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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL |
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Un
amore a prima vista, nato in tenera età, sui banchi di
scuola; non per una bella ragazza, ma per una "Signora".
In questo libro Riccardo Gambelli ripercorre, in modo
vivace e coinvolgente, la storia del suo innamoramento
per la Juventus e ci offre la testimonianza di un tifo
calcistico che, vissuto con sereno spirito sportivo,
lungi dal portare alla deriva della violenza da stadio,
diventa strumento di crescita e di conquista di solidi
valori morali e umani. Questo libro ci parla del calcio
com'era, come sempre dovrebbe essere, come da tempo,
purtroppo, non è più. Ma è soprattutto un libro sulla
vita, su quei sentimenti forti che della vita sono la
ricchezza, il suo vero senso: l'amicizia, la famiglia,
l'amore per la propria città, per la propria donna. "Un
gesto d'amore compiuto attraverso i ricordi", osserva
Gianni Tiberi nella prefazione.
Fonte:
Pascaleditrice.it
© 2 agosto 2007
Fotografie: Pascal
Editrice
© Riccardo Gambelli
©
Icona: Itcleanpng.com ©
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"Coriandoli
Bianconeri" di Riccardo Gambelli
di Angelo Parodo
A
un certo punto del percorso tutti proviamo a tracciare
un bilancio di quello che è stato, magari tentando di
intuire quello che sarà. Ognuno di noi cerca di fare un
collage con le foto più belle o più significative
scattate durante la propria vita. Se però provassimo a
riunire insieme quei minuscoli rettangolini di carta
lanciati in cielo da una curva allo stadio, sicuramente
otterremmo il collage della vita di Riccardo Gambelli,
autore di "Coriandoli bianconeri". Da questa coreografia
Gambelli trae ispirazione per il titolo di un libro
autobiografico in cui mette a nudo le proprie passioni,
quello che chiunque di noi scrive a modo suo, ma pochi
sono in grado di raccontare con tale semplicità,
franchezza, direi trasparenza d’animo. Senese e
juventino D.O.C. l’autore scorre le pagine della sua
vita cercando di catturare i momenti più importanti,
quelli da immortalare e conservare nell’album
fotografico. In effetti leggendo "Coriandoli bianconeri"
si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una serie
di istantanee ed alla fine del racconto Gambelli stesso
apre gli album e li rivive tutti d’un fiato. Definire
"Coriandoli bianconeri" un "libro sulla Juve" sarebbe
riduttivo, semplicistico, errato. Certo, la Juventus è
il filo conduttore, dall’infanzia all’età adulta, da
quei "gooooooooooo" (senza la L) gridati dal "babbo
bianconero" del piccolo Riccardo durante le
radiocronache di "tutto il calcio", a ben altre urla,
tutt’altro che gioiose, udite da un Riccardo presente e
sopravvissuto a quella Curva Z del maledetto stadio
Heysel di Bruxelles, il 29 maggio del 1985. Ricordi
indelebili, come indelebili sono le passioni di Gambelli
per l’automobilismo, il Palio di Siena ed i viaggi.
Durante tutto il racconto l’autore non manca mai di
sottolineare l’importanza dei suoi compagni di
avventure, l’importanza degli affetti e dei legami
familiari senza i quali sarebbe impossibile superare gli
ostacoli che la vita, inevitabilmente, ci pone innanzi.
Si passa dalla realtà di paese (Uopini alle porte di
Siena) a quella della città, dagli scherzi tra militanti
dell’allora Partito Comunista ed i "missini" (il livello
è quello delle "zingarate" di monicelliana memoria) alla
vera tensione socio-politica degli anni settanta, dalle
dispute tra gruppetti di ragazzini a vere e proprie
pugnalate alle spalle nell’ambiente lavorativo.
All’interno del libro troviamo anche grandi personaggi
del recente passato e del presente, bianconero e non:
detto di Gianni Agnelli abbiamo ad esempio Alessandro
Nannini, Gaetano Scirea, Ayrton Senna, e Luciano Moggi.
La vicinanza di Gambelli all’ex DG della Juventus
raccontata a testa alta merita di essere sottolineata,
in un momento in cui non è facile, né comodo, andarne
fieri. L’autore affianca immagini di luoghi cari come la
propria scuola elementare a quelle di luoghi mitici come
lo stadio Atzeca di Città del Messico in un turbinio di
gioie, dolori, paure, incertezze, delusioni e amori
mescolati con sapienza e spontaneità che ci portano a
conoscenza di particolari e sentimenti di rara intimità.
Gambelli affronta le paure, anche quelle più forti come
perdere la vita sull’asfalto o durante il crollo di un
casolare o ancora schiacciato dalla folla dell’Heysel e
le traduce in parole semplici, impreziosendole con le
proprie citazioni preferite. Da leggere tutto d’un
fiato, questo racconto ci "trasporta" da una dimensione
infantile alla dimensione adulta, dell’autore ma anche
di noi stessi, poiché tra i "Coriandoli bianconeri" di
Riccardo Gambelli potrete trovare sicuramente anche i
vostri piccoli tasselli di storia. Nella sua prefazione
Gianni Tiberi (all’epoca Direttore de "La Nazione" per
le province di Siena, Arezzo e Grosseto) conclude con
"Il primo e il suo ultimo libro, come Gambelli dice ?
Speriamo di no, per una duplice ragione: perché
torneremmo volentieri a leggerlo e perché vorrà dire che
avrà incontrato altri personaggi da farci conoscere,
vissuto nuove avventure, trovato nuovi amici". E’ un
auspicio poi avveratosi con "Ali per vivere" ed "Il
lisiantus bianco", ma rende l’idea di come non si possa
essere sazi di storie quali quella di Riccardo Gambelli,
che si tifi Juventus o meno, se si ama la vita. (Recensione di
Angelo Parodo)
Fonte:
Juveatrestelle.it
© 18 novembre 2013
Video: Comitato
Heysel Reggio Emilia
Icona: Itcleanpng.com ©
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Coriandoli bianconeri: in viaggio
con Riccardo Gambelli
di Maurizio Romeo
Riccardo Gambelli è una persona
squisita, esempio classico della toscanità divertente,
simpatica e guascona, sempre pronto alla battuta e allo
scherzo, dal cuore grande ma sempre pronto a lottare per
difendere ciò che ama. Questa è l’immagine che si sente
leggendo le pagine di questo libro molto bello e
coinvolgente, un viaggio all’interno di un amore a 360°
per una Signora (vecchia ma pur sempre affascinante), ma
non solo, come si potrebbe erroneamente pensare
fermandosi al titolo. E’ un viaggio completo all’interno
dei ricordi del Ric, dentro i valori più belli e
sinceri: l’amicizia, la famiglia, la vita, l’amore per
la propria città, per la propria contrada (come solo un
vero senese può sapere), per la propria donna e per i
propri figli, le stelle più belle. Un viaggio fra gioie
e dolori, fra risate e lacrime, fra emozioni
insospettabili che fanno capolino a ogni pagina del
libro, che pare un romanzo e invece è un racconto di
vita. Iniziato a scrivere nel periodo forse più nero
della sua (anche mia) squadra del cuore, la penna di
Riccardo scivola fra passato e presente, raccontando
aneddoti di vita vissuta, fissando anche su carta i
ricordi delle persone care che non ci sono più e che
hanno lasciato un segno incancellabile sulla sua vita,
portando chi legge quasi a conoscerlo nell’intimo più
profondo e a conoscere anche quell’amore che lo ha
portato ad essere uno Ju29ro. E allora sembra di essere
con lui bambino scoprire che la maglia della Juve era
davvero bianconera e non grigiochiaro/grigioscuro come
si mostrava nelle tv in bianco e nero dell’epoca o
ragazzo in tribuna a Vicenza a lanciare in aria quei
coriandoli bianconeri che danno il titolo alla sua opera
prima (e che è stato sicuramente felice di vedere volare
nuovamente a maggio sopra giocatori e tifosi festanti
per il 30° scudetto) o correre come un bischero sotto la
curva della Fiorentina e lasciare una moneta da 100 lire
nell’angolo della porta in cui segnerà Vignola il gol
della vittoria in un Comunale anni ’80 di un calcio che
fu. Un libro che parla anche di tifo, quello bello,
quello animato da spirito sportivo, quello in cui
l’intelligente sfottò è padrone e la violenza è una cosa
molto lontana. Violenza che ha avuto però tristemente
modo di vivere in prima persona: era infatti nel
tristemente famoso settore Z dell’Heysel, e dalle sue
pagine traspaiono tutta la comprensibile ansia e il
terrore che solo chi c’era ha provato in quei momenti.
Ma non solo… Passeggiando fra le sue pagine potrete
stringere virtualmente la mano a personaggi importanti
come l’amico d’infanzia Alessandro Nannini, Ayrton Senna
o cuori bianconeri come l’Avvocato Agnelli, Marcello
Lippi o Gaetano Scirea, ad essere amici di Luciano
Moggi, amici veri e sinceri. Si firmerà con lui l’atto
di costituzione dello Juventus Club Siena Ghibellina o
si vivranno bischerate degne della terra natia toscana,
quasi come si fosse dentro a un film della serie di
Amici Miei. Sì, perché Riccardo è come il Tazmania dei
cartoni animati, un tornado che lascia il segno dove
passa, in amicizia come in amore, nel lavoro come nel
tifo, sia per la Juventus che, forse ancor di più, per
la sua amata Torre durante il Palio più famoso del
mondo. Un libro ricco di aneddoti, racconto di una vita
intensa e avventurosa in giro per il mondo, sfogliando
le cui pagine si sfogliano anche le emozioni. Si passa
dal riso alla commozione, attraversando il bianco e il
nero della vita, i momenti belli e i momenti brutti, ma
sempre con l’animo positivo di chi sa che il passato, e
la gocce di memoria che ci lascia, sono l’inchiostro
migliore per scrivere il futuro… Chissà se la sua amata
Befanina gli avrà scritto anche questo consiglio… Ma non
posso raccontare tutto, altrimenti toglierei al lettore
il gusto della sorpresa di un libro che sicuramente non
lascia deluso chi lo acquista. Insomma, come avrete
capito, un libro che ha lasciato anche in me un
bellissimo segno e la gioia per aver potuto conoscere di
più di una persona davvero bella, di un amico Ju29ro.
Nacque come un regalo, fatto stampare in 50 copie per le
persone più care regalate a Natale 2006. Per fortuna una
di quelle persone ha fatto in modo che potesse arrivare
anche a noi. Un libro assolutamente consigliato a tutti,
uno di quelli che ti regala emozioni e ti resta nel
cuore. Se poi quel cuore è bianconero… Beh, allora, lo
si ama ancora di più !
Fonte:
Dodiciblog.altervista.org
© 21 febbraio 2013
Fotografie:
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I "Coriandoli bianconeri" di
Riccardo Gambelli
"Coriandoli bianconeri" è un libro
nel quale il senese Riccardo Gambelli, tifoso Juventino
DOC e membro dell'Associazione Nazionale Amici della
Juventus, celebra la sua passione sportiva. Il libro è
stato edito nel 2007 da Pascal, casa editrice senese,
che nel 2008 ha pubblicato, dello stesso autore, il
romanzo "Ali per vivere". Un amico. Un amico che ci
racconta un pezzo di vita, la sua. E ce lo racconta con
la voglia di rendercene partecipi, con la semplicità e
la sincerità di un amico. Col cuore, senza cercare di
stupirci o di inventare particolari (o situazioni, o
personaggi) inconsueti, per rendere unica la sua storia.
Ce la racconta e basta, come si fa ad un amico, non
necessariamente ad un lettore. Forse è proprio questo il
segreto di Riccardo: scrive col cuore, senza cercare di
blandirci, senza rincorrere il nostro consenso,
coriandoli bianconeri. Non nasconde le sue emozioni, né
quelle positive, né quelle meno confessabili: proprio
come fa un amico. Un amico che ci racconta tanti momenti
di vita vissuta, che condivide con noi le sue passioni,
a cominciare da quella per la Juventus, e dal piacere di
coltivarla. Passione viscerale, da toscano vero (anzi,
da senese vero), che fa da filo conduttore ad un insieme
di storie, i "coriandoli", appunto. Quei coriandoli che
possono ricaderci addosso, così come essere portati via
dal vento, per poi magari ricomparire a distanza di
tempo, in mezzo agli abiti o altrove. Quei coriandoli
che, bianchi o neri e belli o brutti che siano,
diventano pezzi di vita, storie. Storie che vengono
raccontate con vivacità, non necessariamente in ordine
cronologico. Ad un amico, non serve: parlando con un
amico, le cose si raccontano così come vengono. E così
vengono meglio. Nel libro, l'autore ci parla di
amicizia, di amore e di passione: passione sportiva,
indubbiamente... Anche se è riduttivo definirlo tout
court un libro "sulla Juve". Certo, è l'amore per la
Vecchia Signora (scoperto in tenera età), sono le
partite della Juve a dettare il ritmo dei vari racconti,
che vanno comunque al di là del tifo per la squadra del
cuore. Scritto nel momento della maturità, è un vero
proprio diario, nel quale, se non si ha la pretesa di
fornire chissà quali insegnamenti, i ricordi rivivono
con la giusta fluidità, e gioie e dolori possono essere
analizzati con il giusto distacco. Nel raccontarsi,
Riccardo ci coinvolge, rendendoci familiari i personaggi
della sua gioventù e della sua maturità. Ci presenta i
suoi valori e i suoi principi, non le sole e semplici
storie di tifo, peraltro (anche quelle) godibilissime.
Da vero amico, ci racconta senza pudori i suoi punti di
forza e le sue debolezze. E allora, ci ritroviamo con
lui, ad abbracciare o a stringere la mano al nostro
Scirea, all'indimenticabile Senna o all'Avvocato. E
siamo a nostra volta partecipi dell'amicizia per
Alessandro Nannini e per il direttore Luciano Moggi. Ma
ci ritroviamo con lui anche in quella tragica notte a
Bruxelles, e viviamo ancora una volta quelle terribili
emozioni... E anche noi, con lui e come lui, ci
scopriamo indifesi e impotenti di fronte alla follia, e
condividiamo la sua rabbia, quella rabbia che lo porta a
produrre pensieri difficilmente raccontabili, se non ad
un amico. E' facile farsi coinvolgere da Gambelli, e
lasciare che le nostre esperienze e i nostri ricordi si
sovrappongano ai suoi. In fondo, è così che funziona fra
amici veri, fra persone vere, che si raccontano pezzi di
vita vera. E, parlandoci della sua vita, Riccardo ci
racconta di un calcio che c'era, e che purtroppo non c'è
più. Ma anche dell'amore per la Juventus che c'era... E
che fatichiamo davvero tanto a ritrovare negli
atteggiamenti, nei comportamenti e nei valori di chi la
guida oggi.
Fonte:
Juventinovero.com
© 15 Ottobre 2009
Fotografia:
Juventus.com
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Coriandoli bianconeri
di Alberto Rossetto
Gambelli è uno di noi. Uno di quei
tifosi viscerali, che somatizza le sconfitte e gioisce
talmente per le vittorie juventine da non riuscire, a
volte, nemmeno ad esternare completamente la propria
gioia. Gambelli (co-fondatore tra l'altro del club Siena
Ghibellina) è un contradaiolo con un senso
dell'appartenenza che ai non senesi appare sconosciuto
per non dire esagerato, un tifoso che, come molti di
noi, riservano alla Juve l'ultimo pensiero giornaliero
ed il primo mattutino. Coriandoli bianconeri è il diario
di una vita, scritto in un momento nel quale una
sufficiente maturità fa rivivere i ricordi con il giusto
distacco ed in un momento in cui si possono già
tracciare le prime somme. E' un libro che descrive la
nascita e la crescita della passione juventina (ed il
piacere di coltivarla) con sullo sfondo la vita e tutto
ciò che comporta: gioie e lutti, scelte e casualità. Ma
la vita sta dietro o di trequarti, perché in primo piano
c'è Lei, la Juventus, l'esperienza per antonomasia.
Amici, viaggi, le prime "cotte", sono esperienze comuni
a tutti noi, basta cambiare nomi e luoghi per
sovrapporre i propri ricordi a quelli dell'autore che a
sua volta sovrappone tutto alle partite della Juve,
viste dal vivo o con il decoder poco importa perché
l'emozione è la stessa, la Juve che detta i ritmi di
vita, la Juve, la cui passione fa precipitare in una
lucida irrazionalità; il tutto citando ora Günter Grass
ora Byron perché il tifoso, quello vero, non vive solo
di pane e calcio (che si mettano il cuore in pace i
Candidi nazional-popolari). Un amore per la Juve che
diventa una malattia per la quale nessun farmaco potrà
mai porvi rimedio, perché chi contrae la juventinite non
vorrà mai farsi curare; un amore che se chi ne ha
ereditato la sorte della società ne provasse soltanto la
metà di quello che provano i suoi tifosi, allora nel
2006 la storia si sarebbe indirizzata su altri binari e
non avremmo vissuto quelle tragiche
nefandezze(omissis...)
Fonte:
Bianconerionline.com
© 14 aprile 2008
Fotografie: Wikipedia.org
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Icona: Itcleanpng.com ©
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Magico, tragico Heysel
di Riccardo Gambelli
"Andiamo
a Bruxelles ?". Eravamo sdraiati sul tappeto della
cameretta di Antonello Perrella, detto Lello;
sfogliavamo la sua fornita collezione di giornalini "al
peperoncino". Con noi c’era Andrea. Così, un po’per
caso, un po’ per scommessa, decidemmo di andare incontro
all’avventura più rischiosa e dolorosa della nostra
vita. Il 28 maggio 1985, partimmo proprio da Uopini
verso la trasferta più triste della storia. "Stai
attento, non mi piacciono gli inglesi". Fu la
raccomandazione di babbo Enea. "Tranquillo, ci sarà il
gemellaggio tra tifoserie nella Gran Place", risposi.
Erano le 19 di pomeriggio quando la Golf di Andrea ci
avrebbe spalancato le portiere, prima di prendere la
direzione verso Bruxelles. Eravamo felici, tanto da
mettere esposto al finestrino posteriore un fazzoletto
bianconero. Gli autisti d’altre vetture, notandolo, ci
salutavano suonando il clacson. Per i miei due compagni
si trattava della loro prima finale da spettatori, per
me la seconda. L’anno precedente mi ero recato con Fede
Roscia e Pasierino a Basilea, dove la Juve avrebbe
riposto nella sua sterile bacheca la prima Coppa delle
Coppe. Eravamo partiti il giorno stesso con l’Austin
Metro appena uscita dalla concessionaria di Fede,
diretti in uno stadio che a fatica riusciva a contenerci
tutti quanti. Uno stadio adatto per la serie C italiana.
A ogni modo, a noi interessava la vittoria, che arrivò
puntuale e sofferta grazie alle reti di Vignola e di
Boniek, ancora una volta "bello di notte". Viaggiammo
tutta la notte attraversando Svizzera, Germania e
Lussemburgo, alternandoci alla guida. Facemmo ingresso a
Bruxelles alle prime luci del mattino. Dopo aver
prenotato una camera d’albergo, ci recammo
immediatamente verso l’agenzia di viaggi che teneva in
consegna i nostri biglietti. Era la stessa agenzia che
aveva rifornito lo "Juventus Club Siena Ghibellina" dei
tagliandi d’ingresso. La mattina stessa della nostra
partenza un autobus, colmo di tifosi senesi, ci aveva
anticipato, percorrendo la strada che conduceva verso
"la partita della morte". C’eravamo dati appuntamento
nella Grand Place per l’ora di pranzo del giorno 29.
Entrammo nell’agenzia del centro di Bruxelles e un
signore ci consegnò le tre curve che avremmo pagato come
una tribuna centrale. "Curva zeta", riportava quel
sinistro biglietto. Il nome di quella curva sarebbe
entrato, quella notte, nei libri di storia
contemporanea. Tornammo in albergo, cercando di riposare
inutilmente. Uscimmo di nuovo per visitare la città e
incontrare i senesi. Dall’albergo ci saremmo ripassati
solo in piena notte, per recuperare gli oggetti
personali e fuggire velocemente. Nella Grand Place era
presente il mondo intero: italiani e inglesi che si
facevano fotografare insieme mentre scolavano birre,
famiglie con bambini, turisti occasionali, cittadini di
Bruxelles che uscivano dal proprio lavoro e anche i
nostri cari amici senesi. Riprovai la stessa sensazione
di sempre. Incontrare un tuo concittadino all’estero è
sempre una grande emozione.
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Mi
è capitato in quasi tutti i miei viaggi, anche quella
volta a San Francisco, quando, girando l’angolo di una
strada centrale della città dei trichechi, andai a
urtare Massimo Bianchini, noto professionista senese.
Non era finita. La sera stessa, in un ristorante (a San
Francisco saranno presenti diecimila locali), il mio
amico Nando fu il primo ad accorgersi della presenza di
Massimo. Credo si tratti di un record: incontrare la
stessa persona due volte in un giorno dalla parte
opposta del globo. Aldone Brocchi era il capogruppo di
una gita composta anche da famiglie che avevano deciso
di trascorrere tre giorni di svago con la loro squadra
del cuore. Lo scorsi io stesso, chiamandolo a gran voce.
Ci abbracciammo come se non ci vedessimo da tempo
infinito. Telefonai a casa, rassicurando i miei che
inglesi e italiani stavano fraternizzando e che non
correvamo alcun pericolo. Ci aggregammo al Club
attendendo con ansia l’ora della verità. La Coppa dei
Campioni mancava nella bacheca della nostra società che
in Italia stava spopolando. Dovevamo sopportare, da
anni, le conseguenti allusioni di tutti gli anti
juventini, sostenenti che le continue vittorie italiane
erano frutto di nuovissime Fiat donate alla classe
arbitrale. "Si tratta di sudditanza psicologica",
affermò un giorno l’Avvocato. Una frase ricorrente sino
ai nostri giorni. Le sue frasi erano sempre sentenze
definitive. Seguimmo l’autobus sino allo stadio. Ancora
tre ore e la partita avrebbe avuto inizio. Dopo aver
posteggiato, ci avviammo verso lo stadio Heysel tutti
insieme, socializzando, addirittura, con i tifosi
d’oltremanica. Non potemmo fare a meno di ammirare il
gigantesco modello molecolare dal nome "Atomium",
simbolo di Bruxelles, situato in prossimità dello
stadio. Nel piazzale adiacente notammo gli hooligans che
stavano arrivando con numerose casse di birra, entrando
addirittura sugli spalti senza che le forze dell’ordine
si assumessero l’iniziativa di sequestrarle. Quelle
bottiglie si sarebbero rivelate pericolose armi da
guerriglia. Finalmente facemmo il nostro ingresso nella
"curva zeta" da un piccolo cancello che sarebbe stato
poche ore dopo l’unica e improbabile via di salvezza per
i tifosi bianconeri. La curva era gremita e ci
accomodammo vicinissimi agli hooligans. Solo una piccola
rete "da pollaio", costruita nei giorni precedenti, ci
divideva da un oceano di cappellini rossi. Eravamo
veramente quelli seduti più vicino alle "belve".
Ammiravamo il verdissimo manto erboso che, poche ore
dopo, sarebbe stato calpestato da Scirea e compagni. Ho
potuto ascoltare tante interviste di uomini di calcio e
leggere su centinaia di pagine di giornali e riviste
quello che accadde in quelle maledette ore: posso
assicurare che la vera realtà dei fatti è sempre stata
travisata ! La Rai, addirittura, lo scorso inverno ha
ripercorso con uno "speciale" quella tragica notte due
superstiti come noi della "curva zeta" hanno raccontato
di un agguato improvviso e senza motivo degli hooligans
contro gli juventini. Falso.
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La
verità assoluta è quella che qui vi narrerò, conosciuta
solo da chi poteva trovarsi a contatto di gomito con i
tifosi del Liverpool. Tutto andò tranquillamente fino a
quando, proprio sotto di noi, un gruppetto di juventini
e di inglesi, complessivamente una decina di persone,
non iniziarono a scambiarsi insulti e minacce. A un
tratto vedemmo tre "geniali" bianconeri scavalcare la
rete di recinzione e portar via agli inglesi un loro
striscione. Il cimelio fu trasportato nella parte
spettante a noi italiani dove fu bruciato in modo molto
vile. Quello fu il primo atto della tragedia che si
sarebbe presentata agli occhi sbigottiti del mondo
intero. Alcuni inglesi saltarono la rete dando inizio a
un tafferuglio. Speravamo che tutto si risolvesse con
qualche "scapaccione" ai tre italiani che avevano
sottratto lo striscione, invece furono sparati i primi
razzi in cielo e purtroppo anche verso di noi ad alzo
zero. Molti hooligans presero di mira la rete in
miniatura, che ci avrebbe dovuto dividere, scuotendola
per cercare di abbatterla. Mi rivolsi a Lello e Andrea:
"Ragazzi, qui finisce male, filiamo". Lello, in un primo
momento, non era favorevole a una fuga, ma, quando fu
cosciente che la situazione sarebbe degenerata, decise
di seguirmi verso il cancello dal quale eravamo entrati,
l’unico a nostra disposizione per uscire dallo stadio.
Ma lo trovammo intasato da persone che cercavano di
entrare e uscire contemporaneamente. Niente da fare:
impossibile poter andare avanti. Vidi il muro. Quel muro
sarebbe stato il protagonista di tutti i telegiornali
delle reti televisive del pianeta. Ci facemmo largo, con
molta fatica, tra gli spettatori non ancora consapevoli
di quello che sarebbe potuto accadere. Per quanto mi
riguardava, mi era stato di grande aiuto il mio istinto,
che mi ha sempre messo in guardia durante tutta la mia
vita. Finalmente potei toccare il muro, mi voltai e vidi
i miei due amici dietro di me. Prima di salire su quel
fatiscente agglomerato di cemento sono sicuro che
gridai: "Saliamo, ragazzi". Non era ancora iniziato il
caos di morte e potei arrampicarmi con tutta calma nel
punto più basso del muro. Quando fui sopra mi accorsi
che gli hooligans erano riusciti ad abbattere la rete e
stavano caricando i nostri connazionali che non
opponevano la minima resistenza. Contro quella mandria
di tori inferociti l’unica possibilità sarebbe stata la
fuga, ma l’uscita principale si trovava intasata da
centinaia di persone che cercavano di superare quel
cancelletto, che, a stento, poteva far passare un
cristiano alla volta. Il problema fu che "the animals"
(termine che usò la stampa inglese), si trovarono di
fronte per lo più i tifosi della domenica: famiglie con
figli, pensionati, ragazzi e ragazze che non reagirono
perché pietrificati dal terrore. La realtà sarebbe stata
sostanzialmente diversa se nella "curva zeta" fossero
stati presenti quei tifosi che invece si trovavano
stipati nella curva opposta. Ricordo perfettamente e
distintamente che mi trovavo in piedi su quel muro,
cercando il punto più agevole per calarmi. Mi lasciai
scivolare, avendo a disposizione tutto il tempo per
poterlo fare. Un minuto dopo non sarebbe stato
possibile: era iniziata la compressione di migliaia di
persone su quella vecchia struttura che si opponeva,
creando morte e terrore. Mi calai, un salto di circa due
metri. Alzai la testa, convinto che i miei due amici
stessero facendo altrettanto. Nessuna traccia di loro,
mi arrivava addosso tanta gente in tutte le posizioni,
di schiena, di testa, di piede: aveva avuto inizio una
tragedia senza fine. Lello e Andrea rimasero, purtroppo
per loro, imprigionati tra centinaia di corpi che si
pigiavano tra loro. Sarebbero venuti fuori da quel caos
solo quando la rete che delimitava il campo di gioco non
fosse caduta.
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Io,
calandomi dal muro, atterrai sul tartan della pista
d’atletica. Mi ritrovai dietro la porta di gioco a fare
da spettatore passivo alla tragedia che l’atroce realtà
mi stava proponendo. Solo due poliziotti, impauriti
quanto il sottoscritto, si trovavano in quel momento
all’interno dello stadio: fu uno scandalo senza
precedenti. La scena fu interminabile. Potei vedere,
chiaramente, i tifosi inglesi armati di tutto: colli di
bottiglie, manici di bandiere e persino pezzi di gradoni
dello stadio. Chi stava subendo erano onesti lavoratori,
padri di famiglia, pensionati, ragazzini teneri con la
sciarpa bianconera al collo, ragazze piangenti e mamme
urlanti in cerca del proprio figlio. Giuro che se mi
avessero consegnato un mitra, avrei sparato
all’impazzata su quegli assassini. Non ho nessuna
vergogna ad ammetterlo. Avrò negli occhi per sempre lo
sfregio di quella curva, piena di scarpe, stracci,
camicette imbrattate di sangue, giornali, indumenti,
calze. In un attimo capii che lo stadio Heysel non
avrebbe dovuto essere teatro di quella finale, non era
uno stadio attrezzato per ospitare tifoserie come quelle
presenti su quei gradoni malridotti. L’angoscia non mi
mollava: non sapevo dove fossero i miei due amici.
Camminavo avanti e indietro sul campo di gioco, mentre
il film andato in onda sugli spalti della "zeta" era
cessato. Gli hooligans stavano intonando il canto di
vittoria occupando tutta la curva. Continuavo a sognare
il mitra. Stefano Manenti, amico di Uopini, con Cinzia,
la sua fidanzata, furono le prime due persone che
incontrai. Si tenevano abbracciati e piangevano come
bambini. Stefano era scalzo: rimase a piedi nudi tutta
la notte. Cinzia era piena di graffi e non smetteva di
urlare: "C’è gente morta, ho visto !!", gridava
disperata. Io avevo percepito che qualcuno non fosse
riuscito a uscire vivo dall’inferno, ma non potevo
immaginare che le vittime sarebbero arrivate a
trentanove. Furono avvolte da lenzuoli quelle povere
salme, distese fuori dello stadio e protette da un
nugolo di poliziotti arrivati quando i "buoi erano
fuggiti dalle stalle". Continuo a ringraziare il Signore
per avermi risparmiato quello spettacolo straziante. I
"numerosi" poliziotti presenti che si erano precipitati,
anche a cavallo, ci fecero accomodare tutti in tribuna
numerata. In quel momento sul terreno di gioco era
presente il corpo di polizia dell’intero Belgio. I
tifosi bianconeri della curva opposta erano
incontrollabili, anche se non avevano ancora percepito
la gravità della situazione. A un tratto, in tribuna
apparve Andrea e ci abbracciammo come reduci del
Vietnam: "Dov’è Antonello ?", continuava a chiedermi.
Non potevo rispondergli. Ci condussero all’interno della
tribuna Numerata dove Aldo Brocchi, completamente a
torso nudo, voleva sfondare una porta. Non riuscivo a
comprendere il motivo di quella pazza azione: "Aldo, ma
che stai facendo, calmati !", prendendolo per un
braccio. "Sono tutti dentro quella stanza, c’è De
Michelis, Boniperti, un sacco di gente, li rompo tutti
!!!", gridava Aldo, un toro impazzito. Effettivamente
erano tutti dentro a quel salone per una riunione
urgente con il capo della Polizia di Bruxelles,
personaggi dell’Uefa e Fifa: stavano valutando se fosse
il caso di disputare lo stesso la gara. Ci riportarono
tutti sulle poltroncine della tribuna che in quel
momento era super affollata. Andrea mi pose il problema
dell’apprensione e angoscia che i nostri cari, a Siena,
avrebbero potuto vivere in quei momenti. Non
dimenticherò Pier Cesare Baretti, presidente della
Fiorentina, quando condusse Andrea nuovamente
all’interno della tribuna per telefonare ai suoi
genitori. Per la cronaca, Baretti sarebbe deceduto pochi
mesi dopo a causa di un incidente verificatosi con
l’aereo personale. Lo vidi tornare, sollevato: "Ho
telefonato. Ho detto che siamo salvi. Mio babbo
telefonerà al tuo. In Italia, parlano di ottanta morti",
mi disse Andrea. In effetti, rivisitando la
videocassetta molte volte, Pizzul aveva annunciato circa
ottanta morti, in un primo momento. Passarono le ore
senza sapere che cosa sarebbe accaduto. Non ricordo chi
ci confermò che Lello si trovava seduto sull’autobus del
Club senese. Esultammo felici, anche Lello era vivo !
Parlavamo di morte e di vita come se fossimo in guerra,
tutto ciò era irreale.
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Vedemmo
i giocatori italiani dirigersi verso la curva bianconera
per cercare di tranquillizzare i tifosi, che ormai erano
al corrente della carneficina avvenuta. Non riuscivano a
domarli, cercavano vendetta ! Scirea e il capitano
inglese Neal, dalla cabina di regia, grazie a un
microfono annunciarono che la partita avrebbe avuto
regolare svolgimento. Baretti ci confermò che le due
società e le forze di polizia avevano deciso di far
giocare il match per evitare ulteriori incidenti. La
partita ebbe inizio. Fu un incontro di calcio vero,
bello tatticamente e come livello agonistico, ma i miei
occhi e il mio cuore erano rimasti su quella curva dove
avevo visto bambini e mamme piangere disperate. Segnò
Platini su calcio di rigore. Un rigore inesistente su
Boniek, atterrato due metri fuori dall’area. "Quando le
undici di sera erano passate da un pezzo e stava
facendosi più aguzzo il buio della notte, era quella
un’ora inusuale per battere un calcio di rigore che con
tutta probabilità avrebbe consacrato la squadra campione
d’Europa. A quell’ora le partite, che abitualmente
iniziano alle otto e trenta, sono già finite. Eppure le
undici di sera erano passate da un pezzo quando Platini,
quella sua maglietta eternamente calata fuori dai
pantaloncini, avviò la rincorsa a trovare e colpire il
pallone che sostava sul dischetto, e mentre nello stadio
belga dell’Heysel non si udiva il bisbiglio di una
mosca", scrisse Giampiero Mughini, sul suo libro
dedicato alla squadra del cuore, la Juve. Effettivamente
era tardissimo e faceva freddo. Il vento che aveva
portato morte e strazio continuava a soffiare,
spietatamente. I giocatori fecero il giro d’onore con la
Coppa mentre furono fatti uscire i tifosi italiani. Dopo
molte ore sarebbe stato il turno degli "animals" a
essere scortati all’esterno. Nonostante fossero state
organizzate dalle forze dell’ordine delle uscite
programmate, ci confermavano di scontri pesanti
all’esterno dello stadio e vetture italiane incendiate.
Recuperammo Lello e, dopo un lungo abbraccio, salutammo
i senesi avviandoci verso l’auto sperando di ritrovarla
intatta. Al rientro, a Siena, saremmo venuti a
conoscenza che due nostri concittadini avevano dovuto
ricorrere agli ospedali della città belga, dove furono
trattenuti per giorni. Salimmo in auto e fuggimmo dopo
essere ripassati dal nostro hotel per il recupero degli
oggetti personali. Lello mi ha ricordato, in questi
giorni, che mentre uscivamo da Bruxelles, con Andrea
alla guida, un hooligan ci attraversò la strada,
lentamente, con una bandiera in mano. Sembra che io
abbia gridato: "Investilo !!!". Non ricordo la scena,
ricordo solo l’odio immenso che nutrivo in quelle ore
per quei mostri che avevamo incontrato in una giornata
di felicità, una giornata di sport.
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Nei
giorni seguenti iniziarono i commenti dei perbenisti
anti juventini, criticando il comportamento della
società che io ritenni, al contrario, civile, umano e
sportivo. Ricordo i giocatori che, rischiando d’essere
soffocati, andarono a placare i tifosi assiepati nella
curva opposta a quella della morte, affinché non si
lanciassero a ingigantire le proporzioni del disastro.
Quegli stessi giocatori, con la morte nel cuore,
accettarono di giocare affinché la tregua della partita
consentisse i salvataggi e bloccasse la violenza. Ho
ancora davanti agli occhi l’incredibile serenità con cui
quei giocatori si batterono, consci che lottavano per
uomini e donne che non c’erano più, che avevano
sacrificato il bene supremo della vita per seguirli
nella speranza di vederli vincere. La Juve vinse e il
fatto che, su suggerimento degli organizzatori, arrivò
per un momento a mostrare la coppa alla sua gente, fu
malevolmente additato come gran prova d’insensibilità.
Fu addirittura perentoriamente invitata a restituirla,
quella coppa. È vero, fu macchiata di sangue innocente,
ma la Juve, che la rincorreva da ventisette anni, la
vinse a testa alta e prima di superare i grandi
avversari del Liverpool vinse l’orrore per la tragedia
che si era consumata sotto i suoi occhi. Poco importò
che il rigore su Boniek fosse un regalo dell’arbitro,
quel rigore fu la vendetta di chi era presente in quella
lurida curva, il frutto di una vittoria meritata, fu il
mio "mitra". Nei giorni successivi giurai di non entrare
mai più in uno stadio per il resto della mia vita. "La
tragedia e la morte non sono sufficienti a tenere
lontano dal gioco gli uomini della tribù del calcio",
scriveva Desmond Morris, filosofo inglese, studioso dei
costumi. È quello che accadde a me quando, tre mesi dopo
esatti, in agosto, la Juve giocò la prima di Coppa
Italia a Perugia. Era la nuova Juve di Manfredonia,
Laudrup, Serena e Mauro, quella che avrebbe conquistato
a Tokio la Coppa Intercontinentale. Decisi d’essere
presente allo Stadio Curi, dove la vista di quei
cappellini rossi dei tifosi del grifone mi fecero
tornare indietro di pochi giorni, ricordandomi "the
animals" che caricavano assetati di sangue innocente.
Durante il ritorno, verso Passignano sul Trasimeno, fui
superato da un’auto carica di ragazzi. Dal finestrino
posteriore sventolava gioiosamente un foulard juventino.
Ricordai immediatamente il nostro fazzoletto bianconero
che, il 28 maggio 1985, stava facendo altrettanto.
Rividi anche Lello, mentre rispondeva felice al saluto
delle altre autovetture, gridando: "Torneremo Campioni
d’Europa".
(NdR:
Si ringrazia vivamente la Pascal Editrice
per la cortese ed esclusiva concessione del capitolo che
è severamente vietato diffondere e/o riprodurre a terzi)
Fonte:
Riccardo Gambelli
© Pascal Editrice agosto
2007
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Fotografie:
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