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Lettera a Francesco da Bruxelles

La tragedia
dell’Heysel raccontata da un padre a suo figlio
di Domenico
Laudadio *
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Carissimo Francesco,
questa volta ti racconterò una
storia molto triste della tua amata Juventus, al termine della
quale il colore del prato non ti sembrerà più verde e le maglie
delle squadre si saranno sbiadite alla centrifuga dello
sgomento. Una specie di favola senza un lieto fine, in cui
persino le carezze di Michel Platini al pallone diventeranno
ruvide scarpate come quelle di un Favero e la sua tipica
sfrenata esultanza alla trasformazione impeccabile di un calcio
di rigore, nel disincantato silenzio di una luna di sangue,
figlia più del furore che di una vera gioia, repressa, già in
fuga e latitante dalla ragione. Mi dispiace davvero tanto
trasferirti un dolore molto più grande della tua comprensione,
ma è una memoria sacra e dovere di ciascun tifoso bianconero
riceverla in eredità dalla sua storia, perché segnò per sempre
con il sangue di 39 innocenti l'architrave imponente del tempio
del calcio, condannando ai posteri i suoi sommi sacerdoti e gli
altri farisei alla vergogna.
I nostri padri, gli antichi Romani,
più di duemila anni fa prendevano a calci per divertimento una
specie di sfera, ma furono gli Inglesi, mirabilmente, ad
inventare nel 1863 il gioco dei 22 uomini in camicia e mutandoni
intorno ad una palla rotonda di cuoio. Il 29 maggio 1985,
purtroppo, ben altri Inglesi ne disonorarono lo spirito sugli
spalti di uno stadio, disseminando l’odio e causando la morte di
tanta povera gente. "Thanatos kai Paidia"… In greco antico
significa "morte e gioco", ma sono due parole che non devono mai
sposarsi fra loro o altrimenti soltanto nel nome di Satana.
Questa, purtroppo, fu la sorte di 39 angeli, in particolare di
un bambino di nome Andrea, un poco più grande di te, che si è
addormentato in eterno abbracciandosi forte, forte, dalla paura
con il suo papà.
Allora, immagina, Francesco, la
partita delle partite… Come sentirai altre volte dire, in gergo:
"la madre di tutte le partite"… In campo le due squadre più
forti del mondo in quel momento a sfidarsi in una partita secca
soltanto, "chi la vince, vince !". In palio la Coppa dei
Campioni, quella più pesante, in acciaio, con due manici enormi
che sembrano le grandi orecchie di un elefante… Una, il
Liverpool, l’aveva vinta già altre 4 volte, l’ultima proprio
l’anno precedente in Italia contro la Roma allo stadio "Olimpico", al termine di una drammatica finale vinta ai calci
di rigore. L’altra, la Juventus, invece ne aveva già perse altre
due, sempre con lo stesso risultato, un goal di meno degli
avversari e giocando davvero molto male: a Belgrado contro il
mitico Ajax di Johan Cruijff nel lontano 1973 e ad Atene contro
il modesto Amburgo e tutti i pronostici, soltanto due anni
prima, nel 1983.
Insomma, un po’ come il piatto
forte di un rinomatissimo chef, insaporito da spezie pregiate e
originale come pochi. Quindi, non restava altro che imbandire
una lunga tavolata in un bel locale all’aperto immerso nel verde
e accomodarsi festanti al banchetto per assaggiarlo. Ma i
proprietari del ristorante, però, non si erano affatto
preoccupati della sistemazione delle sedie, permettendo ai
commensali di accamparsi in una sorta di pic-nic alla buona,
dimenticandosi che molto presto sarebbe stato preso d’assalto
dalle formiche rosse. Purtroppo, nella realtà, così come in
questa metafora, avvenne proprio così.
29 maggio 1985, Bruxelles era nel
cuore dell’Europa, il Belgio da svariati lustri il paese civile
e pacifico che aveva ospitato nelle viscere della sua terra
migliaia di minatori italiani, una risorsa di fatto umile quanto
industriosa, di grande esempio e molto preziosa. La "Grand Place"
della capitale sembrava una bomboniera di Swarovski e la luce
del sole la smerigliava all’incanto dei suoi visitatori. Sciarpe
e bandiere di colore rosso ricordavano per certi versi molte
nostre celebri piazze italiane invase dalla politica, ma
fortunatamente non era quello un giorno di protesta, ma soltanto
di festa. Anche il bianco e il nero s’annodavano intorno al
collo dei presenti o cingevano la vita di stoffa come serpenti,
mescolandosi nella folla crescente e insidiando da lunghe aste
di bandiere l’azzurro del cielo. A stormi quei tifosi italiani,
dagli accenti dialettali più strani, sembravano passeggiare sul
pavé come rapiti, sollevati un metro da terra, ignari che il
miraggio di quella coppa lassù, sulla nuvola più in alto, fosse
il calice amaro di fiele del Getsemani…
Come nel più magico dei presepi
artigianali a pochi centimetri dalla grazia trama nell’ombra la
violenza degli scagnozzi di Erode, arte e meraviglia presto
fecero infelice conoscenza dei famigerati vandali britannici. A
terra un’infiorata di cocci di vetro dalle bottiglie di birra
rotte, scagliate ovunque, fra gli schiamazzi di giubilo dei
trogloditi per le vetrine dei negozi infrante e le saracinesche
abbassate in tutta fretta dagli esercenti per evitare il peggio
dal manipolo barcollante degli zombie dell’alcool. Quanti
pacificamente in piazza con un semplice sorriso e il pollice
alzato in segno d’intesa si stavano scambiando sciarpe e scatti
di polaroid fra loro, si adombrarono stupiti, molto scossi e
intimoriti dai disordini in atto. Sembravano le scene di due
mondi opposti e paralleli, ma da questo momento la pace e la
guerra scorreranno su di un binario unico e senza più fermate. E
così, assieme ai primi calci e pugni, spuntarono anche le lame
dei coltelli. Certamente non si trattava della diretta di
"Giochi senza Frontiere", ma di ripetuti scontri senza
quartiere. Un Inglese rimase ferito seriamente e dato per morto
dalla stampa erroneamente il giorno dopo.
"Perché ?", ti starai domandando…
Già, figlio mio, perché ?! E’ ancora oggi molto complicato
trovare risposte, il senso alla violenza in sé medesima,
gratuita, peggio ancora una giustificazione… Diciamo: è come un
acquazzone, in cui devi pensare per prima cosa a trovare un
riparo, poi a dissertare con i vicini sul meteo… L’unica certa,
solida, consolazione: come la più violenta delle tempeste mai
potrà cancellare tutta la terra, così la più insulsa e cieca
delle barbarie dovuta al calcio nulla potrà sulla fisica e nella
filosofia di una palla che rimbalza e rotola per terra rincorsa
da un padre e dal suo bambino.
Le strade intorno allo stadio
pullulavano di variopinti personaggi, di nuove e antiche
maschere della commedia dell’arte del pallone, un’allegra
processione nel religioso fracasso di devoti sperticati in
corali sguaiate. Sudati, a torso nudo, gli ominidi albionici
ballavano in pochi metri e forse meno denti, improvvisando
sconclusionate quadriglie, sospinti dall’ennesima pinta. Gli
Italiani si mostravano loro più sobri, ma non certo secondi per
goliardia, salutando allegramente con le due dita in segno di
vittoria. La Juventus, caro Francesco, è veramente un’anziana
signora, con tanti nipoti sparsi per l’Italia e nel mondo, di
professioni e ceto sociale differenti, d’ideali politici spesso
in competizione, ma che non farà mai distinzione tra loro e per
questo la amano e la odiano alla follia tutti, perché è una
grande regina, ma è da prima figlia del medesimo popolo che nel
nome suo accomuna…
Fuori allo stadio millantatori
nostrani moltiplicavano i franchi o le lire per un tagliando
dell’ultim’ora, diventato oramai quasi impossibile come un goal
in zona Cesarini. In un capannello di persone qualcuno stava
contrattando animosamente sul prezzo mentre un poliziotto belga
osservava con sprezzante distacco dall’alto del suo cavallo
pezzato che nitriva e sbuffava per le mosche nervoso. Centinaia
di biglietti veri e fasulli ingrossavano la truffaldina
mercanzia dei venali bagarini vocianti dalla fermata della metro
al piazzale dell’antistadio. Un vero e proprio business da
codice penale, partito da molto lontano, insinuandosi nei vari
ambiti, sottaciuto, incontrollato, impunito e senza scrupoli,
infine corresponsabile delle nefaste conseguenze. Infatti, i
tagliandi di quello spicchio di curva, il settore denominato
"Z", destinato secondo il "piano" della sicurezza agli
spettatori belgi e al pubblico cosiddetto "neutrale", erano
stati venduti a Bruxelles, ma in gran numero riacquistati a
blocchi da alcuni privati, Juventus Club e da agenzie turistiche
italiane.
Un lunghissimo filare biblico di
anime bianconere in tumulto, nel trambusto dei cori e delle
trombe, si snodava incolonnandosi verso quel sogno cullato a
occhi aperti e svezzato per oltre due anni, dopo la disfatta di
Atene. Da una parte e dall’altra i due popoli sostavano in
attesa fuori alle porte d’entrata dell’Heysel, sotto lo sguardo
di sufficienza degli agenti. Assurda, offensiva, la
discriminante nei tempi e nei modi d’ingresso delle opposte
tifoserie nella stessa curva. Davanti ad una porta larga appena
80 centimetri un flemmatico e indisponente setaccio della
polizia belga nella perquisizione scrupolosa e maniacale agli
Juventini e agli altri tifosi del settore Z. Manica
imperdonabilmente molto più larga, al contrario, per i "reds",
già in sostanzioso numero sbronzi a spingere e urlare forte per
entrare, a fiotti, senza controlli, come un fiume in piena.
Intanto altri Inglesi, a pochi metri di distanza, aprivano una
breccia nel muro sgretolato dello stadio. Un malvagio presagio
la visione di quest’utero nel tufo da cui si partorivano
frenetici passaggi di biglietti non strappati al controllo,
intere casse di birra, di pietre, di spranghe di legno e di
ferro raccolte in un cantiere incustodito nei pressi,
saccheggiato in brevissimo tempo dagli hooligans.
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Lo sguardo inebetito e assente dei
gendarmi indifferenti incoraggiava, di fatto complice,
l’armamentario logistico di una manifesta premeditazione.
L’obiettivo reale degli hooligans era di vendicare la finale del
1984 a Roma dove avevano subito agguati per strada dai teppisti
locali in risse e accoltellamenti e dove erano stati caricati
anche allo stadio dalla celere italiana, ben addestrata e
smaliziata dalle domeniche di violenza fuori e dentro gli stadi
dello stivale. Un arsenale di fortuna per quella vera e propria
strategia di guerra, preparata scientemente a tavolino dalla
peggior feccia umana d’oltremanica, al soldo di un ex parà della
guerra delle Falkland. Non soltanto tifosi del Liverpool, ma
anche le teste calde di altre tifoserie britanniche si erano
mischiate alla causa, coalizzandosi "patriotticamente" nelle
fila dell’esercito di questa infame macchinazione
etnico-bellica.
Appena dentro lo stadio è un
tripudio di colori, di canti, di sole, di cuori in festa, di
amore. Fa caldo, ma esattamente come la stanchezza per il lungo
viaggio, non si avverte ormai neanche più. L’adrenalina è in una
sola parola, fatata, "Juve !", da urlare forte, a ritmo, con le
braccia protese al cielo primaverile di Bruxelles, molto più
appagante di una bibita fresca e di quel panino carissimo al
wurstel. La curva dei tifosi Juventini a Bruxelles, sotto le
sfere gigantesche dell’Atomium, è proprio uno spettacolo nello
spettacolo, un incendio di passione fra diecimila teste e più di
mille bandiere, un’unica voce possente, a tratti titanica e
inarrestabile. La curva dei "reds", dall’altra parte, invece,
presentava alla vista un’anomalia molto singolare: un ampio
settore semivuoto delimitato da una fragile rete da giardino che
si riempiva molto più lentamente rispetto a quello già gremito
dagli Inglesi. E’ il settore Z, di cui ti dicevo: non vi erano
ultras, ma Juventus Club, intere famiglie in vacanza con
anziani, donne e bambini al seguito, sportivi amanti del bel
calcio, anche tifosi di altre squadre che accompagnavano i loro
amici bianconeri, Francesi tifosi di Michel Platini, emigrati
italiani e alcuni cittadini belgi. A presidio di quella ridicola
gabbia, consona più a un pollaio che alle bestie feroci di uno
zoo, si contavano meno di una decina di poliziotti, tra cui una
donna, neanche abbigliati in tenuta da combattimento.
L’ottimismo e l’incoscienza pedalavano in tandem incontro alla
sciagura da perfetti e saccenti idioti anche graduati ignorata.
Mentre in campo si stava giocando
una partitella di bambini per ingannare l’attesa della finale,
sulle gradinate sberciate dell’Heysel la febbre spasmodicamente
sale. Grobbelaar e Ian Rush, due importanti calciatori del
Liverpool, si recavano sotto la curva ad attizzare grintosi con
ampi gesti il proprio pubblico. Il mar rosso degli Inglesi
esplose in un boato fragoroso. Purtroppo, la miccia della follia
si era accesa, drammaticamente. In molti spingono contro
l’effimero divisorio, scuotendolo ed abbattendolo, incuranti
delle minacce degli scarsi e pavidi poliziotti e del loro timido
roteare i manganelli. Parte subito qualche sputo, poi,
d’improvviso, dalle retrovie una pioggia di monete, sassi,
bottiglie, aste di bandiera e un razzo che si abbatte nel
settore Z. Cadono le prime sagome umane insanguinate fra gli
spettatori immobilizzati dalla paura, centrati come birilli al
bowling. La guerra è presto dichiarata: segue repentina la fuga
degli sparuti gendarmi, impotenti e vili. Scopriranno da subito
che le pile nelle ricetrasmittenti sono completamente scariche e
sarà, pertanto, impossibile avvisare urgentemente il resto del
battaglione che è accorso in massa fuori allo stadio ad
inseguire un paio di ladruncoli autori di una rapina ad una
bancarella degli hot-dogs.
La rete per le galline viene
definitivamente abbassata dagli hooligans che sfociano
straripanti in una selvaggia caccia allo "juventino" nel settore
Z. Maschio o femmina, vecchio o piccolo, non fa alcuna
differenza. Non c’è rispetto più di niente e per nessuno.
Colpiscono duramente chiunque, picchiandolo a sangue, ad
eccezione di chi indossa per sua fortuna qualcosa di rosso, una
felpa, una maglietta o la sciarpa del Liverpool. In tanti se
l’erano scambiata nelle ore precedenti, mai immaginando di
cavarsela in tutto questo… Giù pugni, calci e sprangate a chi
capita, capita, impietosamente, anche a chi è infermo perché già
ferito o per un problema fisico o dal terrore. Qualcuno reagendo
più coraggiosamente all’assalto della avanguardia britannica, si
difende alla meglio con le mani, non arretrando, e poi,
sfruttando un corridoio libero in alto, guadagna tempestivamente
l’uscita dallo stadio saltando di sotto su un terrapieno mentre
la mostruosa massa umana degli spettatori, compressi e
stritolati fra loro, arretra tragicamente all’indietro verso il
muro di cinta del settore. Un delirio pazzesco e al momento
incontrovertibile, il copione spietato di violenza dettato dal
maligno ad anime già perdute, aguzzini di un crudele sacrificio,
fuori da ogni religione e altare.
Le porte d’accesso alla curva nel
recinto del campo sono tutte chiuse a chiave, ma dall’interno.
Basterebbero almeno due idranti per fermare gli inglesi, ma
nessuno ci pensa, forse neanche ci sono o bisognerebbe vedere se
funzionano… L’imbecillità s’è manifestata al suo culmine nella
disorganizzazione assoluta dei responsabili politici e militari
della Municipalità che hanno predisposto sommariamente i
dettagli di un evento notoriamente a grave rischio. Moltissimi
tifosi, disperatamente, provano a scavalcare le inferriate,
crocifiggendosi nel filo spinato, alcuni passano, ma vengono
prontamente inseguiti e colpiti dalle bastonate dei poliziotti.
Nella curva opposta gli ultras bianconeri fremono assistendo
preoccupati e in gran fermento alla scena apocalittica davanti
ai loro occhi in quegli istanti. Quel settore è troppo distante
dal loro, nonostante ciò, generosamente, alcuni scendono
velocemente sulla pista di atletica, cercando in ogni modo di
raggiungerlo, ingaggiando immediatamente durissimi scontri in
ogni zona del campo con la polizia che li tampona a fatica. Una
battaglia dentro l’altra mentre, intanto, gli inglesi,
applicando la tattica, indietreggiavano prima di qualche metro,
creando un vuoto nelle gradinate, poi, ricompattandosi in
numero, forze e armi, replicavano un’altra carica con
altrettanta ferocia.
Di colpo si udì un tonfo, sordo:
per la pressione insostenibile della folla era crollato
letteralmente un pezzo di stadio, parte del muretto di cinta del
settore Z. La gente improvvisamente cadde nel vuoto, scivolando
e precipitando a frotte, corpi su corpi, aggrovigliandosi come i
grani in un rosario di afflizione. In quel malefico groviglio di
cuori stipati "Sorella morte" coglie insaziabile le sue primizie
e schiacciandoli, calpesta, trafigge, lacera, soffoca, spegne
senza pietà ed inesorabilmente a sé rapisce, senza fare
distinguo di età, di sesso, di provenienza, di storia, di
sentimento. Ora, paradossalmente, la via di fuga sul campo è
libera, perché l’inferriata del recinto, scardinata dal muro per
effetto del crollo, ha ceduto, accartocciandosi e
intrappolandovi persone sotto il peso delle altre arrampicate a
scavalcarla in preda al panico, raggiungendo il prato verde di
gioco. L’eden per centinaia di feriti, contusi, lussati,
fratturati, asfissiati. Svengono in tanti, altri miracolosamente
illesi vagano tremanti, pallidi come fantasmi, alla ricerca di
amici e parenti. Chi, poi, mezzo moribondo riprende conoscenza
scopre il volto e le braccia amorevoli di un volontario
infaticabile della croce rossa che lo stava rianimando, gli
unici cavalieri senza macchia di quella sera.
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La tragedia annunciata ed evitabile
si era appena consumata nel piatto fondo della ingorda massaia
senza cuore, la U.E.F.A. Sugli spalti del settore Z lo scenario
è lo stesso al termine di un bombardamento aereo: cadaveri e
feriti intrappolati fra le macerie, vestiti, scarpe, borse e
oggetti personali sparsi come una semina dall’inferno. Le urla
di dolore e di rabbia dei feriti e dei familiari delle vittime,
la disperazione e l’ardore di quei soccorsi improvvisati da
volenterosi eroici su tramonti precoci di vite. In fila avanzava
il serpentone dei gendarmi neri, in tuta da combattimento,
oramai inutili spaventapasseri a guardia della distruzione. Gli
Inglesi ballano e cantano strafottenti, a pochi metri dal
massacro. Qualcuno di loro più sobrio va a caccia dei portafogli
e scaglia per aria gli oggetti rovistati, un altro urina per
terra, dove gli capita. C’è pure chi fa le boccacce ai morti.
Oramai, "la lezione" è stata inflitta agli Italiani, la vendetta
consumata, la curva sfondata e conquistata. Forzato l’accesso al
settore, una carica massiccia e molto decisa viene sferrata
dalla gendarmeria belga che li allontana di forza e
definitivamente dal luogo dell’eccidio, ricacciandoli nel
settore di pertinenza, molto più che stipato. Insomma, la stalla
viene richiusa alla meglio dopo che le iene hanno già scannato
gli agnelli. Adesso non resterà altro agli inquirenti che
quantificare il dolo, ma è sempre bene precisarlo che la vita
umana non avrà giammai realmente un prezzo soddisfacente.
La tribuna viene invasa da tifosi
scampati al pericolo che si raccontano sudati e insanguinati ai
giornalisti, raccomandandosi soprattutto di una telefonata a
casa, consegnando prefissi e numeri scritti su un pezzettino di
carta. Non esistevano ancora i telefonini, non c’era internet, a
quei tempi. Lassù c’è anche l’infermeria dello stadio che
dispensa i primi soccorsi. La diretta delle televisioni mondiali
documentava muta o con parole affannate di circostanza
l’inaudito. In Italia toccò al telecronista sportivo della Rai,
Bruno Pizzul, l’ingrata pratica di condurre con la consueta
professionalità il racconto di morte. Alcuni dei feriti più
gravi erano stati portati d’urgenza negli spogliatoi della
Juventus perché li soccorresse il medico sociale del club, il
Dott. La Francesco Neve. Non è assolutamente da escludere, anche
se questa è una informazione trapelata ufficiosamente, ci fosse
anche qualcuna delle vittime. Le salme dei caduti venivano
trasportate frettolosamente a braccia o su barelle di ogni tipo
fuori nell’antistadio. I loro volti erano vistosamente gonfi,
lividi e con gli occhi spalancati, poi, una volta adagiati,
coperti pietosamente da sciarpe o bandiere bianconere. Alcuni
ultras della Juventus erano riusciti a vincere la strenua
resistenza delle forze dell’ordine belghe ed avevano raggiunto
la curva "Z" scoprendone l’orrore. Stravolti, ritornando nel
proprio settore ad informare tutti, incrociarono alcuni
giocatori della Juventus, molto turbati, usciti dagli spogliatoi
per cercare di calmare i tifosi esagitati. Gli riferirono tutto
credibilmente, chiedendo di non disputare più quella partita per
rispetto dei morti. I calciatori ascoltavano tutto, solidali e
sempre più scossi, dispensando parole di conforto e ricevendo
abbracci da tutti, senza negarsi a nessuno.
Lo stadio, intorno, era diventata
una fortezza predisposta ad un assedio. Persino l’esercito era
stato allarmato mentre i battaglioni della gendarmeria chiamati
in rinforzo da altri presidi si andavano via, via, schierando
intorno al campo. L’avvocato Agnelli, compresa la gravità
moralmente insostenibile della situazione, lasciò lo stadio
scuro in volto. Suo figlio Edoardo, al seguito della squadra,
sprofondato nella depressione restava in preda ad una crisi di
pianto sulle scalette degli spogliatoi. In un’animosa e
drammatica riunione dei dirigenti dei Club con i vertici della
UEFA, Boniperti espresse autorevolmente la volontà della
Juventus Football Club di non disputare quella sera la finale.
Le autorità belghe e l’UEFA di contro gli intimarono di
ritenerlo, in questo caso, responsabile insieme al suo club
dello scoppio di nuovi disordini e di eventuali altre vittime,
perché la partita serviva all’esercito al fine di blindare in
sicurezza dentro e fuori l’impianto sportivo e per presidiare
successivamente, al termine della gara, il rimpatrio degli
inglesi e il deflusso degli altri spettatori dallo stadio. Il
Liverpool acconsentì a patto che fosse convalidato il risultato
finale dell’incontro ed assegnato regolarmente il titolo
europeo. La Juventus, messa spalle contro il muro dalla "ragion
di stato", dovette piegarsi a malincuore per le inoppugnabili
motivazioni di ordine pubblico. I dirigenti UEFA comunicarono
ufficialmente che quella partita sarebbe valsa agonisticamente a
tutti gli effetti per l’assegnazione del trofeo. Trapattoni,
l’allenatore della Juventus, appena informato della notizia,
intraprese un accorato discorso riunendo la squadra nello
spogliatoio, con il quale provò a pungere nell’orgoglio e nella
grinta i suoi calciatori, del tutto scaricati psicologicamente
dalla negatività crudele degli eventi. La similitudine di un
generale prima della battaglia, dove i nemici più ardui da
abbattere sono più che altro fantasmi, dei sensi di colpa.
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In seguito alla lettura di un breve
comunicato letto all’altoparlante dello stadio dai capitani
delle squadre, le due formazioni e la terna arbitrale scesero
sul terreno di gioco con quasi un’ora e mezzo di ritardo. Sugli
spalti in ogni settore un clima surreale di festa misto a lutto
divideva il pubblico fra cori e mutismo, fumogeni e lacrime.
"Juve !, Juve !, Juve !" urlavano in curva come un mantra
d’amore i sostenitori bianconeri. Fra loro chi era riuscito a
dimenticarlo subito, chi non sapeva ancora bene cosa
dimenticare, chi non ci aveva creduto, chi faceva finta di non
saperlo, ma anche quelli che non riuscivano più a pensare a
nient’altro… Nonostante quei 38 poveri disgraziati, morti
ammazzati per una partita di pallone e nascosti di fuori, al
buio, nelle tende della croce rossa, a pochi metri dal muro
perimetrale dello stadio, il grande spettacolo doveva
continuare… Per salvaguardare l’immagine ed i laidi interessi
economici del governo del calcio, l’incapacità gestionale degli
organizzatori, delle forze dell’ordine e della politica belga e
del comune di Bruxelles si erano ben trincerati dietro il
paravento della militarizzazione di un evento completamente
sfuggito di mano a tutti quanti loro. Il nostro Presidente del
Consiglio, l’onorevole Bettino Craxi, comprendendo le trame
neanche tanto oscure del disegno, aveva provato, invano, con
sdegno e fermezza ad impedire lo svolgimento di quell’incontro
di calcio. Sul posto era presente anche il suo collega,
l’onorevole De Michelis, all’epoca ministro nel suo governo, ma
non ci fu praticamente più nulla da fare: l’ordine tassativo era
di salvare il grande circo con tutti i suoi carrozzoni,
giocolieri e parrucconi, prevaricando in qualsiasi remora la
morale, tanto, poi, l’adrenalina negli addetti ai lavori e degli
spettatori avrebbe bruciato nell’arena anche le ultime strenue
difese dell’etica.
E partita di calcio, fu. Tacconi,
il nostro atletico e muscoloso portiere, volava imbattibile da
un palo all’altro come Tarzan, rendendo vano qualunque tentativo
degli avversari. Il Liverpool ci metteva molta più forza e
convinzione, la Juve, al contrario, giocava come fosse imballata
e con la testa altrove, ma in quella serata senza più regole,
nel secondo tempo trovò fuori area persino un calcio di rigore.
Platini, imperturbabile, al 60° tirò angolato e lo segnò,
esultando con rabbia mista a felicità, proprio davanti alla
maledetta curva della morte. La capriola del clown e il battito
delle mani del pubblico pagante, nessuna importanza il sangue
ancora fresco degli acrobati, lo spettacolo doveva andare
avanti… Poi, in campo, poco o nulla più di uno sterile assalto
degli inglesi alla nostra area. Lo difesero con i denti, ma era
come se il risultato fosse già stato scritto nella coscienza di
tutti. 1-0 la scritta cubitale fosforescente sul tabellone
elettronico dell’Heysel: dunque, vincitori e vinti, ma in quella
mite serata di maggio a Bruxelles avevano perso tutti: lo sport,
l’uomo, la vita e forse anche Dio.
Il triplice fischio finale, quelle
lunghe maniche bianconere rivolte al cielo, anche se lacrimava
sangue. Juventus Campione d’Europa per un tripudio ipocrita di
caroselli d’auto che umiliavano le strade di Torino, per cui,
nonostante tutto, si festeggiava in Italia senza il minimo
ritegno quella vittoria, se pur legittima, imbrattata da una
strage, marchiata a sangue dal timbro dell’Agnello di Dio su
poco meno di 40 martiri. Anche i nostri beniamini sul campo
avevano smarrito il dovuto contegno, improvvisando in coppia o
in piccoli gruppi, saltelli di gioia e isolati giri di campo,
riunendosi tutti insieme, poi, sotto la curva dei tifosi,
sollevando a mo’ di trofeo un enorme pupazzo. Una immagine
eloquente… L’aspetto più grottesco in un lutto è proprio questo:
indossare a dispetto del pianto i ridicoli cenci della farsa.
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Alla Juventus la coppa dei campioni
fu consegnata da un delegato UEFA negli spogliatoi, senza una
cerimonia di premiazione, "alla chetichella". Era riposta dentro
una cassa di legno e lì, proprio così, sarebbe dovuta restare,
nella sua dimora più consona, quella di una bara… Invece Michel
Platini, seminudo, in un raptus d’orgoglio pensò male di
portarla alla luce dei riflettori sul campo per mostrarla ai
suoi tifosi, in totale delirio. Tutto si era compiuto. Lo stadio
si andava svuotando, non l’incubo dalla memoria, il peso in
certe coscienze vacue. La nostra squadra, ritornata in albergo
duramente provata dalla fatica e dallo stress emotivo
accumulato, correttamente non festeggiò la vittoria. Le
bottiglie di champagne sul tavolino dell’hall furono ignorate
mentre sul televisore accanto scorrevano senza interruzione le
immagini più cruente del telegiornale. In quel momento si
riaprirono loro gli occhi velati dall’effimero trionfo, sul
male… Su quello che realmente non potevano non avere visto e su
ciò che veramente non immaginavano di vedere… Nessuna estasi in
quella notte da campioni, solo il tormento di chi non aveva
reali colpe. In particolare di Scirea, Gaetano, il più sensibile
di quegli uomini, il più umano e il più autentico dei capitani
bianconeri di sempre. In un’altra zona della capitale belga,
all’ospedale militare, i parenti attendevano da molte ore di
riconoscere le salme dei loro cari. Notte insonne anche per le
molte famiglie, da Aosta a Lampedusa, alla disperata ricerca di
notizie dagli ospedali, chiamando il numero verde d’emergenza
attivato dal Ministero degli Esteri. Imprecisabile l’identità,
la conta reale e lo stato dei feriti lievi dimessi dai nosocomi
di Bruxelles, ma almeno era già stata ufficialmente stilata una
lista anagrafica quasi completa delle vittime e dei feriti
ricoverati più gravi.
Molti dei tifosi avevano ritrovato
a fatica il proprio pullman all’uscita, alcuni camminando
fasciati di garze, senza le scarpe o con un vistoso cerotto in
testa. Un mesto rientro di torpedoni con qualche posto vuoto e
un silenzio giudice, senza appello. Finalmente la sosta al primo
autogrill, la coda per telefonare, il battito del cuore a
tamburo di voga nella cabina, la caduta dei primi due gettoni
come una liberazione… Dall’altro parte del filo, 1500 chilometri
distante, quella preghiera alla madonna ora davvero esaudita e
un filo di voce che si arrende all’unico pianto che rinfranca
l’anima, di gioia. Poi, un sonno ballerino, le prime luci
dell’alba e l’amaro risveglio sorseggiando un caffè, quello
strazio in bianco e nero sulle prime pagine dei quotidiani.
Sulle testate dei giornali l’enfasi di una grande vittoria
scalzata tragicamente dalla cronaca funerea, la certezza senza
smentite di una partita di pallone giocata al cimitero.
30 maggio 1985, Aeroporto di
Caselle, è quasi di mezzogiorno, in pista le ambulanze attendono
l’arrivo delle barelle con i feriti. Vi sono molti fotografi,
anche qualche tifoso. Sulla scaletta mobile scendono dall’aereo
i nostri calciatori in divisa. Sono belli, ad aspettarli c’è il
sole e luccica persino la Coppa del dolore. Sergio Brio,
d’istinto, la solleva in aria e per un attimo non sembra più un
gigante. La leggenda ha inciampo nella risibile vergogna, il
mito della nostra grande storia spergiura sulla bibbia aperta
delle più epiche imprese. Persino la coppa, con una sciarpa
bianconera annodatale, parve abbassare le grandi orecchie dallo
scorno. Qualcosa pur valeva in fin dei conti, ma proprio niente
in quel preciso istante, quanto Gerusalemme alla fine di una
crociata, quanto la musica di una banda di paese che accompagna
il funerale. Per questo e per sempre rammentalo, Francesco,
figlio mio adorato, non c’è vittoria, non ci sarà mai una vera
conquista senza di lei, perché la vita è prima di ogni altra
cosa.
17 Ottobre 2013
Domenico Laudadio
Custode Museo Virtuale
Multimediale www.saladellamemoriaheysel.it
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N.B. COPYRIGHT Beppe Franzo
"80 voglia di Curva Filadelfia", Novantico
Editore 2014
Video: Simone
Ramella - Emilio Targia
Fotografie: Ansa.it -
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