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Racconti e Heysel
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Racconti e Heysel
"Heysel" (Domenico Mungo) 
"Il mare dell'Heysel" (Domenico Laudadio) 
"Il pallone di Andrea" (Emilio Targia
"Un ricordo dell'Heysel" (Francesco Savio)
"HEYSEL" (Ezio Maccalli)
"29 MAGGIO 1985" (Pietro Verzì)
Bibliografia Heysel

Heysel

di Domenico Mungo

"È la causa e non semplicemente la morte che crea un martire" (Napoleone Bonaparte)

29/05/1985 Finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool Stadio "Heysel" di Bruxelles, Belgio. "Il Liverpool è forte, ma noi sappiamo di poterlo battere" - disse Platini. "Ci eravamo già riusciti a Gennaio, al Comunale di Torino, quando si giocò col pallone rosso dopo un’incredibile nevicata. Boniek fu magnifico, quella sera. Due a zero per noi e doppietta di Zibì, così vincemmo la Supercoppa".

Grand Place

Alle dieci di mattina del 29 maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano ovunque. Molti dormivano per terra sfiniti usando come cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le bottiglie svuotate venivano lanciate in terra come bombe a mano, oppure in aria, per gioco. La struttura dell’Atomo, che campeggiava dietro la collinetta che si affacciava sulla curva Z, era un’enorme installazione di acciaio, piena di scale mobili e vetrate, che si stagliavano in un cielo di un azzurro vivido e irreale. Tale costruzione futuristica avrebbe dovuto celebrare la maestosità dell’ingegno e dello scibile umano. Un azzardo quasi blasfemo col senno di poi. Era una bellissima giornata, il sole splendeva sereno e la temperatura era discretamente alta. Nelle numerose piazze di Bruxelles tutto era uno sventolio di bandiere e sciarpe, ora bianconere juventine, ora rosso fuoco del Liverpool. I roboanti canti dei tifosi inglesi riecheggiavano nelle strade di Bruxelles e si confondevano con i canti più disordinati e occasionali dei tifosi italiani. inglesi e italiani erano promiscuamente liberi di frequentarsi: l’atmosfera era amichevole, con risate, scherzi, scambi di sciarpe e reciproco rispetto a tener banco.

Prologo di un massacro

Verso le 16 migliaia di tifosi juventini sono accalcati in paziente attesa dell’apertura dei cancelli della curva riservata agli ultras e ai club organizzati provenienti dall’Italia (diametralmente opposta al settore Z). Il primo sintomo di irritazione avviene proprio in quei momenti. Sono ore che aspettano sotto il sole che quei cancelli vengano aperti. Ma questo non pare essere un eccessivo problema, se non fosse stato per la polizia belga. Polizia che pensò bene di non rinunciare al suo pittoresco aspetto, presentandosi - in mezzo a migliaia di persone - a cavallo… E questi cavalli che pattugliavano in mezzo ai tifosi, ovviamente irritati da tanto chiasso e tante persone, sbuffavano e scalciavano, provocando ondate di movimento da parte dei tifosi, senza contare gli escrementi lasciati a pochi centimetri dagli stessi. I pochi gendarmi a piedi si aggiravano spaesati e disorientati brandendo improbabili bastoni di legno. Lo stadio di Bruxelles si distingue per la sua fatiscenza: decrepita, anacronistica, colpevole come e quanto la Uefa di averla prescelta come sede di una finale tanto sentita. The Match of the Century !, "La Sfida del Secolo !" come tuonavano a nove colonne i tabloid e i mags inglesi sparsi, stracciati e appallottolati di escrementi, sul selciato del piazzale dell’antistadio. Alcuni tifosi inglesi, battendo fortemente il tacco della scarpa sui gradoni, staccavano facilmente pezzi di pietre e mattoni, imbottendosi le tasche di proiettili. Inoltre lo stadio era fortemente affossato rispetto al livello latitudinale della strada, in quanto il terreno di gioco si estendeva all’interno di una conca sotto una collina, ragion per cui il muretto di cinta che separava la curva dai cancelli d’ingresso veniva scavalcato con irrisoria tranquillità, sotto l’occhio ebetico e impotente delle poche decine di gendarmi belgi. C’erano inglesi che venivano fatti entrare tranquillamente senza perquisizioni. Alcuni entravano in massa con spranghe e pezzi di cemento divelti nel piazzale dell’ingresso al settore Z. Altri trasportando casse intere di birra e bottiglie di alcolici. Molti sprovvisti di biglietto o con tagliandi di altri settori scavalcarono o sfondarono i portoni di legno delle curve. Un servizio d’ordine ideale per una finale di così grande importanza !

Settore "Z"

Il cielo dietro il settore Z era arancione, pareva il riverbero del rosso delle bandiere inglesi, delle suggestive sciarpate, delle maglie, delle canotte, delle pitture sui volti stralunati dei famigerati "Reds", i tifosi del Liverpool, conosciuti, temuti e rispettati in tutta Europa per la loro fama di Firm passionale, violento e aggressivo. La curva Z è un’immensa marea rossa. I canti tornano ad echeggiare dentro lo stadio, questa volta più forti di prima e la festa continua, bellissima più che mai: "You’ll Never Walk Alone!". È un ruggito. È il bello del tifo inglese. I Reds erano stati ammirati solo un anno prima, all’Olimpico di Roma, in occasione della finale di Coppa dei Campioni contro la Roma di Falcao, Conti e Di Bartolomei. Persa da quest’ultimi a seguito di una drammatica lotteria di rigori. Anche lì gli hooligan si erano fatti ammirare per il colore, la compattezza nei cori, l’imponenza del proprio essere. Uno spettacolo nello spettacolo di un Olimpico giallorosso gremito e catartico come non mai. Anche lì gli inglesi si erano dimostrati violenti e pericolosi nelle giornate di scontri che avevano incendiato la capitale d’Italia. Ma lì gli scontri erano stati fra fazioni consenzienti. Fra hooligan e ultras romanisti. E pare che le cronache raccontassero che i famigerati hools d’oltremanica non sempre avessero la meglio. Anzi. Ma all’Heysel la situazione non era la stessa. Non sarebbe potuta essere la stessa cosa. Non c’erano i presupposti affinché si verificassero scontri fra "pari". C’erano solo i presupposti per un cieco e colpevole massacro di innocenti. Venne proposta una partitella fra ragazzini. Casualmente indossavano tenute bianche e nere da una parte e rosse dall’altra. Ovviamente gli juventini parteggiavano per quelli in maglia bianca, viceversa i tifosi del Liverpool per i ragazzi in maglia rossa. Nel bel mezzo della partitella un razzo partì dal settore riservato agli inglesi per giungere in quello riservato ai tifosi italiani. Gli juventini erano in numero nettamente superiore. Per questo motivo, che si rivelerà fatale, venne deciso che la curva Z fosse divisa in due e separata da una semplice doppia rete metallica, in maniera da accogliere gli spettatori italiani in eccesso. In quella zona (in particolare il cosiddetto settore Z che non sarebbe mai dovuto esistere) prese posto il maggior numero di famiglie italiane e belga, centinaia di emigrati, gente proveniente con agenzie sub-relegate da tutta Italia, specie dal sud e dal centro, qualche torinese che non era riuscito a trovare posto coi suoi amici e fu mandato in quel settore già dalle agenzie di viaggio dall’Italia. Qualche altro infine, più sfortunato, che fu dirottato lì sul posto. Alcuni sopravvissuti narreranno poi che, dalla foga e dall’emozione, avevano letto sul biglietto d’ingresso settore "Z" anziché "N" e solo all’ultimo, accortisi della svista, avessero cambiato destinazione. Intuizione quanto mai provvidenziale. Il tifo organizzato, i Fighters e tutti gli altri gruppi più decisi e violenti della tifoseria bianconera erano sistemati nella parte opposta: nei settori O, N ed M.

Take the end

Alle 7 di sera si stava benissimo dentro lo stadio Heysel, c’era un fresco primaverile e le bandiere garrivano nel cielo azzurro. Un’orgia di colori e cori. Ma l’arrivo di quel razzo nel settore juventino aveva provocato uno spostamento di massa per allontanarsi dai tifosi inglesi. Ma lì sembrò finire. Gli italiani invece pensarono bene di riavvicinarsi per inveire contro gli inglesi, scagliandosi contro le reti che li dividevano. La provocazione verbale partì dai supporter inglesi ubriachi. Una risposta ci fu da parte di 2/3 ragazzetti di 10/11 anni l’uno che tirarono qualche carta di giornale e qualche sassolino al di là della fragile recinzione: una rete da pollaio a dividere le due tifoserie con 4/5 poliziotti a fare da pseudo-cordone. Il resto della gente guardava seduta e divertita. Gli hooligan si scagliarono a loro volta contro le reti, reti che ben presto caddero. Partirono tre cariche a onda al grido di "take the end, take the end !" con un intervallo di 1/2 minuti tra avanzata e ritirata. Alla seconda carica la gente era già ammassata contro il muretto. La terza fu solo per schiacciarli definitivamente. Durante la prima qualcuno trovò scampo nei canaloni affianco ai gradini. Altri schiacciati e altri ancora caddero dal muretto. Le due tifoserie, o meglio, gli hooligan e le famiglie italiane, vennero a contatto. Queste non poterono far altro che fuggire di fronte alla furia degli inglesi, accalcandosi verso il muretto inferiore dello stadio, schiacciando e soffocando quelle che già si trovavano verso il basso. Forse se ci fossero stati gli ultras bianconeri, paradossalmente, la tragedia non si sarebbe verificata, perlomeno in siffatte proporzioni. Tutto, forse, si sarebbe esaurito in un cruento scontro fra pari, con feriti e forse qualcosa di più, ma nulla avrebbe causato l’effetto rinculo e il crollo del muretto.

Bloodbath, bagno di sangue

La prima onda sembrò quasi un’illusione ottica, come se l’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse agitando dall’alto con due immense mani imbrattate di sangue. I rossi si spostavano verso i bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale. E nell’aria volavano clave, aste, bottiglie di vetro e persino qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato di rimuovere. Molti italiani vennero colpiti in uno contro dieci dai Reds e gettati contro le balaustre divelte. Due o tre persone rimasero squartate… Mentre tutti si accalcavano verso il muretto, sugli spalti c’era campo libero e alcuni, tra i Reds, continuavano a inveire sulle persone a terra. Bandiere e striscioni bianconeri furono stracciati e dati alle fiamme. Le sciarpe della Juve celebrate come cimeli di guerra. I tifosi italiani cercavano scampo ovunque, alcuni si salvarono salendo sulle impalcature in cima alla curva, altri camminando sui corpi di chi era stato già sopraffatto dalla prima ondata omicida. I gendarmi, anziché soccorrere e proteggere gli italiani che cercavano scampo sulla pista di atletica e sul terreno di gioco, iniziarono a manganellare alla cieca contribuendo a innalzare il panico e la confusione. La seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dai settori Y e X), e le persone si rotolarono addosso. Tutti morirono per schiacciamento, soffocando, calpestati. "Ci sono dei morti" fu la terrificante frase che cominciò a circolare impazzita in tribuna stampa. Le transenne, ormai travolte dalla folla, iniziarono ad essere disposte sul campo come improvvisate e macabre barelle. I corpi esanimi di tifosi senza scarpe e con il ventre gonfio o squarciato vennero disposti in fila dietro il muretto crollato e coperti pietosamente con bandiere e striscioni bianconeri. Il bagno di sangue era avvenuto. Una delle più immani tragedie mai verificatesi in uno stadio di calcio europeo. Dal settore opposto non si capì un granché. Sembravano solo tre cariche e neanche pericolose, visto che gli inglesi non caricavano all’italiana. Ma avanzavano e indietreggiavano a ondate: più che altro a scopo che da lì, dall’altra curva, appariva "dimostrativo", esercitando la pratica rituale del "take the end", ovvero, della conquista della curva avversaria. Dalla curva dei Fighters quelle cariche "strane" sembravano solo "piccoli contatti" che si risolvevano con gente "normale", non ultras, che cercava scampo sul prato. Ma ad un tratto, piano piano, si diffuse qualche notizia (non c’erano telefonini, né radioline italiane) che parlava di scontri gravi e di alcuni morti fra i tifosi italiani. La curva dei Fighters, degli Indians e della GBN (Gioventù Bianconera) perse la testa. Si videro decine di giovani che si coprivano il viso con sciarpe, magliette, foulard e passamontagna. Il clima di festa e partecipazione all’attesa dell’evento si tramutò in tensione violenta, palpabile, vendicativa. Si armarono sciami di ragazzi con i sassi divelti dalle gradinate fatiscenti a botta di calci e sprangate. La rete di recinzione fu scardinata e dal grosso buco decine di juventini penetrarono sulla pista di atletica travolgendo i militi belgi che vanamente cercavano di opporsi all’invasione. Chi brandendo aste delle bandiere e dei bandieroni che venivano mulinate nel cielo, altri con cinte e bottiglie di vetro, iniziarono a scaramucciare con i gendarmi e con gli avamposti di inglesi che stazionavano nei settori adiacenti del rettilineo centrale di fronte alla tribuna stampa. Intervenne più volte la gendarmeria cercando di dissuadere le due fazioni in lotta e disperdere i facinorosi. Andò avanti così per minuti che sembravano interminabili, con le immagini degli scontri trasmesse in diretta in Eurovisione. Mentre sul secondo canale italiano, la nazionale azzurra, priva dei titolari bianconeri, disputava un’inutile e inerte amichevole a Puebla contro gli Stati Uniti per acclimatarsi alle alture messicane in vista del Mundial di Mexico ‘86. Ad un tratto sulla pista di atletica, sotto la curva bianconera in tumulto, si fece largo un giovane che indossava un giubbino verde e dei jeans. Tirò fuori una pistola e la puntò minacciosamente contro i gendarmi e la curva inglese. Si saprà poi che era una scacciacani. Divenne una delle immagini emblematiche di quella notte di follia collettiva. Un fotografo inglese, un biondino con la maglia della nazionale dei bianchi, fu colpito da una sassata sulla testa che iniziò copiosamente ad eruttare sangue zampillante. Per giunta fu anche numerosamente manganellato dalla polizia. Sono solo alcuni fotogrammi dalla tragedia. Miliardi di altri rimarranno per sempre impressi nella memoria di chi c’era e di chi vide da casa. Di nuovo si cercò una carica verso gli inglesi organizzata da una cinquantina di persone che però furono fermate subito. Fu allora che uscì fuori anche lo striscione "Reds animals", dietro il quale i Fighters improvvisarono un corteo, fitto di braccia tese e volti coperti, anch’esso stoppato all’inizio del rettilineo centrale sulla pista di atletica.

Surreale realtà

Gianni Agnelli, giunto poco dopo la strage in auto sotto la tribuna Vip, fu invitato dai dirigenti della Juve, della UEFA e del governo belga a tornare in fretta in albergo. Suo figlio Edoardo, in smoking e sciarpa bianconera, dapprima stravolto e incredulo sul prato ad osservare i cadaveri, si accasciò stremato sulle scale degli spogliatoi. I giornalisti italiani furono assediati dai compatrioti scampati alla strage che, con ancora l’orrore negli occhi, li pregavano di comunicare alle loro famiglie in Italia che stavano bene. Quelli inglesi si chiusero in un rispettoso silenzio. La partita non si doveva giocare, dissero in molti. Per rispetto di tutti quei morti e feriti che giacevano a pochi metri dalle loro scrivanie, dalle loro macchine da scrivere. Ma come si poteva fare per evacuare un impianto che ormai di sportivo non aveva nulla ? Era un immenso campo di battaglia, gravido di violenza pronta a detonare. Gli inglesi, come placati, si erano sistemati sulle gradinate della morte, bivaccando fra le macerie e le bottiglie rotte. Come se nulla fosse, ricominciarono a cantare e a chiedere, impazienti, l’inizio del match. Poi, ad un tratto, dall’altoparlante, si udì una specie di sospiro. La voce di Gaetano Scirea, capitano della Juventus, sussurrò nel microfono dell’altoparlante: "la partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi". Parlò poi anche Neal, il capitano del Liverpool, da quello stesso microfono. Entrambi asserragliati dentro il gabbiotto dello speaker dello stadio Heysel. Lesse lo stesso annuncio di Scirea, ma con una gravità nell’intonazione tutta britannica, inesorabilmente devoto ad un aplomb macchiato dal senso di colpa nauseabondo per ciò che i "suoi" tifosi avevano fatto. E che in seguito lo costringerà ad abbandonare il calcio giocato.

La partita del secolo

Vinse la Juve, grazie a un rigore inesistente. Minuto 58° di una gara che ristagna a centrocampo. Disputata da atleti molli, stravolti e bloccati dalla paura. Fallo di Gillespie su Boniek, abbondantemente fuori area. Il titubante arbitro svizzero Daina, risoluto per l’unica volta durante tutto il match, indica il dischetto fra le fragili proteste dei giocatori del Liverpool. A battere il rigore si presenta il numero dieci transalpino. È il minuto 60 di una finale iniziata con un ritardo pesante come il piombo. Grobbelar, il pirotecnico e folcloristico portiere sudafricano dei Reds, che l’anno prima fra manfrine e sceneggiate era riuscito ad ipnotizzare prima Conti e poi Graziani, fu superato dal gol di Platini. Esultanza surreale. In uno stadio a forma di bara. Dopo qualche minuto Bonini atterrerà Whelan in piena area bianconera. Daina, risoluto come prima e più di prima, farà correre. Qualche secondo prima del 90°, il direttore di gara elvetico bloccherà la palla con le mani nel cerchio di centrocampo e sancirà la fine di una gara senza storia. Era appena terminata la partita del secolo. Una delle più buie, tristi e brutte partite della storia del calcio. Davanti alla tribuna stavano i morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie. C’era tanto sangue, e gole aperte. Assurdi gendarmi a cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in una comica di Ridolini. La tv non diede l’esatta misura della mostruosità. La voce stentorea di Bruno Pizzul era entrata in tutte le case italiane con un tatto profondo al limite dell’omissione della verità, fino a quando non dovette ammettere che: "purtroppo una terribile notizia è giunta qui in tribuna stampa. Ci sono dei morti, pare cinque o sei… forse otto…".

The shame

Sul posto le cose erano diverse: i tifosi allo stadio avevano capito, però non potevano sapere che i cadaveri erano addirittura 39. La Coppa dei Campioni venne consegnata alla Juventus negli spogliatoi. La cerimonia sarebbe apparsa decisamente posticcia e fuori luogo, con i morti ai margini del parterre de roi. Platini, Cabrini, Tardelli, Bonini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo, si disse poi. La Coppa dei Campioni venne consegnata alla Juventus negli spogliatoi. La cerimonia sarebbe apparsa decisamente posticcia e fuori luogo, con i morti ai margini del parterre de roi. Platini, Cabrini, Tardelli, Bonini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo, si disse poi. Certo, dovevano evitarlo. Ma in quel film dell’orrore che era diventato lo stadio di Bruxelles, il grottesco dei festeggiamenti sotto la curva degli ultras bianconeri, sembrava essere semplicemente la logica conseguenza di una irreale realtà. Il macabro trofeo scese dall’aereo a Torino, sventolato da Sergio Brio e Michel Platini sorridenti. Fu messo poi in una teca di vetro dentro la sede della società bianconera. In Galleria San Federico (oggi si trova nella sede bianconera di Corso Galileo Ferraris, nda) a Torino, nel lastricato ed elegante centro del rigoroso capoluogo sabaudo. Una lastra di vetro frapposta tra la squadra, la società di calcio Juventus FC e il mondo reale fatto dai sui tifosi segnati da una tragedia immensa. Una lastra di vetro imbrattata di sangue, raggrumato e molto spesso. Come una macchia sulla coscienza. Indelebile. Qualcuno disse che andava restituita. Che era imbrattata di sangue. Che quella partita non esisteva, era solo "un motivo di ordine pubblico". La Juventus fece finta di non udire il grido di dolore dei suoi stessi tifosi. Così come dimenticò per molti anni i suoi martiri. La Coppa dei Campioni stava là dietro come per proteggersi, per illudersi che non fosse stato vero. Che tutto quell’orrore non era nel calcio. E che in ogni caso lo spettacolo deve continuare. "Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown" disse cinico Michel Platini in un’intervista davanti a decine di cronisti sudati e increduli. Allora sembrò una bestemmia, invece era qualcosa di assai più orribile e definitivo. Era la verità. Sebbene vergognosa, cinica, spietata. Era la sacrosanta verità.

9 agosto 2012

Fonte: Blog.futbologia.org

Racconti e Heysel 

Il mare dell'Heysel

"Anzio chiama Foggia: "Dove sei ?"

di Domenico Laudadio

Racconto liberamente ispirato alla storia di Lorenzo Rotelli, nella foto, alla ricerca da anni di un tifoso juventino di Foggia conosciuto ad Anversa in occasione della finale allo stadio Heysel.

Lorenzo, ventitré anni nello zaino ed un pugno di sabbia di quella spiaggia celeberrima di Anzio dove crollarono esanimi uomini sbarcati al macello e dove oggi sono in guerra soltanto le onde, accarezzava la sua sciarpa bianconera immerso nel piacevole frastuono del rullaggio roboante dell'aeroplano sulla pista di Ciampino. Bruxelles, tanto agognata, così vicina e così lontana. 28 maggio 1985, Lorenzo, finalmente con le nuvole sotto la pancia che brontola un panino ed anche il cuore mette le ali al pensiero di quello scontro epico fra titani. Platini, il sovrano senza eguali, dominerà certamente la contesa contro i rossi albionici ed i loro noti campioni e duri scarponi. Ad Atene, gli dei furono gelosi persino del suo incedere e lo disarmarono, beffardi, passando il suo scettro ad un ignoto marrano dal tiro felice e mancino. Poi Lorenzo ha ceduto al sonno, cullato dall'auspicio farcito dal trionfo, prima di riaprire gli occhi sul Belgio. Chissà perché gli viene alla mente Superga, sciogliendo mezza preghiera e le ultime paure quando i carrelli atterrano il sogno ragazzo nel cuore dell'Europa. Non poteva esserci altro cerimoniere più impettito del sole ad accogliere sulla scaletta dell'aereo i figli della Vecchia Signora giunti dalla parte più bassa dell'italico calzare. Avellino, Foggia, Matera, ed oggi più che mai anche Anzio è meridionale. Lorenzo si unisce subito al coro a squarciagola: "E' ora, è ora, la coppa alla Signora...". Poi, le anime sbarcate sul suolo delle Fiandre si confondono presto in promessi appuntamenti e negli affollati itinerari in mezzo alle carezze delle loro bandiere. Un fischietto assale i timpani, impossibile spegnere il fiato a quel ragazzino scatenato dal trucco zebrato. Il primo grande pullman grigio sul piazzale raccoglie gli attimi ed i bagagli indimenticabili di esaltati e smarriti in questo carnevale posticipato. Anversa è l'anticamera del sogno. Un letto d'albergo, lenzuola bianche e stirate, intanto la mente spia al di là dell'armadio cabinato il vasto lido di Anzio. La nostalgia di sera, è nota canaglia... Meglio scendere subito al bar e stenderla al tappeto, appena risorta dalla bianca spuma del mare in quella di una grande birra chiara. "Di dove sei ?": sente chiedersi al di là del vetro spesso del boccale mentre il suo naso è intinto di bianco. "Di Anzio !": risponde perentorio con orgoglio al ragazzo accanto, col braccio posato sul bancone. "Io vengo da Foggia": aggiunse quello, sorridendo. "Una bella passeggiata !": ghignò Lorenzo, causticamente. "Per la Juve questo e altro !": commentò di botto, entusiasta, il giovane dauno. "Vuoi una birra ?": gli chiese Lorenzo. "Grazie !": accettando con un mezzo inchino, compiaciuto. "E di che, fra gobbi..." E così, chiacchierarono allegramente per tutta la serata, di sconfitte e vittorie, donne e motori, alla sacra vigilia della madre di tutte le partite. Poi, dirigendosi ognuno nella sua camera, sfiancati dall'alcool e dalla baldoria, augurandosi la "buonanotte" si arresero al sogno della grande Coppa.

E' molto bella Bruxelles, così diversa da Roma, sembra una bomboniera di porcellana la "Grand Place". Fa un gran caldo, ma questi belgi hanno sguardi freddi, sembrano automi. "Chissà in Italia i miei cosa staranno facendo": prima di telefonare a casa da una cabina, si domandava Lorenzo, distaccandosi dal suo gruppo, in vena di foto ricordo ed in cerca di souvenir. Poi, da lontano, improvviso un urlo di guerra travestito da canzone: "Liverpool, Liverpool..." "Arrivano gli inglesi !!": intimorito, strillava uno dei ragazzi più piccoli. Avranno anche la fama che hanno, ma non sembravano tanto minacciosi. Inveivano, ma senza cattiveria, verso il gruppo molto più numeroso dei bianconeri che si compattarono subito coraggiosamente rispondendo ritmicamente forsennati: "Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! ". Finì lì... Almeno per il momento... Anzi qualcuno di loro scambiò persino la sciarpa con alcuni italiani. Sembrava quasi un miracolo, nonostante i cocci di bottiglia rotti e le vetrine infrante. "Madonna che caldo questa Bruxelles": esclamò Lorenzo all'amico che rideva di gusto al balletto di un vecchio inglese sbronzo e sdentato, di verde tatuato su tutto il corpo. Un biondo avanzo di galera, di certo non proprio l'orgoglio della Thatcher e della Regina Madre. Gli battevano le mani freneticamente tutti assieme, inglesi e italiani, come ad una scimmia ammaestrata. "E' proprio un circo l'umanità", pensò Lorenzo ad alta voce. Qualcuno annuì, altri risero, eccitati. Lo schizzo improvviso del vomito dell'ubriacone calò bruscamente il sipario allo squallido teatrino albionico. Si scansarono tutti, schifati, lasciandolo in terra da solo a tossire ed a sputare sulle pietre come una lucertola con la coda tagliata. "Andiamo, è meglio incamminarsi verso lo stadio": sentì dire fermamente Lorenzo da un capo comitiva alle sue spalle. "E' ora, è ora, la Coppa alla Signora": tuonò di riflesso eccitato l'intero gruppo dei tifosi meridionali, incamminandosi fra gli applausi spontanei degli altri juventini isolatamente sparsi nella "Grand Place". La fermata della metro aveva lo stesso nome evocato da più di un mese, quasi fosse quello di un santo, "Heysel", proprio come lo stadio. "Scendere ! Siamo arrivati..." Lorenzo, in un brivido realizzò "finalmente": dopo tutta quella strada e due pedalini arroventati era a poche centinaia di metri dal sogno. Il piazzale dell'antistadio si tinse in pochi attimi di bianco e di nero. Qualche residua sciarpa rossa sembrava stonare nell'orgia non immorale di quei colori. Tacquero d'un colpo, al suono rauco delle trombe tutti gli altri pensieri. Un popolo in cammino come un esercito che si preparava alla battaglia ed alla gloria, in nome del football, si disponeva in fila ordinato, davanti alle porte di entrata nel campo. Le voci sommesse di laidi bagarini insidiavano i dialetti di tutte le regioni, quei sorrisi di anziani e giovani mescolati e più felici dei loro stessi bambini. Tutti quanti figli della stessa madre, fratelli e amanti della stessa compagna.

   

Era la Juve, principio e termine dei loro affanni, spasmo dei loro orgasmi, l'onore da difendere, una bandiera a due colori da sventolare in barba alle stagioni ed agli umori, ai rovesci delle sorti individuali, imbianchini o principi ereditari. Un delirio la coda davanti all'unico ingresso, ancora più stretto della porta del paradiso. Faceva troppo caldo anche per i cani poliziotto dei gendarmi belgi sempre più nervosi che abbaiavano a comando di tanto in tanto. Alla perquisizione li setacciarono quanto noti lestofanti, con quelle facce inespressive da merluzzi, un po' ebeti. Gli mancavano persino i baffoni e certe facce sornione dei nostri celerini la domenica, il ruminare delle loro gomme da masticare fra gli accenti aperti del verbo di quel medesimo sud che sforna le pizze, i carabinieri e la mafia, che coltiva i pomodori e raccomanda i figli ai concorsi e per un posto fisso in banca. "Sembra la coda per timbrare all'ufficio di collocamento": pensa fra sé, Lorenzo. E fra uno spintone e l'altro, con il suo nuovo amico, storditi dall'emozione, sono finalmente all'interno del settore Z: "Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! Juve !". Bruxelles, 29 maggio 1985, il vetusto stadio Heysel è come la valle di Giosafat. Non suonano le trombe del giudizio universale, ma quelle dei tifosi della Goeba. Bandiere bianconere sbattono sulle loro facce mentre cercano un posto "buono" sulla gradinata spinti da quel vento mite di Primavera che le agita. "Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! Juve !". Un mantra di una religione politeista. Un dogma di fede che nessun' altro all'infuori degli adepti potrà comprendere, né sarebbe mai possibile spiegare con parole. Subliminale l'istinto, anche in Lorenzo, di spiegare alto nel cielo il suo canto di fedele bianconero abbandonandosi all'apoteosi sugli spalti invasati. Bruxelles, 29 maggio 1985, il vetusto stadio Heysel è come la valle di Giosafat. Non suonano le trombe del giudizio universale, ma quelle dei tifosi della Goeba. Bandiere bianconere sbattono sulle loro facce mentre cercano un posto "buono" sulla gradinata spinti da quel vento mite di Primavera che le agita. "Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! Juve !". Un mantra di una religione politeista. Un dogma di fede che nessun' altro all'infuori degli adepti potrà comprendere, né sarebbe mai possibile spiegare con parole. Subliminale l'istinto, anche in Lorenzo, di spiegare alto nel cielo il suo canto di fedele bianconero abbandonandosi all'apoteosi sugli spalti invasati. Caldo opprimente, la curva oramai è gremita all'inverosimile. Sono le sette passate di sera. "Ma cosa avranno tanto da fischiare quegli ubriaconi di merda, perché ce l'hanno con noi, non gli abbiamo fatto niente !?". Impressionato dalle parole di Lorenzo, l'amico rabbuiandosi gli fa da eco, subito: "Ma che cazzo fanno quei pochi poliziotti là in mezzo, se ne vanno ?" Una infame pioggia di ferro e di pietre è solo il preludio all'assalto. "Attaccano !!", piangente una ragazza con le mani a guardia del seno, ci viene addosso correndo terrorizzata, prima di una fiumana di persone. "Scappiamo !" ..."Via di qua !"... "Allontanatevi !"... "Madonna, dio"..."Bastardi !!"..."Aiuto !". Il tonfo sordo d'una lattina piena di birra annuncia il crollo pesante di un uomo in terra con la fronte insanguinata. Alcuni tifosi inciampano sul suo corpo, a catena. Gli inglesi sono più vicini e sferrano calci e sprangate a destra, a manca, su tutto quello che si muove colorato di bianco e nero. Lorenzo pressato da ogni parte si accorge che ha smarrito il gruppo e sente mancargli il respiro. A un tratto, non sente più dolore, né il rumore di questo scricchiolio perverso di carne ed ossa. Butta lo sguardo sul prato verde del campo che si riempie a macchia d'olio di centinaia di persone. La vista a poco, a poco, si annebbia, ma sente distintamente nelle sue orecchie il canto del mare increspato alla sera ed il suo profumo d'estate. Il pianto di un bambino in braccio a suo padre che non vuole più tornare a casa. "Andrea... Andrea...", lo chiama mentre li rincorre. E' il mare dell'Heysel, innocente come quello di Ustica e come quello di Anzio. Ed il mare è sempre senza peccato, in tutti i casi in cui al posto dei demoni ci pensano gli uomini. Uno scroscio di acqua sugli occhi lo risveglia: "Ehi, su, bevi !". Quel tifoso juventino con la borraccia gli sussurra di seguito: "Va tutto bene, è finita..." Lorenzo, recuperando le forze, ha un sussulto, ma gli gira forte la testa, ripensando immediatamente al suo amico. Si rialza piano in piedi, aiutato da un medico della croce rossa e scopre davanti a sé l'orrore di quei poveri corpi avvinghiati fra loro, imparentati all'abbraccio di sorella morte, in mezzo a calcinacci e filo spinato. Sembra proprio come nel racconto dei nonni durante lo sbarco sulla spiaggia di Anzio. Amarissimo scherzo del destino. "Forse la guerra non è mai finita..." : sentenzia il pensiero che lo sfiora nella mente e scoppia a dirotto in un pianto lungo e liberatorio. La voce di Scirea dall'altoparlante dello stadio, gli ricorda quella partita di cui dovrebbe ancora sapere. "Dove sei ? Dove sarai finito, caro amico mio ?": disperato si domandava, seduto per terra sulla gradinata sbrecciata con i pantaloni a pezzi, in mezzo al groviglio di scarpe, sciarpe e giornali. E mentre una barella portava via un morto od un ferito, chi mai lo saprà, Lorenzo guardava con gli occhi sbarrati nel vuoto l'"Atomium", un gigante di ferro che non li aveva difesi. "Dove sei ? Dove sei finito, amico mio ?". Era il fresco pungente della sera a riproporgli ferocemente quella domanda, a pochi metri dalla tribuna stampa, dov'era stato accompagnato e medicato, mentre le squadre entravano in campo, come se nulla al mondo fosse accaduto. Lorenzo assisteva alla scena da un altro pianeta e lo infastidiva, persino, ora, tutto quello spreco di fiato... "Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! Juve !". Le gambe gli facevano sempre più male. "Rigore per la Juve !!": lo scosse dal torpore un tifoso a lui di fianco. Platini sulla palla, poi prende la rincorsa... Parte il tiro... "Goal ! Goal !!" La Juventus si porta in vantaggio ! Lo stadio obitorio diviene una bolgia, Lorenzo è inconsolabile : "Ma tu, dove sei ? Dove sei finito, fratello mio... Lo vedi, abbiamo pure vinto, siamo Campioni, ma tu non ci sei...". All'aeroporto che fastidio i microfoni dei cronisti ad altezza del mento. "Lasciateci in pace"... "Ci è bastata già una guerra"... "English Animals !"... "Una vergogna, è una vergogna, ci hanno massacrati con la polizia assente"... "Uno stadio di merda, la colpa è dell'Uefa"... Le due mani in volto a coprirsi, con pudore, nel silenzio interrotto a scatti dalle domande lecite e più stupide degli inviati dei giornali. Dolore, solo dolore, nel corpo e nello spirito, nessuna voglia di parlare, soltanto di casa e di tornare. Il rombo dei motori del Charter è finalmente musica per il cuore, "ti prego dio, portami via dall'inferno", sussurra a se stesso, salendo le scalette dell'aereo, zoppicante. "Lorenzo !!"... "Lorenzo" !!!... "Sono qui !"... Davvero sono contati quegli istanti della propria vita che valgono l'attimo fatato che ti ha generato per amore e ti ha messo al mondo, quelli in cui la gioia ti ha fatto brillare il cuore come una mina, senza chiederti null'altro in cambio e senza che nessuna cifra avrebbe potuto valere quell'incanto... Lorenzo si voltò, di scatto, raggiante come quel sole di maggio che fidanzava il cielo con la terra ed alla seconda lacrima a rigargli la guancia di commozione, spalancando le braccia l'accolse.

29 aprile 2012

Fonte: Giulemanidallajuve.com

P.S: Chiunque si riconosca nel ragazzo di Foggia conosciuto da Lorenzo Rotelli (in foto) ad Anversa è pregato di contattare: postmaster@saladellamemoriaheysel.it  GRAZIE.

Racconti e Heysel 

"Il pallone di Andrea"

di Emilio Targia

Aveva 11 anni, Andrea. L’età in cui il calcio è ancora la musica della propria vita. L’età in cui il calcio è ancora la misura della propria gioia. Andava in quinta elementare, Andrea. L’ultimo anno di scuola dove ti senti bambino. Che poi con le medie si diventa grandi. Ti cambiano i quaderni. Ti cambiano i sogni. Era tecnologico, Andrea. Sicuro al timone del suo computerino. Un Vic-20 che già gli andava stretto. Era ingegnoso, Andrea. Pile e intreccio di fili per costruire il suo campanello personale. Driiiin. Per entrare in camera sua, si prega di suonare. Quante volte Andrea avrà detto ai suoi "Scendo a giocare a pallone in cortile". Che così si dice, da bambini, "pallone". Il calcio è per i grandi. Quante volte avrà appoggiato il suo maglione per terra Andrea, a mo’ di palo, inventando una porta precaria, dentro a un pomeriggio di inizio primavera, che di fare i compiti oggi non se ne parla, oggi si gioca a pallone. Il garage va bene d’inverno, c’è una tettoia sporgente che ripara dalla pioggia. Ma è uno strazio, ogni volta che esce o entra una macchina bisogna fermarsi. Come quando mandano gli spot durante la partita in tv. Ma è solo una Smart. Poi cross dalla rampa e gol di sinistro, all’incrocio dei tubi della grondaia. Col primo sole si scappa a giocare sul prato vicino casa, vuoi mettere. Puoi tuffarti buttarti correre urlare. E provare la rovesciata. E entrare in scivolata. Come i grandi. Via i jeans però, sotto Andrea ha già i pantaloncini. I pantaloncini da calcio sono la biancheria intima dei bambini. Così niente macchie. E mamma non si arrabbia. Al massimo sbucciature rosso-verdi sulle ginocchia. Le stimmate del giocatore senza paura. Vorrai mica tornare a casa senza un graffio ? Poi c’è la scuola calcio. Intitolata a un signore che in Sardegna è un mito più che altrove. Gigi Riva. Rombo di tuono. Rivarombodituono. Tanto che fin da piccoli a ogni temporale ti viene in mente lui, mica pensi alla pioggia. La scuola calcio dove impari a misurare l’istinto. Dove mettono ordine dentro al tuo entusiasmo. Dove cominci a sentirti un po’ più grande. Col pallone di cuoio e le scarpette da calcio vere. Che sul prato si gioca con le Superga e il Supertele. "Papà, se la Juve va in finale mi porti, mi porti ?". A casa Andrea aveva appena finito di aprire quei nuovi 10 pacchetti di figurine arrivati in regalo come una benedizione. Quest’anno è andata alla grande. Gli mancano solo 2 figurine per finire l’album dei "Calciatori" 1984/85. È la prima volta. Soltanto due ! L’odore di un pacchetto di figurine che si apre è un soffio dolce sul viso. È una promessa. Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, ce l'ho... Per forza Andrea, ce le hai tutte, o quasi, ormai. Al nono pacchetto la sorte è benevola. "... mi manca !!!". Adesso ad Andrea ne manca solo una di figurina, per finire l’album. Soltanto una. Manco a farlo apposta proprio quella sera a Bordeaux la Juventus si qualifica per la finale. Per la finale di Coppa dei Campioni. La finale di calcio. Quello dei grandi. In Sardegna il sole è già possente, lo stempera il vento, che si infila dentro a una luce che profuma d’estate. Le onde che sbattono sul porto di Cagliari infilano iodio nell’aria e invogliano a correre. Correre dietro a un pallone, magari. Di cuoio o di plastica. Driiin. Quando il papà dice ad Andrea che è riuscito nel miracolo di trovare due biglietti per la finale di Bruxelles, e che ci andranno insieme, lui non sta più nella pelle. Gli sale dentro un’emozione profonda e sconosciuta. Juventus-Liverpool, una delle partite più importanti della storia della Juventus, lui se la vedrà dal vivo, col suo papà. Andrea è già stato allo stadio, al Sant’Elia di Cagliari, ma stavolta sarà diverso. Sarà a Bruxelles. Alla finale di Coppa dei Campioni. Dentro lo stadio che tutto il mondo quella sera guarderà. Nemmeno 100 pacchetti di figurine, o 10 partite sul campo dei grandi gli farebbero lo stesso effetto. Nemmeno 10 goal all’incrocio dei tubi, e 10 rovesciate perfette, sul prato vicino casa. Andrea lo racconta ai suoi compagni di squadra, che andrà a Bruxelles. Che andrà a vedere la Juve. La finale. Lo racconta ai suoi compagni di quinta, che andrà all’Heysel. Sorrisi, e pacche sulle spalle. E "Beato te". E "Accidenti!". E "Posso venire con voi ?".

Andrea conta i giorni, come fosse dicembre aspettando Natale. E quando finalmente Natale arriva, a Bruxelles è quasi estate. Il cielo è di un azzurro intenso, e la luce è fortissima. Mano nella mano con il suo papà, Andrea si mangia con gli occhi la stazione, il taxi, le strade. Conta le bandiere bianconere, legge le insegne dei negozi, esamina attentamente le marche delle auto. Chissà dove giocano a pallone, qui a Bruxelles, i bambini come me. Chissà se anche loro fanno i cross dalla rampa, o hanno dei campetti tutti per loro. Chissà se sanno chi è Gigi Riva, qui a Bruxelles. Quando entra dentro lo stadio Andrea ha un groppo alla gola. Si riannoda il fazzoletto bianconero che ha al collo, nel timore di perderlo, e comincia a fissare lo stadio. Come fosse un giocattolo immenso. E i tifosi della Juventus, che dall’altra curva intonano già il loro "Juve-Juve" secco e deciso, gli regalano un primo sottile brivido. Andrea si sente già un po’ più grande, dentro a quello stadio, che gli sembra sterminato. E gli sale dentro un’emozione dolce. L’emozione di un bambino. Con l’emozione sale anche la fame. Il papà di Andrea sorride e tira fuori un sacchetto giallo, di cioccolatini bicolore. "Che qui sono buonissimi, sai Andrea ? Facciamoceli bastare... ". La merenda al cacao delle 6 si scioglie in bocca. Quando sente le urla a pochi metri da lui Andrea non capisce, pensa che sia qualche tifoso un po’ più vivace degli altri. E poi quello fondente ripieno è troppo buono. Poi le grida si fanno più forti e concitate, e intorno la gente comincia a guardare verso sinistra, e a gridare "Gli inglesi, guarda, gli inglesi scavalcano !!!". Andrea cerca di guardare e di capire, allunga la testa, ma il suo metro e 46 non gli consente di avvistare là in fondo i reds che caricano a testa bassa. Un primo scossone sbalza via lui e suo papà dal posto dove si erano sistemati, in piedi come tutti gli altri. Giovanni allora gli stringe forte la mano, Andrea chiede "Papà che succede ?", mentre di colpo si ritrova nel suo abbraccio, che non è come le altre volte, che è stretto e serrato come mai lo è stato prima. Giovanni ora cerca di scappare verso il lato destro. "Gli inglesi hanno invaso il nostro settore, dobbiamo scappare Andrea". "Hanno "invaso" ? E perché ? Che gli abbiamo fatto papà ?". Non c’è tempo per rispondere, non c’è tempo per capire. Gli inglesi adesso caricano in massa, Andrea e suo papà vengono scaraventati addosso a chi sta già scappando, come loro. Il settore Z è diventato una centrifuga, e i rossi ora sono un’onda impazzita. Andrea adesso ha paura, getta in terra i cioccolatini e infila di nuovo la sua mano in quella di suo papà, che gli fa da scudo, gli dice di stare tranquillo, di resistere, che tra poco sarà tutto finito. Andrea in quel marasma cerca solo di respirare, di non pensare, di tenersi stretto al suo papà. La sua unica ciambella di salvataggio in quel mare impazzito. Per un attimo l’onda rallenta, la morsa si attenua. E allora si riprende fiato, ci si allarga un po’, si tira su la testa. Forse è finita. Hanno smesso. Giovanni accarezza Andrea, che accenna a un sorriso. Ma quelli sono furie. Sono belve impazzite. Caricano di nuovo. Ora urlano tutti. L’onda li sballotta, li trascina via, li risucchia. Andrea si stringe forte a suo papà. Rotolano in terra, poi si rialzano, poi di nuovo in terra. Giovanni non lo molla, Andrea cerca di rimanere in piedi, di prendere fiato, di proteggersi dai calci di quelli che scappano. Ma a un certo punto non sente più urla, non prova più dolore, non ha più paura. Si stringe forte a suo papà. Si stringe forte a suo papà e basta.

19 Maggio 2010

Fonte: "Heysel  29 maggio 1985  Prove di memoria, Reality Book  Editore

Fonte Immagini: Purtroppo.files.wordpress.com e paginesarde.it (Il bambino in fotografia non è Andrea Casùla)

Racconti e Heysel 

Un ricordo dell’Heysel

di Francesco Savio

I pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli a cui ero abituato, a causa dell’assenza della bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina, dei documentari e delle fotografie. La cosa che li accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a casa. Per ingannare il tempo aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un quadernone a quadretti che conteneva le principali manifestazioni calcistiche d’Europa, tutte svolte da me. I vari campionati venivano disputati con il tiro dei dadi che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale imparzialità. Solo un paio di volte, quando la squadra per cui tifavo nella realtà così in prossimità del successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa un improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato il mio vicino di letto, un povero bambino al quale dovevano allungare una gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una gamba più corta dell’altra ? Eppure fin da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato con una gamba più corta dell’altra e periodicamente doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni, fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo come erano andate le cose, di questa piccola correzione in semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo un lieve senso di colpa. Era giusta questa vittoria ? Ogni tanto le infermiere passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero in campionato della Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli rispondevo, ma le speranze erano poche. La Juventus sembrava avere la testa altrove, le due milanesi facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto alla fine. Una sera da ingessato all’ospedale era la sera della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo stadio "Heysel" di Bruxelles. Non avevo la televisione ma, grazie a Dio, il bambino "allungabile" vicino di letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva girata quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io ero fortunato perché il mio braccio sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe avrebbe sofferto per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva fatto venire immediatamente la biligornia. Era l’undicesima operazione di allungamento che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile mi aveva chiamato per dirmi che era successo qualcosa di veramente brutto. La partita non cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da una delle curve di pietra dello stadio, verso qualcuno che potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il bambino allungabile osservavamo il capitano del Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea, annunciare: "Giocheremo questa partita solo per permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non rispondete alle provocazioni. State calmi, giocheremo". Il telecronista Bruno Pizzul alternava lunghi silenzi a frasi sconcertanti: "L’evento agonistico non ha più importanza…". "Sono morte trentanove persone…".

Giunta per la terza volta in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le mancava per diventare la prima squadra in Europa a trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più importanti del continente. I miei compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato fuori la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata, ma era così brutta che mi ero di nuovo addormentato. Perfino Platini giocava male. "Ehi sveglia ! Sveglia ! Rigore per la Juve ! Il bambino vicino di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per il rigore di Platini. Michel si era asciugato la fronte dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la schiena, era indietreggiato di un paio di passi fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa. Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di piatto. Gol. Platini aveva cominciato a correre per esultare, schivando l’arbitro e anche un compagno che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro verso una delle tribune dello stadio. Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio verso il cielo dopo averlo apparentemente "ricaricato" preparandone lo slancio con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più sorridere, con un’espressione più rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero. "Ma non è una partita vera…". Aveva sentenziato il bambino con una gamba più corta. Platini aveva esultato in un modo che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro.

   

Il sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso l’alto. La Juventus era campione d’Europa. La tragedia in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal crollo del muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò alla storia come la "strage dell’Heysel". La maggior parte delle vittime perse la vita per fenomeni legati alla compressione degli organi vitali. La partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni successivi i giornali mischiarono notizie sportive e cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e articoli che facevano prevalere l’orrore a danno della gioia. La Juventus era così la prima società a iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni organizzate dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una riparazione per quello che gli italiani presenti allo stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata dell’attaccante polacco Zbigniew Boniek, raggiunto da un lungo lancio millimetrico di Michel Platini, era stata sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai capelli rossi e con il bottone della maglietta allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto per uno a zero. Era il caso di restituire la coppa ? Le autorità belghe chiesero l’estradizione di ventisei teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage. Capocannonieri del torneo furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del Goteborg con sette reti.

? ? 2009

Dal libro "Mio padre era bellissimo" di Francesco Savio, Italic 2009

Fonte: Quasirete.gazzetta.it

Racconti e Heysel 

"HEYSEL"

di Ezio Maccalli

Arrivaste con un charter la mattina e giraste per la città. Bianconero. E rosso. Un po’ dappertutto. Aria di festa. Nella piazza della Cattedrale tifosi inglesi ubriachi si fan fotografare coi poliziotti locali. Lattine e bottiglie rotte in terra. Mangiate in un ristorante greco. Non un pranzo memorabile. Allo stadio presto. Che è meglio essere già là quando aprono i cancelli. C’è già tanta gente. Poliziotti a cavallo nella calca. Un cavallo pesta un piede ad un italiano. Non deve essere piacevole. In coda per entrare. Lo stadio è piccolo. Le curve hanno gradini alti venti centimetri. E cresce l‘erba nelle crepe del cemento. Nuvoloso, ma non piove. Lo stadio si va riempiendo. Davanti a voi nella vostra stessa curva, quella a sinistra guardando la tribuna centrale, i Fighters. Gli ultrà della Juve. Alla vostra destra i distinti. Con tifoseria promiscua. In maggioranza bianconera. Di fronte l’altra curva. Con una transenna a divisorio nella mezzeria. Alla vostra sinistra tifosi della Juve. Dall’altra parte della barricata una macchia rossa. Seduti, composti, i tifosi inglesi. Poi all’improvviso entra un gruppo di rossi. Canti, slogan, salti. Cominciano a tirare oggetti contro la parte bianconera. Qualcuno rilancia indietro. I fighters davanti a voi cominciano a rumoreggiare. Poi di là qualcosa succede. Le urla sono più forti, i movimenti più massicci. Frenetici. Entra in campo della gente. Lo stadio fischia. Porco giuda manca poco. Uscite. Che chissà quando si gioca. Ma non ne vogliono sapere. La polizia isola lo spicchio di curva di fronte a voi. Dove stavano i tifosi italiani.  Pian piano la gente in campo diminuisce. Vengono fatti salire in tribuna, nei distinti, nella vostra curva. Ma sono già le dieci. Poi d’improvviso gli altoparlanti annunciano che i capitani leggeranno un comunicato. Scirea dice di stare calmi. Giochiamo per voi. Qualche voce. Qualche notizia comincia a filtrare. Morti a decine. Ma lo dicono gli ultras. E chi ci crede. Finitela. E uscite. Erano infatti entrati a loro volta in campo. Non volevano che la partita cominciasse. La polizia schiera alcuni uomini davanti a loro. Davanti a voi. Parte un colpo. Una scacciacani per fortuna. Poi i poliziotti si accovacciano, cominciano a battere i manganelli per terra. Ritmano una sorta di danza della guerra. Attaccano. Gli ultras rinculano. Rientrano nella recinzione dal buco che hanno fatto. Entrano le squadre. Inizia la partita. C’è tensione. Fuori e dentro. Tacconi ad ogni parata si gira verso la curva a pugni chiusi. Dall’altra parte Boniek scatta. Lo stendono. Rigore. Platini segna. Esulta. Tutti esultate. Un tiro del Liverpool colpisce un braccio bianconero. Chiedono il rigore. L’arbitro li zittisce. Finita. Niente cerimonia di premiazione. Arrivano alla spicciolata i vostri con la coppa in mano. Tardelli lancia la maglia. Uscite. Le notizie si rincorrono sempre più precise. Sempre più incredibili. Ora la preoccupazione è far sapere a casa che state bene. All’aeroporto i telefoni sono presi d’assalto. Ce la fate. E ripartite. Al ritorno in Italia è quasi l’alba. Comprate i giornali. Ancora increduli. Vi sta bene. Avete avuto quello che vi meritate. Ladri Juventini. Vi piace la vostra bella coppa macchiata di sangue. Gli imbecilli non mancavano. Allora come oggi. Il problema è che sono parole di un padre. Dette davanti a suo figlio. Dieci anni al massimo. Dieci di lavori forzati ne meriterebbe il padre. Oggi come allora.

1 gennaio 2008

Fonte: Dal Libro "Una storia da raccontare" di Ezio Maccalli, Gruppo Albatros Il Filo 2008

Racconti e Heysel 

29 MAGGIO 1985

di Pietro Verzì

Giuseppina ha sedici anni, è una ragazzina che ama sorridere, ha l’accento aretino, la passione per il giornalismo sportivo e quello per la sua squadra del cuore. A Bruxelles è una bella giornata, sole, caldo, il cielo è limpido, rosato, diverso da come Jacques Brel descrive il Belgio nelle sue canzoni. Sullo sfondo del duomo di Grand Place, Antonio, suo papà, le scatta una fotografia, lei veste una bandiera legata al collo, un cappellino in testa, un sorriso, le mani levate al cielo in segno di vittoria. Un giro in centro e poi tutti sull’ autobus, direzione stadio, c’è la partita dell’anno. L’Heysel vede la luce all’inizio degli anni ’30, prende il nome dall’omonima zona. Un’immensa pianura verde gli fa da cornice, ed è un’immagine che sa essere seducente. Il rosso dei "Reds" è il riverbero che esalta i colori del tramonto, quell’inconfondibile crepuscolo delle finali di maggio che illumina migliaia di vessilli fino a tarda sera, sono i colori della finale di coppa dei campioni. Papà Antonio ha 42 anni, indossa un maglioncino rosso con dentro una camicia bianca, fisico mingherlino, fede all’anulare, pochi capelli. Sul biglietto d’ingresso si legge Settore Z, che sembra più il nome di una zona off limits di un film di fantascienza. Una sottile rete metallica, separa gli inglesi dagli italiani, i tifosi del Liverpool sono tanti, e sembrano essere sempre di più. Cantano, urlano, bevono. Vicino alla Z, c’è la tribuna d’onore, c’è Charlton, Cruijff, Bruno Pizzul commenterà la diretta su Rai2. Non molto distante da Giuseppina, siede un signore che ha una barba fine, ben curata, è un uomo alto ed ha una pancia enorme, assomiglia un po’ a Pavarotti, più in là c’è un ragazzino di diciassette anni, sciarpa al collo, occhiali da vista, toscano, si chiama Matteo. Giuseppina legge sul tabellone: "Bienvenue au Stade du Heysel", manca un’ora al fischio d’inizio. All’improvviso, un sasso le sfiora una scarpa, si alzano dei fischi, volano bottiglie di vetro, spranghe di legno, qualche urlo, qualche parolaccia. Gli hooligans attaccano, caricano, ma Giuseppina non è un ultras, nel settore Z, non lo è nessuno. Ci sono postini, bidelli, medici, operai, meccanici, camerieri, muratori, elettricisti, barbieri, contadini, mamme. Qualcuno prova a trattare ma torna indietro oltraggiato, ferito. Si corre via, verso l’estremità. Antonio tiene per la mano quella che chiamerà sempre figliola, la ressa si appiglia ad un muretto, invoca un respiro poggiando una mano sullo sterno per trovare un po’ di spazio. La calce delle gradinate si sfalda con la fragilità della sabbia bagnata che però porta il peso del cemento ammarcito. Le persone si aggrappano alle persone. La gendarmeria guarda, le ringhiere si staccano, un tonfo. Antonio è sdraiato sull’asfalto, ha da poco ripreso coscienza, un plaid lo ripara dal freddo, qualcuno vicino a lui ha la testa poggiata su una valigia, qualcun altro è disteso sui sottili ferri di una transenna, lì non ci sono barelle o lettini di soccorso. Guarda l’orologio, chiede in giro di Lei, nessuno dice di averla vista dopo quel fragore, la cerca tra la folla, riconosce una scarpetta bianca e blu che si intravede da sotto una coperta. Un giornalista filma la scena, Giuseppina conserva l’aria candida, serena, gli occhi chiusi, la bandiera al collo, i capelli castani ancora in ordine. Antonio, in quell’attimo, ha compreso, scorge l’abisso. Un Tifoso inglese prova a fargli coraggio, si stringono in un abbraccio tra sconosciuti, ed è in quell’abbraccio che si ritrae il dolore più grande di un genitore. Matteo corre fuori dallo stadio, cerca un telefono, deve chiamare la sua famiglia. Niente internet, niente cellulari, ha il cuore che batte forte, perché qualche attimo prima quel cuore aveva quasi smesso di battere. Fuori da un elegante bistrot, incontra un signore dalla pelle nera, in braccio tiene una bimba con i capelli ricci, insieme, accompagnano Matteo al telefono pubblico della metropolitana, due monete, "mamma sono io. Sto bene, ci vediamo a casa". Il sole tramonta sull’Heysel. "Sign. Pizzul dica in tv che sto bene ! Mi chiamo Guido Ricci !". Si gioca. Trent’anni più tardi Matteo, rientrerà in quello stadio con la stessa sciarpa, rivedrà quel bistrot, camminerà sui suoi passi, non c’è più quella cabina telefonica, ma ha voluto accarezzare il muro che la conteneva. Oggi Giuseppina è una fotografia grande, bellissima, un po’ sbiadita, suo papà la tiene in bella mostra in salotto. È l’incontro tra un sorriso, qualche mezza lacrima, che in fondo è tutto quello che gli resta. Quel giorno, la coppa dei campioni, si denudò dello spettacolo, della gioia del gioco, del divertimento, per indossare le oscure vesti della violenza, della crudeltà, diventando pretesto di un olocausto, trasmesso in diretta tv. Quale mostro quella notte sparse il male tra gli incolpevoli, quale ladro rubò un sentimento come la pietà. Quel disgustoso senso di sconsideratezza che trasforma gli uomini in cani feroci dentro lo stadio… Cos’è una coppa dei campioni se paragonata al sangue innocente ? Trent’anni dopo, è come se una parte di me sia lì, sul colle dell’Heysel, ferma in preghiera, a piangere quel dolore che mi è stato raccontato, ed è a quel dolore che sarà legata per sempre una parte della mia passione per il calcio. Superga, Heysel, hanno cambiato il mio modo di considerare lo sport, proiettandolo in una dimensione più relativa, più giusta. Un giorno, se Dio vorrà, i miei figli correranno dietro ad un pallone. Quando saranno grandi mi chiederanno di andare allo stadio, prima però avranno un compito da svolgere, un valore importante da custodire. Dovranno imparare il rispetto, soprattutto nei confronti di chi se n’è andato a causa di una partita di calcio, da Superga, all’Heysel. Dovranno sapere di Matteo, di Giuseppina, di Antonio, del Grande Torino. Non bisogna aver paura di conoscere la verità, bisogna farsi coraggio, guardare negli occhi la sofferenza, farà male, deve far male. Quel giorno saremo più gentili, più umani, e sarà l’unica maniera affinché quel candore di Giuseppina dimori nei nostri cuori, perché quel sorriso non venga mai dimenticato.

29 maggio 2015

Fonte: Lattimoprimadelgol.wordpress.com

Racconti e Heysel 
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