
Un dolore lungo trent'anni
"l'Heysel mi ha tolto tutto"
di Massimo Ledda
Nella cameretta di Andrea il tempo si è
fermato al 1985. I mobili in legno chiaro ormai fuori moda, le
automobiline sulla mensola, la scrivania dove faceva i compiti
prima di correre fuori a giocare a calcio, la sua grande
passione. Tutto è rimasto esattamente come trent'anni fa. Sulla
parete a cui è addossato il lettino con il copricoperte beige ci
sono due foto incorniciate. Una ritrae Andrea al mare, l'altra è
un primo piano in cui indossa un paio di buffi occhiali e dei
baffi finti. Lo sguardo diventa, senza ombre, come è normale
quando si hanno 11 anni. "E' la foto della recita scolastica
scattata poche settimane prima, la adoro perché ha la sua tipica
espressione, qui è proprio lui". Anna Passino guarda con
tenerezza e nostalgia infinite l'immagine di quel figlio volato
via quando si stava appena affacciando alla vita. Non è
tristezza la sua, piuttosto una malinconia quasi consolatoria.
"Sa la cosa più strana qual è ? Che non riesco a immaginarmelo
adulto, ogni tanto incontro un suo amico d'infanzia che si è
sposato e ha figli e allora provo a pensare come sarebbe Andrea
oggi, a 41 anni. Ma proprio non ci riesco, Andrea sarà sempre un
bambino, quello che c'è in quella foto". Via della Pineta,
Cagliari, secondo piano di un'elegante palazzina. Qui abitava
Andrea Casula, il bimbo morto il 29 maggio 1985 allo stadio
Heysel di Bruxelles insieme al padre Giovanni e ad altri tifosi
italiani, un'ora prima che iniziasse la finale di Coppa Campioni
tra la Juventus - la sua seconda squadra del cuore dopo il
Cagliari - e il Liverpool. Vittima innocente della follia degli
hooligans inglesi e dell'inefficienza della polizia belga. Anna
è una donna forte e molto razionale. Ha dovuto affrontare una
prova insopportabile - quella di perdere a 39 anni il figlio e
il marito, per una partita di calcio poi - ma è riuscita a
superarla, ad andare avanti per sé e per Emanuela, la figlia più
grande che ora vive a Roma ma che sente tutti i giorni. Con una
fatica incredibile, ma ce l'hanno fatta. Insieme. "L'ultima
immagine che ho di mio figlio e di mio marito è in aeroporto
prima della loro partenza - racconta. Andrea era felicissimo,
non stava nella pelle. Era un golosone e pure cicciottello, si è
mangiato una pasta enorme al bar. Era emozionato di andare col
padre che imitava in tutto, anche perché il giorno prima lo
hanno trascorso a Milano. Per lui era una meravigliosa gita".
Cosa chiedere di più ad undici anni ? La sera del 29 maggio Anna
era seduta davanti alla tv. "Ho subito avuto un bruttissimo
presentimento e ho iniziato a chiamare i miei cognati per
chiedere se sapevano in che settore dello stadio erano Andrea e
Giovanni". Purtroppo erano proprio nel settore Z, quello dove
scoppiarono i disordini e dove crollò il parapetto sotto il
quale morì la stragrande maggioranza delle 39 vittime, compresi
Andrea e Giovanni. "Di mio marito me l'hanno detto quasi subito,
quella stessa notte, di Andrea invece...". Il ricordo si fa
troppo doloroso. E le parole, così come le domande, non servono
più. Non hanno senso. Anna Passino ha un carattere riservato,
non ama i riflettori. Eppure per anni, forzando la sua natura,
ha combattuto tanto proprio perché ciò che è successo ad Andrea
e Giovanni non capitasse più. Invece è ricapitato. E continua a
capitare anche oggi, quasi tutti gli anni. "Facciamo parte
dell'associazione delle vittime dell'Heysel e crediamo
nell'importanza del ricordo, io stessa sono andata a parlare
nelle scuole e ho
incontrato gli ultras, però non sono più
convinta che serve a qualcosa. Viviamo in un mondo di
sopraffazione e anche negli stadi si continuano a ripetere gli
errori del passato, non cambia nulla. Quando vedo i giocatori
che vanno a parlamentare con questi capi ultras e prendono
ordini da loro rimango senza parole. E' proprio quello che non
si dovrebbe fare, perché così si finisce per dargli importanza
agli occhi di tanti ragazzi". Un giudizio severo che coinvolge
anche le società di calcio: "Perché accettano tutto ? In
Inghilterra hanno cacciato dagli stadi i violenti, quindi si può
fare. Io non sono nessuno per dire certe cose, ma credo che le
società debbano agevolare la tifoseria sana, fare in modo che a
vedere le partite vadano le famiglie coi bambini, ma forse ci
sono troppi interessi in ballo o forse ormai sono troppo vecchia
per credere che le cose cambino". Il 6 giugno, 30 anni dopo, la
Juventus giocherà un'altra finale di Coppa Campioni, che ora per
ragioni di business si chiama Champions. Anna però non guarderà
la partita: "Da quel giorno non ho più seguito il calcio, non ci
riesco". Le chiediamo un'ultima cortesia, il permesso di
pubblicare la foto di Andrea il giorno della recita. "Preferisco
tenerla solo per me, mi capisca". Sì che la capiamo, signora
Anna.
29 maggio 2015
Fonte: L'Unione Sarda
Fonte Fotografia Cagliari:
Manifestosardo.org
Andrea, il bimbo mai tornato a
casa
"Sparì in un attimo"
di Pierangelo Sapegno
Quel che resta di Andrea Casula non è
solo questa immagine da bambino, che guarda il mare sorridendo.
In quella giornata di sole del 29 maggio 1985, che lasciava
spazio al cielo sopra di loro, Andrea si portò dietro, come
fanno gli angeli, anche Roberto Lorentini, un medico di Arezzo,
che aveva 31 anni, e che s’era già salvato, scappando da quella
calca urlante, schiacciata, corpo su corpo, sangue su sangue,
contro il muro del settore Z. Lorentini aveva due figli. Deve
aver pensato a loro, quando ha visto quel bambino sepolto dentro
a quella ressa terribile. Deve aver avuto un morso al cuore
quando ha deciso di tornare indietro per salvarlo, lì, nel
girone della morte. Andrea aveva appena compiuto 11 anni proprio
in quei giorni. Il suo biglietto nel settore Z dell’Heysel per
la finale di Coppa dei Campioni era il regalo che gli avevano
fatto. Era partito con il papà Giovanni, dalla Sardegna, per
guardare dal vivo i suoi idoli: Platini e Scirea. Al mattino,
era andato nella Grand Place, a vedere i monumenti, assieme al
babbo. Poi si erano incamminati verso l’Heysel, in quella coda
infinita, davanti all’unica porta che dava accesso allo stadio,
custodita da appena 5 gendarmi, come racconta Roberto Tarlasco,
regista teatrale che aveva preparato uno spettacolo sulla
tragedia di Andrea Casula. Per un bambino, però, era tutta
gioia: anche quell’attesa. Alla fine sono entrati. Dice Tarlasco
che il loro settore era quello riservato agli handicappati, il
più piccolo dello stadio. Di fianco c’erano i tifosi del
Liverpool, che sventolavano in alto le bottiglie di birra. Erano
divisi da una semplice rete metallica, di quelle che si usano
negli orti. I gradini della curva erano molto bassi, e malconci.
Si staccavano i pezzi con le mani, e alcuni tifosi inglesi li
prendevano e li tiravano addosso agli juventini. Poi cominciò
tutto, quella marea buttò giù le reti, costringendo i tifosi
juventini a scappare scacciando uno contro l’altro, mentre i
poliziotti li bastonavano pure, convinti che fosse tutta colpa
loro. In quella calca, Pierpaolo Filippi, uno dei sopravvissuti,
ricorda d’averlo visto, Andrea: "C’era un bambino nella calca.
Fu un attimo. Tempo di girare la testa e non c’era più. Qualche
giorno dopo lo rividi e mi prese il magone. Era in una foto del
giornale, sotto l’elenco delle vittime". L’aveva visto anche
Lorentini. È tornato indietro perché i bambini possono meritare
la nostra vita. L’ha raggiunto e ha cominciato a fargli i
massaggi e la respirazione bocca a bocca per rianimarlo. Non
piangeva e non gridava. Stava facendo il suo lavoro. Anche
Andrea non piangeva e non gridava. Li hanno travolti così. Non
so se la morte le vede certe cose. Ma c’era una gran luce e un
bel sole. E c’era un mucchio di spazio nel cielo.
29 maggio 2015
Fonte: La Stampa
 La dolorosa tragedia
dell’Heysel e la morte del piccolo Andrea
di Matteo Brancati
Il 29 maggio del 1985, prima della
finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool, morirono 39
tifosi bianconeri.
"Papà, andiamo a vedere la finale ?".
"Certo che andiamo. Gioca la Juve". Un dialogo che, da lì a
poco, sarebbe stato uno degli ultimi tra un padre e Andrea, un
giovanotto di 11 anni, in partenza per Bruxelles. Lì, nella
popolosa cittadina belga si disputava il 29 maggio del 1985 la
finale di Coppa dei Campioni tra Bianconeri e Liverpool. Due
squadre alla ricerca di una vittoria importante, prestigiosa per
rimpinguare il proprio palmarès. L’attesa era spasmodica, si
attendeva quell’ultimo atto da giorni, con l’emozione che saliva
ora dopo ora, minuto dopo minuto. C’erano moltissimi tifosi allo
stadio "Heysel", con la presenza di famiglie e sostenitori
neutrali che erano andati ad ammirare le gesta di Platini e
compagni. Qualcosa, però, un’ora prima del match non andò per il
verso giusto. I supporter più caldi della squadra inglese, i
cosiddetti "hooligan", tentarono il contatto con quelli
bianconeri sistemati dalla parte opposta dell’impianto sportivo,
senza riuscirci e causando una ressa infernale nella quale molti
tifosi italiani furono schiacciati al muro apposto al settore
occupato dai sostenitori britannici. In quei frangenti regnava
il caos, con alcune persone che si lanciarono dagli spalti per
scampare al pericolo, mentre altri tentarono, invano, di
scavalcare e posizionarsi in un altro settore dello stadio. In
tutto questo il muro, tutto d’un tratto, crollò, causando la
morte di 39 persone che rimasero intrappolate e schiacciate
dalla folla che scappava impaurita. Furono attimi tragici,
dolorosi che, ancora oggi, nessuno può dimenticare. Andrea era
lì, voleva vedere la finale della sua Juventus dal vivo, con
felicità, gioia, voglia di esultare al gol di un elemento
bianconero. In quella tragica notte, il ragazzo con addosso la
casacca di "Madama" perse la vita, a causa di un comportamento
inspiegabile da parte di qualcuno che si era recato in Belgio
solo per creare violenza, disordini. Adesso Andrea, insieme agli
altri 38 angeli bianconeri non c’è più. Non ha visto il gol di
Platini, la Champions League vinta contro l’Ajax nel ’96, le tre
finali perse contro Borussia Dortmund, Real Madrid e Milan, i
molti Scudetti, la Serie B, la rinascita con Antonio Conte in
panchina. Siamo sicuri, però, che da lassù sarà fiero di tutto
questo e lui, ma non solo, non vorrà più vedere o sentire
tragedie immani come quelle dell’Heysel.
29 maggio 2014
Fonte: Blogdisport.it
Strage stadio Heysel, 29 anni
fa a Bruxelles
la morte di Giovanni e Andrea
Casula
di Francesca Mulas
Andrea Casula aveva solo 11 anni quando
suo padre Giovanni lo portò a Bruxelles: avrebbero visto insieme
la squadra del cuore, la Juventus, giocare la finale della Coppa
dei Campioni con il Liverpool. Un regalo inaspettato per il
ragazzino cagliaritano appassionato di calcio e soprattutto di
Juve, quella dei grandi Michel Platini, Paolo Rossi, Marco
Tardelli e Cesare Prandelli. Era il 29 maggio del 1985, 29 anni
fa: padre e figlio furono tra le 32 vittime italiane di una
delle più grandi tragedie del calcio, la strage dello stadio
Heysel di Bruxelles. "Massacro per una coppa", titolava il
Corriere della Sera il giorno dopo: i disordini scatenati un’ora
prima del fischio di inizio sugli spalti dai temutissimi
hooligan inglesi al seguito del Liverpool provocarono il caos
totale. La polizia belga era del tutto impreparata a gestire la
situazione tra tifosi violenti e spettatori che cercavano di
fuggire, uno dei muri divisori degli spalti non resse alle
spinte e crollò, fu il delirio: alcuni dalle tribune si
lanciarono nel vuoto, altri si ferirono scavalcando le
recinzioni, in tanti finirono calpestati dalla ressa impazzita.
Morirono 39 persone, 32 venivano dall’Italia per seguire
l’avventura juventina. In tutto questo i giocatori italiani e
inglesi scesero in campo totalmente ignari di quanto era
accaduto nelle tribune dello stadio: novanta minuti di gioco
come se nulla fosse, mentre Rai Tre trasmetteva in diretta la
partita con un impietrito Bruno Pizzul che commentava gelido.
Dopo 29 anni dalla tragedia un processo lungo sei anni ha
assolto da qualsiasi responsabilità il presidente della Uefa e
gli amministratori di Bruxelles, mentre 12 hooligan sono stati
condannati al carcere per i disordini allo stadio. La
federazione belga, la Uefa e il Belgio sono stati costretti a
risarcire le famiglie delle vittime che hanno ricevuto somme
anche dallo stato italiano e da quello inglese oltre a Juventus
Football Club, Fiat e calciatori juventini. Oggi nello stadio
Heysel c’è una targa che ricorda le vittime della tragedia del
29 maggio. Roberto Lorentini, il medico di Arezzo che tentò
invano di rianimare il piccolo Andrea Casula prima di morire, ha
ricevuto la medaglia d’argento al valore civile.
29 maggio 2014

L’Heysel ogni giorno sul posto
di lavoro
di Marco Sanfelici
Le coincidenze non sono soltanto
presenti nelle stazioni ferroviarie, ma accompagnano lo
svolgersi delle nostre vite, tra casualità e causalità. Kattia
Palmas, piccola grande donna sarda, di fede juventina radicata,
si trova a lavorare in una famiglia duramente colpita dalla
tragedia dell’Heysel; anzi, colpita nell’affetto più tenero e
dal dolore più lancinante: un bambino, con tutto il suo bagaglio
di futuro, spezzato in una notte di festa. Rispondendo ad un mio
articolo comparso su Orgoglio Bianconero ieri sera, Kattia
espone la sua esperienza, talmente pregnante e gravida di
emozioni, da suscitare la mia immediata richiesta di
pubblicazione sul blog. Siamo ormai amici, lei ed io, dopo una
serata gioviale pre-festa scudetto ed il ritrovo in via Po il
giorno dopo: perciò senza difficoltà mi dà il permesso di
pubblicazione, ciò che faccio al volo: "Nella mia vita per
quanto la Juve sia dentro di me mai avrei immaginato di
finire a
lavorare da tre anni a questa parte nella famiglia del fratello
di Giovanni e dunque zio di Andrea Casula… Quando lo seppi, beh…
Pensai io Gobba tra tante famiglie a Cagliari se sono arrivata a
questa non è un caso… E’ l’ennesima conferma che la Juventus fa
parte in tutto e per tutto di me… Quando poi questa famiglia ha
saputo che amo il calcio e che seguo la Juve… C’è stato un po’
di, come dire, quasi di silenzio misto a stupore… Forse anche
per loro è stato dopo tanto distacco rivivere il calcio dopo
anni in cui questo sport, da loro è stato accantonato… Ogni 29
maggio lo vivo da quando lavoro in questa famiglia ancora più
intensamente, non parliamo quasi mai di quella finale… Rispetto
ciò che il mio "capo" prova… Lui che mi ha sempre detto di non
aver mai voluto rilasciare interviste al riguardo malgrado negli
anni più volte lo abbiano contattato... Rispetto perché so che
per lui parlarne sarebbe
scavare nuovamente in una ferita che
non potrà mai chiudersi… Le poche volte nelle quali si è parlato
di quella notte maledetta con tanto di emozione un giorno gli
dissi che il popolo gobbo non dimentica e rende onore ai suoi
Angeli… Il suo volto fu come dire colpito e sorpreso… A sua
moglie quest' anno ho mostrato con orgoglio ed emozione la foto
dello striscione che la sud ha esposto per l’ultima di
campionato… Le ho pure detto che tutto lo Stadium si è alzato in
piedi ed ha applaudito… Lei ha apprezzato un gesto semplice ma
sentito davvero ! Perché la Juve Siamo noi… Noi tutti e questo
dobbiamo ricordarcelo sempre… La Juve Siamo noi… E noi non
dimentichiamo… Mai… In ogni coro, in ogni nostro gol, in ogni
nostra sconfitta, in ogni nostro Record ci sono tutti i tifosi
Juve sia fisicamente che spiritualmente, questo è il nostro
orgoglio, questa è la nostra forza… Sempre sarà così… Fino alla
fine !!!"
Grazie, Kattia ! Da tanto tempo
vado combattendo per un unico sentito messaggio: siamo un
popolo, in tutto e per tutto ! Con semplicità e decisione hai in
poche righe riassunto il concetto a me tanto caro. Un popolo si
stringe nei momenti del dolore, si ricompatta sotto i colpi del
destino, si manifesta temprato dalle esperienze comuni. Nella
quotidianità, come fai tu nella famiglia Casùla, giorno dopo
giorno. Grazie, Kattia ! Dai un forte abbraccio ai tuoi datori
di lavoro e dì loro che è l’abbraccio di uno juventino solo, ma
che ha dietro di sé altri milioni di abbracci, uno per uno,
tutti per loro !
1 giugno 2014
Fonte: Marcosanfelici.ilbombarolo.it

Lettera ad Andrea Casula
di Francesco Alessandrella
Ciao Andrea, mi perdonerai se oggi ti
chiederò di rimanere impigliato nei miei pensieri, ancora
qualche minuto. Sarà questo vento freddo che viene dal mare,
sarà che, avendo tu l’età di mio figlio, ti sento un po’ di
casa, ma è da qualche giorno che il tuo pensiero non mi
abbandona, piacevolmente. Sai, da quando sei andato via le cose
sono cambiate molto, qui da noi. No, non la tua Juve. Quella era
forte ed è tornata ad esserlo. C’è Pirlo, al posto di Platini e
Tevez al posto di Paolo Rossi. In porta c’era un numero uno ed
ancora c’è il più forte di tutti. E sulla panchina, caro Andrea,
sapessi: uno che ti sarebbe piaciuto. No, non è quello. È
cambiato tutto quello che c’è intorno, sai ? Ed è tutto più
brutto, credimi. Io c’ero nel 1985, eravamo quasi coetanei, io
solo un po’ più grande. E so che non era così. Non c’è più il
rispetto per la vita. E per la morte. La tua, quella di tuo
padre, quella di tanti altri che l’hanno legata, la morte, ad
una storia di sport. Che poi basterebbe poco, sai, per fermarsi
al punto giusto. Basterebbe che chi si mette lì a scrivere lo
striscione o a pensare ad un coro, da esporre o cantare durante
la partita, pensasse per un solo istante, uno, uno solo, ai tuoi
occhi. Agli occhi di un bambino di 11 anni, innamorato della sua
squadra. Alle mani di un bambino che incolla le figurine dei
calciatori sull’album. Alla precisione con cui attacca i poster
nella sua cameretta. All’attenzione con cui legge le formazioni
sul giornale. Alla gioia di un bambino di 11 anni quando il
padre gli comunica che andranno a vedere la finale di Coppa dei
Campioni in Belgio. Basterebbe poco, Andrea. Basterebbe che ogni
volta che qualcuno intona un coro, uno qualunque, di quelli
bastardi, fosse accompagnato a casa tua, a respirare la tua
aria, quella che ti sei portato con te sull’aereo verso il
Belgio, 29 anni fa. A respirare il vuoto che hai lasciato.
Basterebbe poco. Basterebbe prendere quello striscione e chi
l’ha scritto e portarli sulla collina dove la nebbia impedì che
ragazzi che giocavano a pallone diventassero uomini e che gli
uomini che li accompagnavano potessero raccontare la tragedia. E
sentire il silenzio dell’addio e lo schianto che è rimasto per
sempre nell’eco. Ecco, Andrea, basterebbe poco. Non so se siamo
ancora in tempo per fermarci, ma so che è necessario provarci.
Per te. Per mio figlio che ha la tua età, una squadra nel cuore,
le figurine sull’album e i poster nella cameretta. E che merita
di più di questo mondo bastardo nel quale siamo precipitati.
Ciao Andrea !
11 marzo 2014
Fonte: Spaziojuve.it
25° Heysel
a Torino,
29.05.2010 |
Patrizia Gai
legge la Poesia "Qui è tutto
buio..." di Alessandro Polimanti |

(Dedicata ad Andrea Casùla che
nel 1985 aveva solo 11 anni ed a tutti gli altri 38 Angeli
dell'Heysel)
Qui è
tutto buio...
di Alessandro Polimanti
Cavolo che fortuna, Papà ha trovato
i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni...
e me ne ha regalato uno per il mio
11esimo compleanno...
Non vedo l’ora che si parta, già mi
immagino lo stadio pieno,
i cori
e le maglie bianconere che scendono in
campo...
Finalmente vedrò Tacconi, Cabrini,
il Capitano Scirea e poi lui…
le Roi, il Re… Michel Platini...
che emozione.
Papà mi ha raccontato che l’ultima
volta non è andata bene…
che quelli dell’ Amburgo erano entrati più volitivi
e alla
fine la coppa l’hanno presa loro…
Spero non sia così anche stavolta…
anzi no… non sarà così stavolta, me lo sento…
anche se sono un bambino, se ho
solo 11 anni, certe cose non hanno età.
Finalmente si parte, il viaggio è
lungo, ma non ci si annoia mai
tra scherzi, barzellette, e i cori
per la nostra Juventus... che spasso.
Eccoci !!!
Siamo arrivati...stanchi ma senza essere
stanchi davvero,
perché l’emozione mi tiene sveglio... saranno 15 ore che non
dormo…
Mamma
mia che brutto lo stadio... sembra una rovina dell’antica Roma…
e quanti poliziotti a cavallo…
dicono che il nostro settore, lo
zeta, è vicino agli inglesi…
dicono che questi hooligans sono
pericolosi che bevono…
Ma io non ho paura, no… ho con me
il mio Papà... non può succedermi niente...
… e poi io e il mio papà, per
fortuna, siamo dall’altra parte…
Evvai... da qui vedo benissimo il campo… ma quando inizia ?
Sono già stufo di aspettare…
dai che ormai manca poco…
E ora
che succede ???
Perché quegli inglesi stanno
prendendo a calci le reti ??
E perché ci tirano addosso di tutto
???
Che non vedono che qui ci sono solo
famiglie e gente tranquilla ???
Oh… ma che spingete ???
Fermi,
fermi… qua c’è il muro… non posso andare più in là…
Papà,
ti prego fa qualcosa…
Papà mi stringe a sé... cerca di
proteggermi…
di farmi da scudo col suo corpo…
uff, non riesco a respirare…
Basta !!! Smettetela di
spingere….fate piano…
SONO UN BAMBINO IO!!!
.......................................
Finalmente... è
finito tutto… sembrano tutti calmi, ora…
C’è silenzio… tanto… e intorno a me è
rimasta solo poca gente…
...saremo una quarantina… compresi me e
papà...
1, 2, 3…… 39… ma tutti gli altri dove sono
???
E la confusione di prima ???
E lo stadio ???
Ora sto meglio… ma non vedo più niente…
… qui è tutto buio…
19 novembre 2009
Fonte: "L’ultima Curva" di
Nereo Ferlat, Novantico Editrice
|

Heysel, 29 maggio 1985: Andrea
aveva 11 anni
di Francesco Alessandrella
Andrea ha 11 anni e non sta più nella
pelle. Suo padre gli ha trovato il biglietto della partita più
importante dell’anno e potrà vedere da vicino tutti i suoi
campioni più amati. Certo, il viaggio è un po’ lungo, da
Cagliari al Belgio, ma ne varrà certamente la pena. Francesco di
anni ne ha 15 e vive in provincia di Napoli. È tifoso della
Juventus da quando ne aveva 10, ma forse anche prima. Lui dice
che a 10 anni per la prima volta non ha dormito una notte a
causa della eliminazione della sua squadra al 90° dalla Coppa
delle Coppe e che, poi, la cosa si è ripetuta qualche anno dopo,
nell’83, nella finale di Atene. Ma stavolta è certo che le cose
andranno meglio. Andrea è arrivato a Bruxelles, il viaggio è
stato stancante, ma adesso ha addosso tutta l’adrenalina del pre-partita.
Suo padre Giovanni sta provando a fargli mangiare qualcosa,
prima di entrare allo stadio, ma la sua attenzione è tutta
rivolta verso quello che gli sta intorno. C’è gente, tanta gente
con le sciarpe bianconere. Andrea domanda al padre se si
conoscono già le formazioni, se Tardelli giocherà, pare che
abbia un problema muscolare, forse parte dalla panchina...
Francesco è arrivato a casa di Alfio, un amico del liceo, dove
vedrà la partita insieme ad altri compagni di scuola. Mentre
entra nel cancello, incontra il padre di Alfio che sta prendendo
la macchina per andare a comprare le pizze. "Sono già tutti
sopra", gli urla. Francesco sale le scale che lo separano dal
secondo piano a due a due. Non fa altro che pensare a quella
partita da una settimana, anche le ultime interrogazioni di
greco sono andate un po’ così, ma la promozione dovrebbe essere
cosa fatta. E’ che proprio non è riuscito a trovare la giusta
concentrazione.
Ma ormai ci siamo! Andrea è entrato nella
stadio. La prima cosa che ha notato è che lo stadio è piccolo,
più piccolo di quanto si era
immaginato. Piccolo e vecchio,
pensa Andrea. Ma è un momento, poi ritorna a guardarsi intorno,
affascinato da quell’atmosfera della finale. Prova a tenere
dentro di sé ogni singola immagine, quando tornerà a casa dovrà
raccontare tutto alla madre e ai suoi compagni di classe. Sul
campo, poco fa, c’erano i giocatori. Suo padre gli ha indicato
Platini, il suo preferito, quello del poster nella sua
cameretta. Tardelli giocherà, in panchina ci va Briaschi.
Francesco si è portato dietro un suo portafortuna: un pupazzetto bianconero. Lo aveva con sé all’andata delle semifinali contro
il Bordeaux ma non al ritorno e la Juventus aveva rischiato
l’eliminazione. Ci crede a queste cose e, a rischio di essere
preso in giro dai compagni, lo ha portato. Fosse stato per lui,
avrebbe portato anche il poster di Platini che aveva attaccato
sul suo letto, ma la madre lo ha convinto a non toglierlo.
Tornando a casa, pensa, lo avrebbe abbellito con una fotografia
della Coppa dei Campioni che aveva ritagliato la mattina dal giornale del padre. Quando entra in casa di Alfio, chiede subito
se si conosce già la formazione e se Tardelli avrebbe giocato.
Nessuno gli risponde. Andrea adesso guarda preoccupato il padre
che sta fissando alla sua sinistra. Non riesce a rendersi conto
di quello che sta succedendo. Sa solo che quell’atmosfera di
festa che fino a qualche minuto prima stava vivendo, non c’è
più. Intorno c’è, adesso, uno strano silenzio, un silenzio
ovattato, irreale per essere in uno stadio. Prova a guardare
anche lui e quello che riesce a vedere è una specie di onda
fatta di persone vestite di rosso che si allontana dalle reti di
"protezione" del suo settore e, poi, con lucida follia, vi si
scaglia contro cercando di farle cedere. Andrea guarda il padre
e si accorge che in quello sguardo non c’è quella espressione
che tante volte, nella sua vita, lo aveva rassicurato. Non prova
nemmeno a chiedere che cosa stia succedendo, sa che il padre non
ha una risposta per quella domanda. Non avrebbe mai immaginato
che potesse esserci una domanda alla quale un adulto, un padre,
non sapesse dare una riposta, ma adesso sa che è proprio così.
Ed è una delle ultime cose che imparerà. Francesco è seduto
davanti al televisore. Sul tavolo c’è la pizza ma nessuno ha
voglia di mangiarla. C’è Scirea che parla al microfono, ma lui
non sta sentendo. Sta pensando alle volte che in questo mese ha
chiesto al padre di andare a vedere la partita e si sente
sollevato a pensare che non è riuscito a convincerlo. Guarda le
immagini, Francesco, e pensa che in quel momento sta morendo una
parte di sé, che in quel preciso istante sta perdendo quella
spensieratezza che aveva riguardo al mondo dello sport. Sa che
ci vorrà del tempo per mettere in ordine dentro di sé quello che
sta accadendo a migliaia di chilometri di distanza ma che la
televisione sta scagliando con prepotenza in quella stanza tra
una pizza fredda e un pupazzetto bianconero, in un silenzio
irreale. Francesco sono io e Andrea è la più giovane delle 39
vittime cadute all’Heysel. Oggi, io ho l’età del padre di
Andrea, anch’egli vittima della follia degli hooligans, e mio
figlio Lorenzo è poco più piccolo di Andrea. Ogni volta che
penso di portare mio figlio allo stadio, mi torna in mente la
storia di Andrea. Qualche volta ho anche provato a
raccontargliela, sfidando il rischio di sentirmi fare qualche
domanda alla quale non saprei rispondere. Perché ora lo so anche
io: ci sono domande alle quali anche un padre non sa rispondere.
La sera dell’Heysel è una ferita che sanguina dentro ogni uomo
che l’ha vissuta, allo stadio o seduto davanti al televisore.
Nella notte dell’Heysel non sono morte solo 39 persone. Sono
morti, dentro, tutti quelli che amavano il calcio. Niente e
nessuno è stato uguale a prima dell’Heysel. Quella notte ha
cambiato, per sempre, il modo di intendere lo sport. Andrea e
Francesco. Due giovani tifosi bianconeri che, in quella sera,
hanno avuto due destini diversi. Andrea è rimasto schiacciato
sotto la furia omicida di gente che con il calcio e lo sport non
hanno nulla in comune. Francesco, da quella sera, sa di avere un
compito: raccontare a Lorenzo, e a quanta più gente è possibile,
la storia di un bambino, partito da Cagliari per assistere ad
una festa, e mai più tornato per poterla raccontare. Perché non
accada mai più.
29 maggio 2012
Fonte: Juventinovero.com
Il pallone di Andrea
di Emilio Targia
Aveva 11 anni, Andrea. L’età in cui il
calcio è ancora la musica della propria vita. L’età in cui il
calcio è ancora la misura della propria gioia. Andava in quinta
elementare, Andrea. L’ultimo anno di scuola dove ti senti
bambino. Che poi con le medie si diventa grandi. Ti cambiano i
quaderni. Ti cambiano i sogni. Era tecnologico, Andrea. Sicuro
al timone del suo computerino. Un Vic-20 che già gli andava
stretto. Era ingegnoso, Andrea. Pile e intreccio di fili per
costruire il suo campanello personale. Driiiin. Per entrare in
camera sua, si prega di suonare. Quante volte Andrea avrà detto
ai suoi "Scendo a giocare a pallone in cortile". Che così si
dice, da bambini, "pallone". Il calcio è per i grandi. Quante
volte avrà appoggiato il suo maglione per terra Andrea, a mo’ di
palo, inventando una porta precaria, dentro a un pomeriggio di
inizio primavera, che di fare i compiti oggi non se ne parla,
oggi si gioca a pallone. Il garage va bene d’inverno, c’è una
tettoia sporgente che ripara dalla pioggia. Ma è uno strazio,
ogni volta che esce o entra una macchina bisogna fermarsi. Come
quando mandano gli spot durante la partita in tv. Ma è solo una
Smart. Poi cross dalla rampa e gol di sinistro, all’incrocio dei
tubi della grondaia. Col primo sole si scappa a giocare sul
prato vicino casa, vuoi mettere. Puoi tuffarti buttarti correre
urlare. E provare la rovesciata. E entrare in scivolata. Come i
grandi. Via i jeans però, sotto Andrea ha già i pantaloncini. I
pantaloncini da calcio sono la biancheria intima dei bambini.
Così niente macchie. E mamma non si arrabbia. Al massimo
sbucciature rosso-verdi sulle ginocchia. Le stimmate del
giocatore senza paura. Vorrai mica tornare a casa senza un
graffio ? Poi c’è la scuola calcio. Intitolata a un signore che
in Sardegna è un mito più che altrove. Gigi Riva. Rombo di
tuono. Rivarombodituono. Tanto che fin da piccoli a ogni
temporale ti viene in mente lui, mica pensi alla pioggia. La
scuola calcio dove impari a misurare l’istinto. Dove mettono
ordine dentro al tuo entusiasmo. Dove cominci a sentirti un po’
più grande. Col pallone di cuoio e le scarpette da calcio vere.
Che sul prato si gioca con le Superga e il Supertele. "Papà, se
la Juve va in finale mi porti, mi porti ?".
A casa Andrea aveva appena finito di aprire quei nuovi 10
pacchetti di figurine arrivati in regalo come una benedizione.
Quest’anno è andata alla grande. Gli mancano solo 2 figurine per
finire l’album dei "Calciatori" 1984/85. È la prima volta.
Soltanto due ! L’odore di un pacchetto di figurine che si apre è
un soffio dolce sul viso. È una promessa. Ce l’ho, ce l’ho, ce
l’ho, ce l'ho... Per forza Andrea, ce le hai tutte, o quasi,
ormai. Al nono pacchetto la sorte è benevola. "... mi manca
!!!". Adesso ad Andrea ne manca solo una di figurina, per finire
l’album. Soltanto una. Manco a farlo apposta proprio quella sera
a Bordeaux la Juventus si qualifica per la finale. Per la finale
di Coppa dei Campioni. La finale di calcio. Quello dei grandi.
In Sardegna il sole è già possente, lo stempera il vento, che si
infila dentro a una luce che profuma d’estate. Le onde che
sbattono sul porto di Cagliari infilano iodio nell’aria e
invogliano a correre. Correre dietro a un pallone, magari. Di
cuoio o di plastica. Driiin. Quando il papà dice ad Andrea che è
riuscito nel miracolo di trovare due biglietti per la finale di
Bruxelles, e che ci andranno insieme, lui non sta più nella
pelle. Gli sale dentro un’emozione profonda e sconosciuta.
Juventus-Liverpool, una delle partite più importanti della
storia della Juventus, lui se la vedrà dal vivo, col suo papà.
Andrea è già stato allo stadio, al Sant’Elia di Cagliari, ma
stavolta sarà diverso. Sarà a Bruxelles. Alla finale di Coppa
dei Campioni. Dentro lo stadio che tutto il mondo quella sera
guarderà. Nemmeno 100 pacchetti di figurine, o 10 partite sul
campo dei grandi gli farebbero lo stesso effetto.
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Nemmeno 10
goal all’incrocio dei tubi, e 10 rovesciate perfette, sul prato
vicino casa. Andrea lo racconta ai suoi compagni di squadra, che
andrà a Bruxelles. Che andrà a vedere la Juve. La finale. Lo
racconta ai suoi compagni di quinta, che andrà all’Heysel.
Sorrisi, e pacche sulle spalle. E "Beato te". E "Accidenti !". E
"Posso venire con voi ?". Andrea conta i giorni, come fosse
dicembre aspettando Natale. E quando finalmente Natale arriva, a
Bruxelles è quasi estate. Il cielo è di un azzurro intenso, e la
luce è fortissima. Mano nella mano con il suo papà, Andrea si
mangia con gli occhi la stazione, il taxi, le strade. Conta le
bandiere bianconere, legge le insegne dei negozi, esamina
attentamente le marche delle auto. Chissà dove giocano a
pallone, qui a Bruxelles, i bambini come me. Chissà se anche
loro fanno i cross dalla rampa, o hanno dei campetti tutti per
loro. Chissà se sanno chi è Gigi Riva, qui a Bruxelles. Quando
entra dentro lo stadio Andrea ha un groppo alla gola. Si
riannoda il fazzoletto bianconero che ha al collo, nel timore di
perderlo, e comincia a fissare lo stadio. Come fosse un
giocattolo immenso. E i tifosi della Juventus, che dall’altra
curva intonano già il loro "Juve-Juve" secco e deciso, gli
regalano un primo sottile brivido. Andrea si sente già un po’
più grande, dentro a quello stadio, che gli sembra sterminato. E
gli sale dentro un’emozione dolce. L’emozione di un bambino. Con
l’emozione sale anche la fame. Il papà di Andrea sorride e tira
fuori un sacchetto giallo, di cioccolatini bicolore. "Che qui
sono buonissimi, sai Andrea ? Facciamoceli bastare... ". La
merenda al cacao delle 6 si scioglie in bocca. Quando sente le
urla a pochi metri da lui Andrea non capisce, pensa che sia
qualche tifoso un po’ più vivace degli altri. E poi quello
fondente ripieno è troppo buono. Poi le grida si fanno più forti
e concitate, e intorno la gente comincia a guardare verso
sinistra, e a gridare "Gli inglesi,
guarda, gli inglesi
scavalcano!!!". Andrea cerca di guardare e di capire, allunga la
testa, ma il suo metro e 46 non gli consente di avvistare là in
fondo i reds che caricano a testa bassa. Un primo scossone
sbalza via lui e suo papà dal posto dove si erano sistemati, in
piedi come tutti gli altri. Giovanni allora gli stringe forte la
mano, Andrea chiede "Papà che succede ?", mentre di colpo si
ritrova nel suo abbraccio, che non è come le altre volte, che è
stretto e serrato come mai lo è stato prima. Giovanni ora cerca
di scappare verso il lato destro. "Gli inglesi hanno invaso il
nostro settore, dobbiamo scappare Andrea". "Hanno "invaso" ? E
perché ? Che gli abbiamo fatto papà ?". Non c’è tempo per
rispondere, non c’è tempo per capire. Gli inglesi adesso
caricano in massa, Andrea e suo papà vengono scaraventati
addosso a chi sta già scappando, come loro. Il settore Z è
diventato una centrifuga, e i rossi ora sono un’onda impazzita.
Andrea adesso ha paura, getta in terra i cioccolatini e infila
di nuovo la sua mano in quella di suo papà, che gli fa da scudo,
gli dice di stare tranquillo, di resistere, che tra poco sarà
tutto finito. Andrea in quel marasma cerca solo di respirare, di
non pensare, di tenersi stretto al suo papà. La sua unica
ciambella di salvataggio in quel mare impazzito. Per un attimo
l’onda rallenta, la morsa si attenua. E allora si riprende
fiato, ci si allarga un po’, si tira su la testa. Forse è
finita. Hanno smesso. Giovanni accarezza Andrea, che accenna a
un sorriso. Ma quelli sono furie. Sono belve impazzite. Caricano
di nuovo. Ora urlano tutti. L’onda li sballotta, li trascina
via, li risucchia. Andrea si stringe forte a suo papà. Rotolano
in terra, poi si rialzano, poi di nuovo in terra. Giovanni non
lo molla, Andrea cerca di rimanere in piedi, di prendere fiato,
di proteggersi dai calci di quelli che scappano. Ma a un certo
punto non sente più urla, non prova più dolore, non ha più
paura. Si stringe forte a suo papà. Si stringe forte a suo papà
e basta.
Maggio 2010
N.D.R. Il bambino in fotografia
non è Andrea Casùla
Fonte: "Heysel 29 maggio 1985 Prove di memoria, Reality Book
Editore
Fonte Fotografia Bambino:
Paginesarde.it

I ricordi della cagliaritana
che nel crollo perse marito e figlio
"L'Heysel mi ha rubato la
famiglia"
di Paolo Carta
"Allo stadio Heysel per vedere la
finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool dovevamo andarci
tutti insieme: io, mio marito Cicci e i nostri due figli, Andrea
ed Emanuela. Il nostro programma era quello di abbinare la
passione per lo sport con una vacanza, e proseguire dal Belgio
sino a Parigi per festeggiare il 6 giugno il nostro anniversario
di matrimonio. Due giorni prima della partenza decisi di no, che
saremo rimaste a casa, io e la bambina: Emanuela doveva
sostenere l'esame di licenza media, preferii rimanere a Cagliari
per aiutarla a studiare ed evitare distrazioni. Alla fine
partirono solo gli uomini di famiglia. Questo pensiero mi
accompagna da vent'anni: se avessi preso prima la decisione di
non partire con loro, forse Cicci e Andrea avrebbero potuto
prenotare prima il viaggio e trovare posti migliori in quello
stadio. Invece no, finirono nel settore Z. Insieme agli
hooligans inglesi. In quella sera del 29 maggio 1985 la nostra
famiglia fu spezzata". Trentanove morti per il crollo della
tribuna che non ha retto all'avanzata dei tifosi inglesi contro
quelli italiani. Tra le vittime anche due cagliaritani, Giovanni
Cicci Casula, dirigente della Cosmin, appassionato di calcio e
tennista per hobby, e suo figlio di undici anni, Andrea. Anna
Passino oggi ha 55 anni, è un'elegante signora che abita nella
stessa casa, a Monte Urpinu. Vent'anni dopo "il tempo ha
attutito il dolore, perché la vita va comunque avanti e ho
dovuto trovare dentro di me la forza per allevare l'altra mia
figlia, che ora è laureata e vive a Roma. Dentro di me,
soprattutto quando ripenso a mio figlio, il dolore è sempre lo
stesso, straziante. Andrea è presente ancora in ogni istante
della mia giornata. Immagino cosa farebbe adesso. Avrebbe 30
anni, magari sarebbe laureato, gli piacevano tantissimo le
materie scientifiche. Da bambino aveva realizzato un campanello
elettrico alimentato dalla pila, per poter entrare nella sua
stanza chiunque doveva suonarlo. E sapeva usare benissimo il suo
computer, un Vic 20: se fosse stato promosso agli esami di
quinta elementare, se la Juve avesse vinto la Coppa e se il
Cagliari si fosse salvato dalla retrocessione in serie B, il
padre gli avrebbe regalato il Commodore 64". Quel bambino è
rimasto bambino, un angelo volato via da quel prato con la mano
stretta a suo padre nel tentativo di scappare dalla furia della
violenza. Quella giornata è diventata una delle pagine più
tristi della storia del calcio italiano, forse più della
tragedia di Superga, l'incidente aereo in cui morì il Grande
Torino di Valentino Mazzola nel 1949. Perché era una evitabile
se fosse stato scelto uno stadio più sicuro; se la polizia belga
fosse stata più preparata; se l'Uefa avesse saputo prevenire i
più annunciati degli incidenti; se non fossero stati sistemati
insieme nelle tribune, fianco a fianco, i tifosi inglesi
ubriachi e i padri di famiglia italiani con i loro bambini.
"Certo, venerdì quando in tv ho visto che la Juventus dovrà
incontrare di nuovo il Liverpool in Coppa dei Campioni, il
pensiero è tornato indietro a quei giorni, a come sarebbe stata
la mia vita se non avessi perso mio marito e il mio bambino.
Probabilmente sarebbero andati insieme a vedere anche la
prossima partita. Padre e figlio. Forse con me ed Emanuela. La
famiglia intera. Unita e felice".

Anna Passino ricorda ogni
istante di quella serata. "Di pomeriggio uscii per qualche
commissione, rientrai verso le 20 e mi misi a preparare la cena
per me ed Emanuela. In sottofondo la televisione era accesa e
dava notizie sugli scontri tra tifosi. Immediatamente mi
preoccupai tantissimo, ma sino a un certo punto: non sapevo con
esattezza in quale settore dello stadio i miei avevano trovato
il biglietto. E poi, quando vidi che la partita era iniziata
ugualmente, pensai che forse la situazione non doveva essere
così grave. Le notizie erano poco approfondite e molto vaghe.
Soltanto alla fine della partita ci rendemmo tutti conto di quel
che era successo. Vennero a casa i miei cognati, ci mettemmo in
contatto con il Ministero degli Esteri. In un primo momento ci
dissero che il bambino era soltanto ferito, poi la verità. Un
ragazzo torinese (N.D.R. aretino), Roberto Lorentini, cercò di
rianimare mio figlio e anche lui perse la vita: adesso il padre,
Otello Lorentini, è il presidente dell'associazione dei
familiari delle vittime. Non rivendichiamo niente, soltanto la
verità". I processi a 13 hooligans, al capitano della
gendarmeria belga, al presidente della Federcalcio belga, al
segretario generale dell'Uefa si conclusero con condanne-burla:
un massimo di cinque anni, rigorosamente con la condizionale.
L'Heysel venne demolito, rifatto e dedicato al Re Baldovino. Ci
ha giocato anche l'Italia, negli europei del 2000. "Ma io - dice
Anna Passino - il calcio non lo seguo più da quel giorno
maledetto. Eravamo abituati ad andare all'Amsicora prima e al
Sant'Elia poi tutti
insieme. Era una festa. Forse Cicci e Andrea
erano abituati al Sant'Elia, non erano preparati a quel che
trovarono all'Heysel". Quella sera di maggio di vent'anni fa ci
fu anche una partita, un rigore regalato ai bianconeri, una
coppa sollevata, un giro di campo in festa. Tra le barelle, i
feriti, praticamente tra i corpi senza vita. "La Juventus -
dichiara Anna Fassino - ha fatto poco per le vittime di quella
sera, ma non è che ci aspettassimo qualcosa. Se è vero che per
questioni di ordine pubblico le squadre furono obbligate a
scendere in campo, è altrettanto vero che sportivamente non
sarebbe stato giusto assegnare il titolo europeo dopo quella
tragedia: la società bianconera avrebbe dovuto restituire quella
Coppa dei Campioni, per rispetto dei suoi tifosi morti". In quei
momenti, quando si perdono le persone care, si entra quasi in
trance. "Volevo soprattutto l'impossibile: dimenticare. Giorno
dopo giorno mi sono resa conto che è impossibile, e che la vita
va comunque avanti. Nei primi tempi avevo trasformato la stanza
di mio figlio in una sorta di museo: fu mia figlia a
rimproverarmi, a farmi capire che non era giusto farla vivere in
tutto quel dolore. Emanuela probabilmente ha realizzato quel che
è successo soltanto dopo. E ha sofferto tremendamente da
adolescente. Per anni non abbiamo apparecchiato il tavolo da
pranzo: sarebbe stato troppo difficile mangiare davanti a quei
due posti vuoti. Prendevamo qualcosa e la mettevamo su un
vassoio, poi sedute sul divano davanti alla televisione.
Fortunatamente non abbiamo avuto problemi economici, abbiamo
continuato a vivere tra Monte Urpinu e la casa al mare a Costa
Rei. La casa delle vacanze ci ha aiutato psicologicamente: tra
parenti e amici di Emanuela e di Andrea non siamo mai rimaste
sole. Ma lo strazio ci accompagnerà per sempre". Anche adesso
che Anna Passino ha un nuovo compagno conosciuto sulla spiaggia
di Monte Nai ("un affetto importante"). Ogni trentenne che
incontra per strada potrebbe essere suo figlio. Quello che gli è
stato portato via per una partita di calcio. "Liverpool e
Juventus forse giocheranno tra quindici giorni con il lutto al
braccio ? Sarebbe un bel gesto, certo, ma nessuno mi potrà
restituire Cicci, mio figlio Andrea, la mia vita".
20 marzo 2005
 LA STRAGE DI
BRUXELLES
Addio, piccolo Andrea, pulcino
del Cagliari
di Andrea Frallis
Quattro vite umane sono il pesante
tributo di sangue che la Sardegna paga alla selvaggia violenza
dei tifosi del Liverpool nella finale della Coppa dei campioni.
Tra i morti, assieme al padre, un bambino di undici anni.Quattro
vite umane sono il pesantissimo tributo di sangue che la
Sardegna paga alla selvaggia violenza dei tifosi del Liverpool
responsabili dei gravissimi incidenti nel pre-partita della
finale di Coppa dei Campioni a Bruxelles. La drammatica morte di
Giovanni e Andrea Casùla, padre e figlio cagliaritani, di Mario
Spanu originario di Perfugas ma stabilitosi da tempo a Novara e
di Barbara Lusci di Domus Novas ma sposata a un genovese, ha
riempito di commozione e di orrore i sardi che hanno seguito con
grande attenzione tutte le notizie provenienti dalla capitale
belga. Fra tante drammatiche vicende particolare commozione ha
suscitato la storia del piccolo Andrea Casùla di 11 anni, che
aveva ottenuto dal padre il premio del viaggio a Bruxelles per
seguire la squadra del suo cuore. Andrea era un bambino
esemplare sotto tutti i punti di vista: diligente a scuola,
affettuoso con i familiari e i compagni, frequentava la scuola
calcio di Gigi Riva, teneva molto alla finale di Coppa dei
Campioni e, dopo tante insistenze, era riuscito ad ottenere il
premio alle sue fatiche scolastiche. I soccorritori lo hanno
trovato privo di vita sulla gradinata del famigerato settore "Z"
dello stadio Heysel: al collo aveva ancora il fazzoletto
bianconero della "sua" Juventus e stringeva in un abbraccio il
padre Giovanni nell'ultimo, disperato tentativo di sottrarsi a
una morte orrenda. Dopo il tremendo choc di chi ha seguito per
televisione le immagini della tragedia di Bruxelles, solo il
giorno successivo i sardi hanno saputo che anche l'Isola era
stata toccata dal dramma: ore di attesa angosciosa, la ricerca
disperata di notizie dei propri congiunti che si erano
sobbarcati le faliche e le spese di un viaggio in Belgio
convinti di andare ad assistere ad una festa dello sport. Ma le
numerose testimonianze dei sardi presenti confermano che, quella
sera, a Bruxelles ha funzionato ben poco: impossibile
telefonare, tantomeno in Italia, e quindi la netta sensazione
che la capitale belga si sia trovata a dover affrontare una
situazione per
la quale non era preparata e alla quale ha
reagito nel peggiore dei modi: con improvvisazione e
superficialità. Le stesse autorità belghe hanno riconosciuto che
la presenza di forze dell'ordine all'interno dello stadio era
insufficiente al momento in cui sono scoppiati i disordini e, la
circostanza, conferma come a Bruxelles abbiano sottovalutato il
pericolo costituito dagli scatenati tifosi inglesi; d'altra
parte il fatto che i biglietti di un settore inizialmente
destinato al pubblico belga siano poi finiti in mano ai
sostenitori juventini la dice lunga sull'attenzione dedicata a
questa manifestazione. Orrore, sdegno, commozione ma nulla di
più: anche in questa occasione i sardi hanno reagito con grande
compostezza e civiltà all'ennesima tragedia che li ha colpiti
così come d'altra parte hanno fatto, a parte qualche stupida
eccezione, tutti gli italiani. La facile tentazione di
generalizzare, prendendosela indiscriminatamente con tutti gli
inglesi, qui da noi non ha attecchito: molti britannici, specie
nel nord dell'Isola, si trovavano già in Sardegna per
trascorrere le loro vacanze al momento della tragedia ma nessuno
di loro, per quanto è dato sapere, è stato oggetto di ritorsioni
o di altri episodi del genere e questo è il segnale evidente del grado di maturità civile raggiunto da un popolo. Pian piano la
rabbia, lo sgomento e Io sdegno hanno lasciato il posto al
ragionamento, alla valutazione di ciò che era successo: e
allora, specie nell'esame del dopo incidenti, le responsabilità
gravissime degli organizzatori e delle autorità belghe sono
venute fuori in maniera evidente anche nella considerazione dei
sardi. I teppisti che hanno provocato gli incidenti del 29
maggio non possono essere confusi con tutti gli inglesi e
neanche con la maggioranza dei sostenitori del Liverpool; sono
solo una frangia violenta, e oggi possiamo dire anche assassina,
di un popolo che per secoli è stato maestro di civiltà per tutto
il mondo e che anche in questa occasione non ha nascosto niente
condannando duramente chi aveva causato i disordini e facendosi
carico di una vergogna e di uno sdegno che, noi crediamo, per
molti anni peserà sulle coscienze degli abitanti del Regno
Unito. Per i belgi il discorso è diverso, questo è nostro dovere
sottolinearlo: l'inefficienza, l'impreparazione e la
superficialità sono state le caratteristiche del comportamento
degli organi istituzionali di Bruxelles, degli organizzatori
della manifestazione sportiva, di chi era preposto all'ordine
pubblico, al soccorso dei feriti e alla assistenza ai familiari
e ciò è senz'altro imperdonabile per uno stato definito fra i
più efficienti e organizzati in Europa e nel mondo. Per aver
conferma di ciò basterebbe chiedere e a coloro che sono partiti
in preda all'angoscia dall'Italia per riconoscere una salma o
per stare vicino a un familiare ferito quale tipo di disagi si è
trovato a dover affrontare una volta giunto a Bruxelles;
abbandonati a sé stessi, senza punti di riferimento per avere
notizie, gli italiani in Belgio hanno ricevuto l'aiuto dei
nostri emigrati (con i sardi tra i primi) che hanno fornito loro
non solo informazioni e assistenza ma, in molti casi, anche
vitto e alloggio in una meravigliosa gara di solidarietà che ci
ha dato la misura di come il dramma sia stato vissuto dai nostri
connazionali emigrati. Ma non si è trattato solo di
impreparazione e superficialità: c'è di più e, forse, di peggio:
nei giorni successivi al "mercoledì nero" infatti le autorità
belghe hanno continuato ad essere al centro di episodi non
proprio piacevoli. Mentre in altre città italiane i parenti
delle vittime si accorgevano di un incredibile scambio di salme,
a Cagliari le perizie necroscopiche ordinate dalla magistratura
romana sui corpi di Giovanni e Andrea Casùla rivelavano che le
salme non erano state ricomposte dopo la prima autopsia
effettuata dai medici legali di Bruxelles; dei medici che hanno
dimostrato scarsa coscienza umana e professionale e nessuna
pietà per i morti tra i quali, lo ricordiamo, un bambino di 11
anni. La notizia, come è comprensibile, ha provocato
raccapriccio e indignazione nell'opinione pubblica sarda e, a
ben poco, sono servite le precisazioni delle autorità belghe che
hanno attribuito alla "fretta degli italiani" la mancata
ricomposizione delle salme. Mancanza di organizzazione, quindi,
ma anche e forse soprattutto di sensibilità; forse ha ragione il
ministro degli interni italiano Scalfaro quando dice,
riferendosi agli incidenti di Bruxelles, che "ormai ci sono le
ragioni giuridiche per parlare di responsabilità civile".
? giugno 1985
Fonte: Il Messaggero

Abbracciava il figlio undicenne
li hanno visti morire insieme
CAGLIARI (g.m.b.) - Guardando la
televisione non si è preoccupata più di tanto: era convinta
infatti che suo marito e suo figlio avessero trovato posto nelle
tribune numerate. Solo per scrupolo ha telefonato al ministero
degli Esteri per sapere se suo marito Giovanni Casùla, 42 anni,
e il piccolo Andrea 11 anni, fossero coinvolti nell' incidente.
"Sono morti", le hanno fatto sapere richiamandola dopo qualche
minuto. Ieri mattina, dopo una notte di disperazione, le prime
notizie del telegiornale le avevano restituito un filo di
speranza: il nome di Andrea Casùla non figurava nell'elenco
delle vittime. La donna è partita per Bruxelles con un aereo
messo a disposizione dall' Aeronautica militare ma presto ogni
illusione è caduta: sì, fra i morti c'era anche suo figlio.
Andrea, tifoso della Juventus e del Cagliari era uno dei
"pulcini" della scuola di calcio di Gigi Riva. La finale della
Coppa dei Campioni doveva essere un premio per i suoi successi
scolastici di quinta elementare: "Vado a Bruxelles a
rappresentarvi tutti", aveva detto trionfalmente ai compagni di
scuola. Alcuni dicono ora di averlo riconosciuto in televisione:
era appoggiato ad una transenna, il padre per proteggerlo, lo
stava abbracciando.
31 maggio 1985
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