazia televisiva, alla mercificazione (il
Mondiale qatariota, su tutti, e quello prossimo a venire
in Arabia Saudita). La chiave di lettura di Vandromme
suona oggi magari un po’ demagoga, con leggere venature
riduzioniste, classiste e razziste ("un calcio si
giudica dalla teppacrazia che ingombra le gradinate
degli stadi, e un popolo dalla sua plebaglia", ma anche
"ogni lembo di terra ha il suo frumento e la sua
gramigna"): nondimeno, con la sua lingua pomposa,
prendendoci per mano in un viaggio alle radici di una
brutalità sempre più accettata, normalizzata, Vandromme
ci consegna una massima ancora oggi, probabilmente,
attualissima: "il calcio, con il rock e l’Islam, è
l’ultima grande religione di questo mondo". L’Heysel,
supernova esplosa nella tribuna Z, è stato uno
spartiacque innegabile: il vertice di una parabola
demoniaca, dell’escalation della violenza, della "neglettitudine",
dello spettacolo a ogni costo. Il punto più basso mai
raggiunto. Oltre il quale non si può scavare, forse. Ma
sono libri come quello di Vandromme, visioni lucide come
la sua, spadaccine e coscienti, ad aprire ancora uno
squarcio nella stratificazione della memoria, al cuore
delle cose. Dove si annidano gli ingranaggi con i quali
capire cosa abbiamo perso quel giorno, come ci siamo
arrivati, per non tornarci mai più.
Fonte: Iltascabile.com © 4 giugno 2025
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Un poeta all’Heysel -
Etica per il calcio
di
Paolo Di Stefano
Ora
esce, presso un minuscolo editore marchigiano, un libro
di Pol Vandromme, Le gradinate dell’Heysel, curato e
tradotto da Massimo Raffaeli. Sottotitolo: Una morale
per il calcio. Il belga Vandromme (1927-2009), noto come
critico letterario e biografo di Céline, ha scritto (di
getto subito dopo la strage) un libro poetico sulla
Bestia insaziabile che "colpiva per il piacere di
distruggere, s’inzuppava di birra tiepida e
superalcolici, sfociava in sommosse, fracassava crani".
La sera del 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di
Bruxelles si svolse la finale di Coppa dei Campioni tra
il Liverpool e la Juventus. Fu una delle serate più
tragiche della storia del calcio. Perché quella partita
fu preceduta da una strage passata alla storia: verso le
19, sulle gradinate di quel vecchio stadio morirono 39
tifosi, 32 dei quali erano italiani, e circa seicento
furono i feriti. Un’orda di hooligans aveva abbattuto la
recinzione che separava la sua zona dal settore Z,
occupato da tifosi non organizzati, per lo più famiglie
o semplici appassionati italiani. Fu un massacro, perché
l’urto della carica, con tanto di mazze e coltelli,
costrinse gli spettatori pacifici e inermi ad arretrare
verso il muro opposto, che crollò. Nella calca alcuni
cercarono di raggiungere il campo, altri si gettarono
nel vuoto per salvarsi dalla furia, altri rimasero
schiacciati e calpestati sulle gradinate. Le forze
dell’ordine intervennero troppo tardi e troppo male. La
partita fu giocata nonostante tutto, per motivi di
sicurezza dissero gli organizzatori appellandosi al
"male minore": vinse la Juventus grazie a un rigore
segnato da Platini. Questa è la cronaca che avremmo
letto in quei giorni e che oggi, quarant’anni dopo, è
diventata storia nera della serata in cui, si disse, il
calcio perdette l’innocenza (La notte dell’innocenza è
il romanzo del 2015 in cui Mario Desiati raccontava il
sé stesso bambino di quei giorni). Ora esce, presso un
minuscolo editore marchigiano, Vydia di Macerata, un
libro di Pol Vandromme, Le gradinate dell’Heysel, curato
e tradotto da Massimo Raffaeli. Sottotitolo: Una morale
per il calcio. Il belga Vandromme (1927-2009), noto come
critico letterario e biografo di Céline, ha scritto (di
getto subito dopo la strage) un libro poetico sulla
Bestia insaziabile che "colpiva per il piacere di
distruggere, s’inzuppava di birra tiepida e
superalcolici, sfociava in sommosse, fracassava crani".
È un libro luttuoso, una sorta di preghiera, dalla "scrittura deragliante" (Raffaeli), carico di accenti
mitici e di nostalgia per il calcio vagheggiato
nell’infanzia, regole, allegria, combattimento nobile
("intelligenza in movimento", l’ha definito qualcuno),
rispetto al calcio come calamità naturale, macelleria,
brutalità sicura di sé. E come naufragio nel mare
dell’ipocrisia in cui ancora nuotiamo ogni volta che ci
stupiamo della violenza delle curve.
Fonte:
Corriere.it © 19
maggio 2025
Video:
Vydia Editore
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